domenica 1 maggio 2011

Monica Rizzi, la saga dell’assessore leghista continua: dalla maga ai dossier. - di Gianni Barbacetto.



Nuovo capitolo della saga di Monica Rizzi, la leghista della Valcamonica già levatrice elettorale di Renzo Bossi poi diventata assessore regionale lombardo allo Sport, e della sua maga di fiducia,Adriana Sossi. Capitolo perfino più inquietante delle puntate precedenti, raccontate sulle pagine di questo giornale già dall’aprile dell’anno scorso: ora compaiono sulla scena accuse di dossieraggio ai danni degli avversari politici interni alla Lega.

Protagonista, un sottufficiale della Guardia di finanza in forza al Comando provinciale di Brescia, il maresciallo Francesco Cerniglia, in contatto con l’assessora e la sua maga. Avrebbe creato dossier illegali su esponenti del Carroccio considerati “traditori” della Lega o comunque concorrenti o avversari personali di Monica Rizzi. Tra le vittime del dossieraggio ci sarebbero l’ex consigliere regionale Ennio Moretti, il vicesindaco di Salò, un dirigente dalla Asl di Mantova e due giornalisti, Marco Marsili, ex addetto stampa di Monica Rizzi, e Leonardo Piccini, collaboratore del “Fatto Quotidiano”. Sono gli ultimi due a sostenere che il maresciallo avrebbe redatto dossier illegali, anche attingendo informazioni da banche dati delle forze di polizia.

Accuse gravi. Sarà ora la Procura di Brescia, a cui i due giornalisti si sono rivolti, a verificare se le loro denunce sono fondate. Una prima conferma la dà Giulio Arrighini, ex parlamentare del Carroccio poi uscito dal partito e oggi segretario nazionale della Lega Padana. Racconta di aver ricevuto la visita di un misterioso personaggio che non si è presentato, ma gli ha fatto vedere un faldone pieno di cartelline con notizie sulla vita privata di esponenti della Lega. Arrighini ha annusato odor di vendette interne al partito e ha detto di non essere interessato alla merce. Non ha alcuna certezza, naturalmente, che si trattasse di Cerniglia o di materiale riconducibile a lui. Secondo i due giornalisti che hanno presentato la denuncia, però, il maresciallo collabora, nel tempo libero, con la Cagliostro

Investigazioni, un’agenzia privata di Brescia che fa capo proprio ad Adriana Sossi, la maga di Monica Rizzi nonché autrice dell’imperdibile libro “La mia vita con gli spiriti”: Adriana è in contatto, beata lei, con “un extraterrestre della galassia di Oron”, ma è anche beneficiaria di una collaborazione remunerata (4 mila euro) con la Regione di Roberto Formigoni. Ottenuta naturalmente grazie a Monica Rizzi, che già da mesi deve affrontare cattiva stampa a causa di alcune sue mosse false. La prima è l’esibizione di un titolo di “psicologa e psicoterapeuta infantile”, specializzata nel “recupero dei minori abusati”, senza ahimè essere iscritta all’Albo degli psicologi, né avere uno straccio di laurea. La seconda è una letteraccia, rivelata dal “Fatto Quotidiano” il 10 marzo, inviata all’assessore al lavoro della Provincia di Brescia per protestare contro una funzionaria dell’ispettorato provinciale del lavoro colpevole di aver fatto i controlli di legge in aziende in cui è coinvolto il suo fidanzato, l’imprenditore Alessandro Uggeri. Ora arriva la storia dei dossieraggi. L’assessora della Valcamonica nega tutto: “Smentisco in maniera categorica le illazioni, totalmente prive di fondamento, circa fantasiosi dossier”. E promette querele.

Da Il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2011

Libia, ambasciata italiana in fiamme La Farnesina: “Noi andiamo avanti”.


Sotto assedio anche le sedi dell'Onu nella capitale libica. In nottata è arrivata la notizia della morte del figlio più giovane del Colonnello. I ribelli hanno festeggiato con grida di giubilo. Preoccupazione da parte del nostro ministro dell'Interno dopo la dichiarazione di guerra all'Italia da parte del Raìs.


