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domenica 17 novembre 2024

C’è un dibattito sulle famose immagini dei buchi neri.

 

Un team di ricercatori giapponesi ha messo in discussione l’interpretazione delle storiche immagini dei buchi neri pubblicate nel 2019 e 2022.

Nell’aprile del 2019, la pubblicazione della prima immagine di un buco nero – quello supermassiccio al centro della galassia Messier 87 (M87) – fu celebrata come uno straordinario successo scientifico. Un risultato replicato nel 2022 con l’immagine del buco nero al centro della nostra galassia, Sagittarius A*. Ma ora un gruppo di ricercatori giapponesi sostiene che quelle immagini, diventate iconiche, potrebbero non mostrare davvero quello che pensiamo di vedere.

La controversia, che sta animando la comunità scientifica, tocca il cuore stesso di uno dei più ambiziosi progetti astronomici mai realizzati: l’Event Horizon Telescope (EHT), una rete di radiotelescopi distribuiti su tutto il pianeta che funziona come un unico strumento delle dimensioni della Terra.

Le storiche immagini dei buchi neri: a sinistra quello al centro della galassia M87, a destra quello della Via Lattea (Sagittarius A*). Crediti: Event Horizon Telescope Collaboration.

Come sono state ottenute quelle immagini.

Per “fotografare” un buco nero, gli astronomi non osservano direttamente l’oggetto – da cui per definizione non può sfuggire la luce – ma il gas incandescente che orbita attorno ad esso. Questo materiale, accelerato dall’enorme gravità del buco nero fino a velocità prossime a quella della luce, si surriscalda per attrito ed emette radiazioni rilevabili dai radiotelescopi.

Le immagini pubblicate dall’EHT mostrano una caratteristica struttura ad anello arancione (un colore del tutto arbitrario), con una zona scura centrale che rappresenterebbe l'”ombra” del buco nero: il punto di non ritorno oltre il quale nemmeno la luce può sfuggire alla sua gravità, noto come orizzonte degli eventi.

I dubbi sollevati dai ricercatori.

Il team giapponese ha recentemente pubblicato uno studio che mette in discussione questa interpretazione. Analizzando gli stessi dati resi pubblici dall’EHT, sostengono di non essere riusciti a riprodurre la struttura ad anello, ottenendo invece immagini che mostrano una forma più simile a una “macchia” allungata.

La critica principale riguarda un aspetto tecnico ma fondamentale: la PSF (Point Spread Function) del telescopio, ovvero il modo in cui lo strumento distorce l’immagine di un punto luminoso. Secondo i ricercatori giapponesi, la caratteristica forma ad anello potrebbe essere un artefatto causato dai limiti tecnici del sistema di osservazione, piuttosto che una reale caratteristica dei buchi neri osservati.

La risposta dell’Event Horizon Telescope.

Il team dell’EHT ha risposto alle critiche in modo deciso, affermando che i ricercatori giapponesi hanno frainteso sia i dati che i metodi di analisi utilizzati. La collaborazione, che coinvolge oltre 300 ricercatori da 80 istituti in tutto il mondo, sostiene la solidità delle proprie conclusioni, sottolineando come le immagini siano il risultato di anni di lavoro meticoloso e di multiple verifiche indipendenti.

È importante notare che l’EHT ha pubblicato numerosi articoli scientifici dettagliando minuziosamente le proprie metodologie, incluso l’uso di algoritmi di machine learning per colmare le inevitabili lacune nei dati dovute alla distribuzione non uniforme dei telescopi sulla Terra.

Le implicazioni del dibattito.

Questa controversia scientifica illustra perfettamente come funziona il processo di verifica nella scienza moderna. La possibilità che altri ricercatori possano analizzare indipendentemente i dati ed eventualmente contestare le conclusioni è una parte fondamentale del metodo scientifico.

