Un team di ricercatori giapponesi ha messo in discussione l’interpretazione delle storiche immagini dei buchi neri pubblicate nel 2019 e 2022.
Nell’aprile del 2019, la pubblicazione della prima immagine di un buco nero – quello supermassiccio al centro della galassia Messier 87 (M87) – fu celebrata come uno straordinario successo scientifico. Un risultato replicato nel 2022 con l’immagine del buco nero al centro della nostra galassia, Sagittarius A*. Ma ora un gruppo di ricercatori giapponesi sostiene che quelle immagini, diventate iconiche, potrebbero non mostrare davvero quello che pensiamo di vedere.
La controversia, che sta animando la comunità scientifica, tocca il cuore stesso di uno dei più ambiziosi progetti astronomici mai realizzati: l’Event Horizon Telescope (EHT), una rete di radiotelescopi distribuiti su tutto il pianeta che funziona come un unico strumento delle dimensioni della Terra.
Come sono state ottenute quelle immagini.
Per “fotografare” un buco nero, gli astronomi non osservano direttamente l’oggetto – da cui per definizione non può sfuggire la luce – ma il gas incandescente che orbita attorno ad esso. Questo materiale, accelerato dall’enorme gravità del buco nero fino a velocità prossime a quella della luce, si surriscalda per attrito ed emette radiazioni rilevabili dai radiotelescopi.
Le immagini pubblicate dall’EHT mostrano una caratteristica struttura ad anello arancione (un colore del tutto arbitrario), con una zona scura centrale che rappresenterebbe l'”ombra” del buco nero: il punto di non ritorno oltre il quale nemmeno la luce può sfuggire alla sua gravità, noto come orizzonte degli eventi.
I dubbi sollevati dai ricercatori.
Il team giapponese ha recentemente pubblicato uno studio che mette in discussione questa interpretazione. Analizzando gli stessi dati resi pubblici dall’EHT, sostengono di non essere riusciti a riprodurre la struttura ad anello, ottenendo invece immagini che mostrano una forma più simile a una “macchia” allungata.
La critica principale riguarda un aspetto tecnico ma fondamentale: la PSF (Point Spread Function) del telescopio, ovvero il modo in cui lo strumento distorce l’immagine di un punto luminoso. Secondo i ricercatori giapponesi, la caratteristica forma ad anello potrebbe essere un artefatto causato dai limiti tecnici del sistema di osservazione, piuttosto che una reale caratteristica dei buchi neri osservati.
La risposta dell’Event Horizon Telescope.
Il team dell’EHT ha risposto alle critiche in modo deciso, affermando che i ricercatori giapponesi hanno frainteso sia i dati che i metodi di analisi utilizzati. La collaborazione, che coinvolge oltre 300 ricercatori da 80 istituti in tutto il mondo, sostiene la solidità delle proprie conclusioni, sottolineando come le immagini siano il risultato di anni di lavoro meticoloso e di multiple verifiche indipendenti.
È importante notare che l’EHT ha pubblicato numerosi articoli scientifici dettagliando minuziosamente le proprie metodologie, incluso l’uso di algoritmi di machine learning per colmare le inevitabili lacune nei dati dovute alla distribuzione non uniforme dei telescopi sulla Terra.
Le implicazioni del dibattito.
Questa controversia scientifica illustra perfettamente come funziona il processo di verifica nella scienza moderna. La possibilità che altri ricercatori possano analizzare indipendentemente i dati ed eventualmente contestare le conclusioni è una parte fondamentale del metodo scientifico.
Nel caso specifico, il dibattito non mette in discussione l’esistenza dei buchi neri – supportata da numerose altre evidenze osservative – ma piuttosto la nostra capacità di “fotografarli” con le tecnologie attuali. La questione rimane aperta e probabilmente richiederà ulteriori analisi per essere risolta definitivamente. Ne abbiamo parlato anche nel video qui sotto.
https://www.passioneastronomia.it/ce-un-dibattito-sulle-famose-foto-dei-buchi-neri/
Per saperne di più:
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