Prima la morte (presunta) del figlio più giovane del Raìs, ora un incendio all’ambasciata italiana a Tripoli confermato poco fa dalla Farnesina. La notizia inquieta e non poco alla luce delle parole pronunciate ieri da Gheddafi: “Porteremo la guerra in Italia”. Frasi considerate preoccupanti dal ministro Maroni. ”Gli attacchi contro gli edifici della nostra ambasciata – si legge, invece, in una nota del ministero degli Esteri – non indeboliranno la determinazione dell’Italia a continuare la propria azione, insieme agli altri partner, a difesa della popolazione civile libica in ottemperanza alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite”. La situazione, però, preoccupa e non poco. Oltre alla nostra ambasciata, infatti, sono state attaccate le sedi dell’Onu. Da qui l’annuncio delle Nazioni Unite di ritirare tutto il proprio personale internazionale dalla capitale libica. La Gran Bretagna, intanto, ha deciso l’espulsione dell’ambasciatore di Libia, “in seguito ad attacchi contro le missioni diplomatiche a Tripoli”, fra cui “l’ambasciata britannica”. Lo ha annunciato oggi il ministro degli esteri William Hague.

La morte del figlio del Raìs sembra aver rinforzato la controffensiva lealista. L’artiglieria del Colonnello ha di nuovo sparato contro la città tunisina di Dehiba, al confine con la Libia. Nei giorni scorsi, nell’area c’erano stati scontri con i ribelli per la conquista di una postazione alla frontiera tra i due Paesi. Nel frattempo i ribelli fanno sapere che l’esercito sta tentando di avanzare su Zenten, città a sud ovest della capitale.

La situazione si complica. E non solo sullo scacchiere libico. Decisivo, a questo punto, è il voto di martedì prossimo sulle tre mozioni presentate da Pd, Idv e Lega. Tema sul quale è intervenuto proprio oggi Umberto Bossi annunciando, senza tanti giri di parole, che se il Pdl “non voterà la nostra mozione, il governo cade”. Eppure uno dei paletti del Carroccio, la data della fine del conflitto, sembra lo scoglio maggiore. “Fissare una data certa è complesso”. Questa la posizione del ministro Frattini.

Il figlio di Gheddafi ucciso e le critiche russe.

Nella notte i raid della Nato hanno ucciso Saif al-Arab Gheddafi, ultimogenito del leader libico. Nell’attacco, secondo quanto racconta un portavoce del governo di Tripoli, hanno perso la vita anche tre nipoti del colonnello. Il leader libico Muammar Gheddafi si trovava nell’edificio colpito da un raid della Nato, ma è rimasto illeso. L’attacco dell’alleanza atlantica ha sollevato dure critiche da parte del governo russo, per il quale, è stato fatto un uso sproporzionato della forze, andando così oltre la risoluzione dell’Onu. E mentre monta la polemica internazionale, sempre oggi il ministro dell’Interno Bobo Maroni è tornato sulla dichiarazione di guerra del Colonnello all’Italia. “Le parole di Gheddafi – ha detto il capo del Viminale – confermano che la situazione è da tenere sotto controllo, lo stiamo facendo e abbiamo intensificato azioni di verifica sul territorio nazionale”. In più la notizia della morte di Saif al-Arab Gheddafi “farà arrabbiare Gheddafi ancora di più”. Da quando è scoppiata la crisi libica comunque “noi abbiamo intensificato le attività di controllo per evitare che succeda qualcosa”.

La notizia della morte del figlio del Raìs è giunta nella notte. I ribelli di Bengasi hanno accolto l’uccisione dell’ultimo figlio di Gheddafi, con urla di giubilo e continue salve di mitra sparate in aria. “Sono così contenti che Gheddafi abbia perso suo figlio che stanno sparando in aria per celebrare (l’evento)”, ha dichiarato il colonnello Ahmed Omar Bani, portavoce militare del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi.