Nel caso specifico, il dibattito non mette in discussione l’esistenza dei buchi neri – supportata da numerose altre evidenze osservative – ma piuttosto la nostra capacità di “fotografarli” con le tecnologie attuali. La questione rimane aperta e probabilmente richiederà ulteriori analisi per essere risolta definitivamente. Ne abbiamo parlato anche nel video qui sotto.

https://www.passioneastronomia.it/ce-un-dibattito-sulle-famose-foto-dei-buchi-neri/

Per saperne di più:



venerdì 26 luglio 2024

Verso la soluzione del problema dell’ultimo parsec. - Maura Sandri

Simulazione della luce emessa da un sistema binario di buchi neri supermassicci in cui il gas circostante è otticamente sottile (trasparente). Vista da 0 gradi di inclinazione, ovvero direttamente sopra il piano del disco. Crediti: Nasa's Goddard Space Flight Center/Scott Noble; d'Ascoli et al. 2018.

 Scoperto da tre ricercatori un legame tra alcuni degli oggetti più grandi dell’universo e quelli più piccoli: i buchi neri supermassicci e le particelle di materia oscura. I loro calcoli rivelano che è possibile superare l'annoso “problema dell’ultimo parsec” e arrivare alla fusione di buchi neri supermassicci considerando il comportamento delle particelle di materia oscura. Tutti i dettagli su Physical Review Letters.

Quando due galassie si fondono, è normale aspettarsi un’analoga sorte anche per i buchi neri supermassicci che risiedono nei loro centri. Tuttavia, tentando di modellare come ciò avviene, gli astronomi incontrano da anni un problema. Per avvicinarsi, i due buchi neri devono disperdere energia. All’inizio l’energia viene trasferita al materiale circostante, gas e polvere. Ma quando arrivano alla distanza di un parsec l’uno dall’altro – poco più di tre anni luce – sembra che non ci sia più abbastanza “materiale” su cui trasferire energia. E non si avvicinano più. In astrofisica, questa circostanza è nota come il problema dell’ultimo parsec.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review Letters, quell’ultimo parsec può essere percorso considerando il comportamento, finora trascurato, delle particelle di materia oscura.

Nel giugno 2023, gli astrofisici annunciarono di aver rilevato un fondo di onde gravitazionali che permea l’universo, ipotizzando che provenisse da milioni di coppie di buchi neri supermassicci in fusione, ciascuno miliardi di volte più massiccio del Sole. Ma riecco il problema dell’ultimo parsec: le simulazioni teoriche non riescono a far superare loro quell’ultimo parsec. Come fanno, quindi, a fondersi?

Oltre a essere in conflitto con la teoria secondo cui i buchi neri supermassicci che si stanno fondendo sono la sorgente del fondo di onde gravitazionali, il problema dell’ultimo parsec è anche in contrasto con la teoria secondo cui i buchi neri supermassicci si sviluppano dalla fusione di buchi neri meno massicci.

«Noi mostriamo che l’effetto della materia oscura, precedentemente trascurato, può aiutare i buchi neri supermassicci a superare l’ultimo parsec di separazione e a fondersi», spiega il primo autore Gonzalo Alonso-Álvarez, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Toronto. «I nostri calcoli spiegano come ciò possa avvenire, a differenza di quanto si pensava in precedenza».

Mentre i modelli precedenti hanno sempre escluso l’impatto della materia oscura sulle orbite dei buchi neri supermassicci, il nuovo modello rivela che le particelle di materia oscura interagiscono tra loro in modo tale da non disperdersi. La densità dell’alone di materia oscura rimane abbastanza alta da far sì che le interazioni tra le particelle e i buchi neri supermassicci continuino a degradare le orbite dei buchi neri, permettendo loro di fondersi. «La possibilità che le particelle di materia oscura interagiscano tra loro è un’ipotesi che abbiamo fatto noi, un ingrediente in più che non tutti i modelli di materia oscura contengono», dice Alonso-Álvarez. «La nostra tesi è che solo i modelli con questo ingrediente possono risolvere il problema dell’ultimo parsec».

Il rumore di fondo generato da queste colossali collisioni cosmiche è costituito da onde gravitazionali di lunghezza d’onda molto maggiore rispetto a quelle rilevate per la prima volta nel 2015 dagli astrofisici del Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (Ligo). Quelle onde gravitazionali sono state generate dalla fusione di due buchi neri, entrambi di massa circa 30 volte superiore a quella del Sole.