Saif al-Arab Gheddafi era il sesto ed ultimo genito del leader libico. Nato nel 1982, è il figlio di Safia Farkash, la seconda moglie di Gheddafi. Saif al-Arab era anche il figlio più gaudente e meno coinvolto nella gestione dello Stato. Dal 2006 ha studiato a Monaco di Baviera alla Tecnische Universitat. Qui è rimasto coinvolto in una rissa con una guardia del corpo di un night club per difendere la fidanzata che era stata allontanata dal locale. La polizia tedesca nel 2008 gli sequestrò la potente Ferrari 430 per l’eccessivo rumore del motore che si divertiva a mandare fuori giri di notte. Lo stesso anno fu sospettato di contrabbandare armi da Monaco a Parigi in un’automobile con targa diplomatica. Il caso però fu lasciato cadere dalla procura del capoluogo bavarese.

Era Muammar Gheddafi il vero obbiettivo del raid della Nato. Lo ha detto il portavoce del governo di Tripoli, Mussa Ibrahim, in una conferenza stampa. “L’operazione mirava ad assassinare direttamente il leader di questo paese”, ha detto Ibrahim ai giornalisti. “La Guida (Gheddafi) è in buona salute, non è rimasto ferito, sua moglie è anche lei in buona salute e non è rimasta ferita ma altre persone sono state colpite”, ha detto Ibrahim. “L’attacco ha provocato il martirio del fratello Saif al-Arab e quella di tre nipotini della Guida”, ha aggiunto il portavoce. Saif, ha poi detto, aveva 29 anni. In precedenza il portavoce aveva accompagnato i giornalisti stranieri a vedere un edificio bombardato a Tripoli. Visti i danni, molti dei giornalisti hanno dato per scontato che non ci fossero sopravvissuti.

Muammar Gheddafi per la seconda volta sopravvive a un bombardamento aereo. La prima volta perse la figlia, anche se adottiva. Era il 15 aprile 1986 i caccia-bombardieri F111 Usa su ordine dell’allora presidente Ronald Reagan effettuariono un bombardamento su Tripoli ma anche quella volta il Colonnello se la cavò.



Il Trota a Gheddafi: “Non siamo colonizzatori”.



“Nessun governo colonizzatore”. È questa la risposta di Renzo Bossi al colonnello Gheddafi, che nelle ultime ore ha rincarato le accuse contro l’Italia, definendo il governo di Berlusconi “fascista e colonizzatore”. Il figlio del Senatùr non raccoglie le provocazioni, e sull’intervento in Libia, causa dello scontro tra premier e Carroccio, guarda avanti: “In ogni caso l’impegno dovrà essere breve – spiega – per riportare a casa i nostri il più in fretta possibile”. Soltanto ieri sera il leader della Lega Umberto Bossi aveva assicurato che “sulla Libia non si tratta”. Ma l’alleanza con Berlusconi non è in discussione: “Con i voti del Pdl stiamo portando a casa il federalismo”, ricorda ancora Renzo Bossi, che chiarisce: “La Libia è una cosa, il governo un’altra”. Video di Franz Baraggino.



Da Bossi ultimatum a Berlusconi "Se non vota la mozione salta il governo".


Il leader del Carroccio riaccende lo scontro sulla missione militare mentre Maroni parla degli immigrati: "La mia previsione di 50 mila profughi in arrivo temo si avvererà". Polemica con la Ue: "L'Europa non reagisce, non dà risposte, pone solo limiti"

ROMA - Nella doccia scozzese sul caso Libia alla quale la Lega sta sottoponendo da giorni Silvio Berlusconi oggi è la volta dell'acqua gelata. "Se non la vota vuol dire che vuol far saltare il governo", ha tagliato corto stamane Umberto Bossi in riferimento alla mozione presentata dal Carroccio 1 per fissare una data precisa alla fine dell'intervento italiano nella missione Nato. Bossi, che sta partecipando alla 'Batelada', una passeggiata organizzata dal Sindacato Padano sul battello al lago di Como, ha quindi ribadito il suo no all'intervento contro il regime di Gheddafi: "Non serve a niente bombardare ammazzi solo la gente. Poveracci, poi scappano".

Prima di Bossi a riaccendere lo scontro sulla vicenda libica tra alleati della maggioranza era stato il ministro dell'Interno Roberto Maroni. "Le parole di Gheddafi 2 - aveva avvisato - confermano che la situazione è da tenere sotto controllo, lo stiamo facendo e abbiamo intensificato azioni di verifica sul territorio nazionale". Intervenendo a margine dell'inaugurazione di una sede della Lega Nord, il titolare del Viminale ha parlato anche del problema degli immigrati. "In un giorno - ha sostenuto Maroni - sono arrivati 3 mila profughi dalla Libia. Spero non accadrà, ma se continua così la mia previsione di 50 mila arrivi purtroppo si realizzerà".

Maroni ha tenuto a sottolineare che trattandosi di rifugiati in fuga da una guerra "non possono essere rimandati indietro finché c'è la guerra in Libia e la regola europea è che se i rifugiati arrivano in un Paese devono rimanere li". Poi il ministro leghista rinfocola la polemica con l'Unione europea. "Ho fatto l'accordo con la Tunisia, che sta funzionando - spiega - ma sto ancora aspettando che l'Europa mi dia una risposta se vuole collaborare: Se non ci muovevamo noi eravamo ancora all'inizio". A giudizio di Maroni "l'Europa non reagisce, non dà risposte, pone solo limiti". Detto questo, il ministro dell'Interno ha precisato di non voler passare per quello che si lamenta e basta. "Noi non ci lamentiamo - ha continuato -, chiediamo all'Unione Europea, a cui diamo 14 miliardi di euro all'anno, di darci una mano quando ci sono problemi gravi".

Quanto allo scontro con il premier Maroni ricorre all'ironia. "Berlusconi - ha detto - è una persona che adoro perché è il presidente del Milan ma nonostante ciò abbiamo polemizzato con lui sulla questione della Libia. E' una polemica giusta perché abbiamo ragione noi".

Malgrado il rialzarsi dei toni, l'opposizione resta però scettica sulle reali intenzioni di Bossi. "Come previsto la Lega torna a seguire il Carroccio dell'imperatore e getta fumo negli occhi per far star buoni i suoi elettori - si legge in una nota diffusa dall'ufficio stampa del Pd - Ancora una volta Bossi, pur di avere le prebende a Roma, abbassa lo spadone nel Nord. Possono dire quello che vogliono e mettere tutte le scuse del mondo, ma la sostanza è che, come avevamo previsto, la Lega grida al nord solo per fare propaganda. La realtà è che sostiene Berlusconi, tutte le sue leggi e tutti i suoi affari". Analisi simile arriva dall'Udc. "Al di là delle dichiarazioni minacciose la Lega - afferma il deputato e responsabile enti locali dell'Udc, Mauro Libè - non ha nessuna intenzione di opporsi realmente all'intervento in Libia. Tutte le polemiche e i ricatti più o meno velati di questi giorni, infatti, hanno il solo obiettivo di rafforzare la posizione del Carroccio all'interno della bellicosa e variegata coalizione di maggioranza dopo l'ingresso dei responsabili, forti del merito acquisito negli ultimi voti di fiducia". "Bossi - prosegue l'esponente centrista - ha ben chiaro che per ottenere qualcosa da Berlusconi non serve un progetto politico, ma si deve far intravedere al Cavaliere una possibile crisi di governo. Alla fine, dunque, tutto si risolverà nel recupero di Brigandì come sottosegretario".



Il nucleare che non c’è ci costa già 4 miliardi.



Questa al cifra stimata per il riprocessamento del combustibile dalle scorie. Un lavoro pericoloso cui gli Usa hanno rinunciato. Ancora più esorbitanti i costi di smantellamento delle vecchie nucleare. Quasi tutte quelle attive oggi risalgono agli anni 70 ed entro il 2020 verranno chiuse

Tra i molti dubbi una cosa è certa: il costo che gli italiani stanno già pagando per il “riprocessamento” del combustibile esausto e per il decommissioning (smantellamento) dei loro impianti nucleari non più funzionanti.

“Riprocessare” il combustibile significa, infatti, separare dalle scorie le parti riciclabili: l’uranio non ancora utilizzato e soprattutto il plutonio formatosi nel combustibile stesso durante il funzionamento del reattore. Si tratta di lavoro “sporco” perché presenta rischi di proliferazione dovuti al fatto che parte del materiale sia sottratto senza che ve ne sia evidenza. Per evitare questi rischi gli Stati Uniti sino ad oggi hanno scelto di non riprocessare le loro scorie, considerando il combustibile come un vero e proprio rifiuto a perdere. Molti altri Paesi sono in una situazione di attesa, cosicché – secondo i dati forniti dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Aiea – solo un terzo del combustibile nucleare irraggiato prodotto sino a oggi nei reattori di tutto il mondo è stato riprocessato, mentre tutto il resto è stoccato, in attesa dello smaltimento o della decisione circa il suo destino.

L’Italia sceglie di trattare le scorie

A differenza di questi Paesi, l’Italia ha sposato, per il combustibile esausto proveniente dagli impianti oggi fermi, la scelta del riprocessamento, una strada rischiosa e costosa, tant’è che per onorare il contratto con la francese Areva, dal primo gennaio 2007 è stata triplicata la quota della componente A2 (nella bolletta), i cosiddetti “oneri nucleari”, che hanno comportato, come dice l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, “un aumento dell’ordine di un punto percentuale sulla tariffa domestica”. Al netto di imprevisti, la stima degli oneri complessivi del programma di riprocessamento trasmesso all’Autorità, a dicembre 2006 e confermato a marzo 2007, ammonta a 4,3 miliardi di euro, comprensivi, sia dei costi già sostenuti dal 2001 a moneta corrente, sia di quelli ancora da sostenere a moneta 2006.

La stima dei costi per la chiusura del ciclo del combustibile è articolata in tre distinte partite:

1. la sistemazione del combustibile irraggiato delle centrali di Trino, Caorso e Garigliano ancora stoccato in Italia, del quale è previsto l’invio in Francia per il riprocessamento, con ritorno dei prodotti post-ritrattamento al deposito nazionale

2. la sistemazione della quota parte Sogin del combustibile della Centrale di Creys-Malville, per la quale è prevista la cessione onerosa a EdF, con la conseguente presa in carico da parte di Sogin del relativo plutonio presso gli stabilimenti della Areva e quindi la successiva cessione onerosa di detto plutonio

3. la sistemazione del combustibile irraggiato che, a fronte di contratti già stipulati, è stato già inviato in Inghilterra e i cui prodotti post-trattamento saranno trasferiti direttamente al deposito nazionale

Devono poi aggiungersi i costi per le attività tecniche a carattere generale, di supporto, funzionamento sede centrale e imposte. Tutti questi costi sono oggi fatti pagare agli utenti con la bolletta dell’energia elettrica.

Smantellare le centrali

La grandissima maggioranza delle centrali nucleari oggi operanti nel mondo sono state ordinate negli anni ’60 e ’70 (quelle ordinate dopo il 1979 sono pochissime) e sono entrate in servizio negli anni ‘70 e ’80. All’inizio si assegnava a una centrale nucleare una vita produttiva di trent’anni, estesa poi a quarant’anni. Entro il 2020 tutte o quasi le centrali nucleari oggi attive nel mondo compiranno quarant’anni e dovrebbero essere smantellate.

Nel caso italiano gli esperti sostengono che i costi di decommissioning (comprensivi anche del confinamento delle scorie) equivalgono a una volta e mezzo il costo di una nuova centrale. D’altra parte Francia, Inghilterra e Stati Uniti fanno valutazioni analoghe. Nel 2005 il ministero dell’Industria francese, in base a un criterio stabilito nel 1991, valutava in 13,5 miliardi di euro il costo di smantellamento del parco nucleare, ma già nel 2003 la Corte dei conti aveva valutato tale costo in una forchetta di 20-39 miliardi di euro, mentre una commissione ad hoc parla oggi di centinaia di miliardi di euro (e si capisce che i francesi, che pagano oggi il 30% in meno degli Italiani la bolletta elettrica, in realtà stanno staccando un acconto e che la richiesta di Edf al governo di un aumento di 20 euro al Mwh per il decommissioning, finisce col pareggiare già adesso il conto).

L’Inghilterra ha prodotto la sua prima stima del costo della “uscita “ del Paese dal nucleare in circa 80 miliardi di euro, una cifra gigantesca, oltre il doppio del costo di costruzione ex-novo dell’intero parco nucleare inglese. Per il governo Usa trattare i 25 reattori a minore potenza già fermi costa attorno a 500 milioni di dollari a impianto. Senza contare che lo stesso studio di previsione ritiene che occorrano almeno 50 anni di “fermo impianto” per poter consentire nei 60 anni successivi l’accesso sicuro degli operatori. Tutti rilievi e conti confermati dall’Ue, che, attraverso il Joint Research Center nel sito di Ispra (Varese), si appresta al decommissioning di Essor – un reattore sperimentale di 42 MW che ha prodotto nella sua attività 3.000 m3 di scorie – con un budget ventennale di oltre 1,5 miliardi di euro complessivi.

Da ciò si deduce che i costi “nascosti” e “rinviati” del nucleare sono ancora ben lontani dall’essersi manifestati interamente e sono dello stesso ordine di quelli di costruzione. Oggi cominciano a venire al pettine. La chiusura degli impianti che compiono 40 anni di attività, a seguito della crisi finanziaria e dei bilanci statali, viene rinviata di qualche anno, come in Germania e Spagna, ma è una necessità ineludibile. Quindi i costi (e i problemi) del decommissioning salgono alla ribalta e quelli “veri” del nucleare inevitabilmente lievitano. Potremmo dire che, per ogni euro pagato in fase di costruzione di un nuovo reattore oggi, occorre ipotecare un analogo pagamento che andrà a scadenza entro la fine del secolo.

di Mario Agostinelli (Portavoce del Contratto mondiale per l’energia e il clima. L’articolo, pubblicato in anteprima da ilfattoquotidiano.it, uscirà a Maggio sul mensile Valori)



Quella fotografia che ha messo B. nei guai. - di Luca Telese


Quando il Caimano inseguiva miss col camper di Telemilano 58 e fu fotografato da Mauro Vallinotto. Uno dei primi a ritrarre il "Dottore", insieme a Evaristo Fusar e Alberto Roveri

“Senta Evaristo, ci verrebbe questo fine settimana, ad Arcore, a fotografarmi?”. Evaristo Fusar oggi ha 77 anni. Ne aveva 34 nel 1977, quando arriva quella telefonata, cortese ma insistente, da un giovane imprenditore in ascesa, che gli domanda un servizio su di sé. Tutto poteva immaginare tranne che quelle foto le avrebbe fatte, malgrado all’inizio fosse perplesso. E che sarebbero rimaste negli annali come i primi ritratti posati di Silvio Berlusconi (oggi valgono più di uno scoop di paparazzi su Belén Rodriguez). E poi che lui, con “il Dottore” (così si faceva chiamare) avrebbe stretto un rapporto decennale. Alla fine, l’incredibile collaborazione che sta per raccontarmi si concluderà con una proposta di assunzione prendere o lasciare: “Lasci tutto e venga alla Mondadori”. Proposta rifiutata anche se economicamente allettante, per innato spirito di indipendenza del destinatario.

Alberto Roveri, invece, entra negli uffici della Edilnord nel 1977. È ormai giunto alla fine del suo servizio quando, mentre sta riponendo con cura gli obiettivi nella sua borsa di pelle, guarda ancora per una volta il numero uno della società immobiliare. Non sa bene perché, ma – a un tratto – gli sembra di poter immortalare un’inquadratura diversa dalle altre, una luce particolare che prima non aveva. Allora riprende la macchina, la impugna, segue un impulso istintivo e gli dice: “Dottore, mi lascia fare un altro paio di scatti?”. Il diaframma corre veloce, click, click, click. “Ci credi? Della presenza della pistola – racconta oggi divertito – mi sono accorto solo 30 anni dopo”. Un altro scatto che vale oro.

Mauro Vallinotto “il dottore” lo aveva già conosciuto, e mi racconterà anche lui come. Ma resta folgorato dalla sua apparizione a Viareggio, al concorso di Miss Italia del 1979: “Era sbarcato in riviera con un camper attrezzato con tanto di letto matrimoniale e due operatori al seguito, per filmare la finale di Miss Italia. Rimasi stupito del fatto che un imprenditore come lui facesse il cronista. In una delle pause – racconta Vallinotto – incuriosito per la scena, seguendo un impulso, scattai una foto che oggi pare innocente: Berlusconi era seduto, accanto alle aspiranti miss, e scherzava con le ragazze. Quando sentii l’otturatore che scattava non potevo certo immaginare che, proprio per via di quella foto, mi avrebbe urlato addosso, in pubblico, furibondo: ‘Vergogna! Mi hai rovinato la vita, mascalzone!’”.

Né il colloquio di Fusar, né la pistola immortalata da Roveri, e nemmeno “il camper abborda-miss” sono elementi casuali. L’ingresso nella villa di Arcore per Silvio Berlusconi è di più di un trasloco, l’anno zero della sua biografia, il punto di ripartenza di una palingenesi pubblica e privata. È – per essere più precisi – il momento in cui riesce ad avviare un lungo e meticoloso processo di edificazione della propria immagine. Dagli scatti di gioventù, ridenti e fuggitivi, talvolta rubati o d’occasione, il fondatore di Mediaset sta passando al ritratto posato, alla costruzione scientifica del proprio immaginario. Passa in quell’anno dal tempo dell’azione a quello della prosa plasmando, ex novo, un personaggio e un immaginario fondati su un ingrediente fondamentale: se stesso.

È dunque quasi normale che il futuro imprenditore catodico si metta in cerca di talenti che possano documentare il suo prodigioso salto di censo, raccontando il suo nuovo romanzo di formazione. Da questo momento in poi, l’iconografia ufficiale del berlusconismo non consentirà più gli sguardi birichini del chansonnier giramondo, non ritrarrà mai il giovane arrampicatore sociale con mustacchi e capelloni lunghi, o il giovanotto con la pipa pretenziosa e il sorriso ironico, ma solo l’imprenditore (aspirante) statista, il clone semiludico del duro da cinema americano, il sovrano regnante che intorno alla dimora nobiliare strappata ai Casati ha edificato il proprio regno. Sull’iconografia berlusconiana ha scritto un bellissimo libro Marco Belpoliti (Il Corpo del capo). Un libro che ha avuto una storia travagliata, dal momento che l’editore abituale del saggista, l’Einaudi (di proprietà Mondadori) aveva rifiutato di pubblicare il testo (poi uscito per Guanda). Ne Il Corpo del capo Belpoliti raccoglieva un’antologia delle foto che avevano costruito il culto del sovrano di Arcore, l’iconografia del capo predestinato. Manca una cosa che per un filosofo non ha senso, ma che per un giornalista è essenziale. Cercare gli autori di quei servizi e fargli raccontare “il giovane” Berlusconi. Così ho rintracciato i tre primi ritrattisti del sovrano per chiedere cosa ricordassero. Con Fusar, Berlusconi prospetta un’assunzione, chiede ritocchi sul naso di cui si lamenta persino con Montanelli (“È un grande fotografo, ma con la mattina non ci sa fare”), rivela che il suo modello è Reagan. Da Roveri si fa immortalare davanti al plastico di Milano 2, posa come lo zio Sam e chiede una pausa tra un servizio e l’altro dicendo: “Chiamo l’estetista e mi faccio il manicure”.

Ma è Vallinotto che ha il ricordo più stupefacente. Incrocia una prima volta Silvio Berlusconi a Milano, nel 1976. Lui è un collaboratore fisso dell’Espresso, quello è il costruttore di Milano 2. Ha appena 22 anni, ma è già un fotografo di moda affermato: “Alcune modelle mi parlano di questo imprenditore che fa delle feste animate, invita molte ragazze e ad alcune mette addirittura a disposizione degli appartamenti a Milano 2”. Mentre mi racconta questo particolare, ovviamente, rimango per un attimo di stucco e Vallinotto sorride: “No, no, ha capito bene: non è che mi sono confuso con il Bunga Bunga. È proprio quello che mi dissero di lui, nel lontano 1976, delle fanciulle che oggi definirei cloni della Carfagna. Ovvio che mi incuriosissi, no?”. In un’occasione i due si incontrano in una serata milanese, il giovane Vallinotto resta a sentire. Il suo sesto senso, non solo professionale, gli dice che con l’uomo di Milano 2 si rivedrà presto. Due anni più tardi il fotografo è alla presentazione di una minuscola tv via cavo che si sta trasformando in emittente privata. Nel 1979 Vallinotto, seguendo le piste delle sue modelle milanesi approda a Viareggio, per la finale di Miss Italia. “Mi vedo arrivare Berlusconi, a bordo di un pullman marchiato Telemilano 58”. Rimane doppiamente stupito. “Non trovavo strano solo che facesse interviste di persona. Ma anche che a un certo punto, riconoscendomi, mi aveva detto: ‘Scusi Vallinotto. Ho visto che ha scattato. Mi perdoni, le sembrerà una sciocchezza, ma devo chiederle se me le può cedere’”. Berlusconi incalza: “Posso dirle una cosa da uomo a uomo? Mia moglie non sa che io sono qui, mi capisce?”. Vallinotto, che ha fotografato anche il camper con cuccetta e lettino ricoperto di pelle nera (e una tv incassata in una parete), ci rimugina. “Ma se Berlusconi faceva le interviste e le mandava in onda, come poteva poi dire alla moglie di non essere stato al concorso?”.

Ipotizza che sia una scusa per mettere le mani sugli scatti. La cosa non gli piace, rifiuta. Le foto vengono comprate e pubblicate. Non succede nulla e Vallinotto dimentica dell’episodio. Ma, 15 giorni dopo, quando si ritrova alla finale del Campiello succede l’imponderabile. Una sagoma si stacca dalla platea e inveisce contro di lui: “Lui, incazzatissimo. Fuori di sé. Gridava: ‘Sei una carogna! Mi hai rovinato la vita! Per colpa tua mia moglie vuole divorziare!’. Io non rispondevo. Ma Berlusconi mi era addosso, agitava le mani sempre più minaccioso”. Non finisce con una rissa solo perché interviene, provvidenziale, un imprenditore di successo. “Una sagoma si interpose fra me e lui – ricorda oggi Vallinotto – Vittorio Merloni. Lo placcò come sui campi di rugby: ‘Silvio, lascia perdere! Non vedi che ci stanno guardando tutti? Non dargli questa soddisfazione, dai!’”. Fine di un matrimonio, nascita di un mito.

da il Fatto Quotidiano del 30 aprile 2011



Un fils de Kadhafi quitte Munich et laisse une ardoise d'un million d'euros.



Le fils de Mouammar Kadhafi, Saïf el-Arab, 28 ans, étudiant à l'Université de Munich, a quitté la Haute-Bavière, en omettant de rembourser quelque 900.000 euros à ses créanciers, écrit jeudi le quotidien allemand Süddeutsche Zeitung, se référant aux autorités locales.

"Il se peut que le jeune homme ait tout simplement trouvé un autre bel endroit où vivre dans ce monde", a dit un représentant de l'administration.

Saïf el-Arab Kadhafi a officiellement informé l'administration municipale de son départ, en indiquant qu'il retournait en Libye. Le journal suppose cependant qu'au lieu de la Libye, embrasée par de violents troubles populaires, Kadhafi junior se soit rendu à Paris.

Saïf el-Arab est arrivé à Munich en 2006 pour entrer à l'Université. Au début, il s'est installé dans le luxeux hôtel Bayerischer Hof,
en plein cœur de la capitale bavaroise, indique le journal.

C'est là que se déroule chaque année la Conférence de Munich sur la sécurité. Le jeune homme possédait aussi une villa dans le quartier de Bogenhausen et un appartement dans le sud-est de la ville.

Dans le même temps, de nombreux pays évacuaient par air et par mer leurs ressortissants travaillant en Libye, pris au piège des violences qui s'y poursuivent depuis le 15 février dernier et qui ont déjà fait des centaines de morts.