Il fondo che interessa agli autori è stato rilevato negli ultimi anni dagli scienziati che operano con il Pulsar Timing Array, che rivela le onde gravitazionali misurando le minime variazioni nei segnali delle pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione che emettono forti impulsi radio. «Una previsione della nostra proposta è che lo spettro delle onde gravitazionali osservate dal pulsar timing array dovrebbe essere attenuato alle basse frequenze», sostiene James Cline della McGill University. «I dati attuali accennano già a questo comportamento e nuovi dati potrebbero confermarlo nei prossimi anni».

Oltre a fornire informazioni sulle fusioni di buchi neri supermassicci e sul segnale di fondo delle onde gravitazionali, il nuovo risultato offre una finestra sulla natura della materia oscura. «Il nostro lavoro rappresenta un nuovo modo per aiutarci a comprendere la natura particellare della materia oscura», afferma Alonso-Álvarez. «Abbiamo scoperto che l’evoluzione delle orbite dei buchi neri è molto sensibile alla microfisica della materia oscura e questo significa che possiamo usare le osservazioni delle fusioni dei buchi neri supermassicci per capire meglio queste particelle».

Ad esempio, i ricercatori hanno scoperto che le interazioni tra le particelle di materia oscura modellate spiegano anche le forme degli aloni galattici di materia oscura. «Abbiamo scoperto che il problema dell’ultimo parsec può essere risolto solo se le particelle di materia oscura interagiscono a una velocità tale da alterare la distribuzione della materia oscura su scala galattica», conclude Alonso-Álvarez. «Un risultato inaspettato, poiché le scale fisiche in cui avvengono i processi sono distanti tre o più ordini di grandezza».

https://www.media.inaf.it/2024/07/25/verso-la-soluzione-del-problema-dellultimo-parsec/?fbclid=IwY2xjawEQWaFleHRuA2FlbQIxMQABHT4R84kIiQlkXLp4G9KsLQmN38fSTSRCXaDrLwqTZBzRE7jNxrtEJc1C2g_aem_48shsv2cbMsacpHtn0jpPg

giovedì 27 giugno 2024

Un blazar nell’universo primordiale.

 

Il blazar è un buco nero di un miliardo di masse solari che ingoia grandi quantità di gas ionizzato emettendo nello spazio un getto di materia luminosa a velocità relativistica.

Novecento milioni di anni dopo il Big Bang, esisteva già un buco nero 1 miliardo di volte più grande del nostro sole. Quel buco nero ha risucchiato enormi quantità di gas ionizzato, formando un motore galattico – noto come blazar – che ha lanciato nello spazio un getto supercaldo di materia luminosa. 

Gli astronomi avevano già precedentemente scoperto prove di buchi neri supermassicci primordiali in “nuclei galattici radio attivi” o AGN RL leggermente più giovani. Gli AGN RL sono galassie con nuclei che appaiono estremamente luminosi ai radiotelescopi, il che è considerato una prova del fatto che contengono buchi neri supermassicci.

I Blazar sono un tipo unico di AGN RL che sputano due stretti getti di materia “relativistica” (quasi alla velocità della luce) in direzioni opposte. Questi getti emettono stretti fasci di luce a molte lunghezze d’onda diverse e devono essere puntati direttamente verso la Terra affinché possiamo rilevarli a distanze così vaste.

La scoperta di questo blazar sposta la data del più antico buco nero supermassiccio confermato entro il primo miliardo di anni di storia dell’universo e suggerisce che in quell’epoca esistessero altri buchi neri simili che non abbiamo rilevato.

Il blazar è un buco nero di un miliardo di masse solari che ingoia grandi quantità di gas ionizzato emettendo nello spazio un getto di materia luminosa a velocità relativistica.

Gli scienziati avevano già scoperto altri buchi neri all’interno dei nuclei di radiogalassie attive più giovani. Queste galassie vengono denominate RLAGN e sono galassie che presentano un nucleo extra luminoso in banda radio rilevabile dai radiotelescopi. Questa è considerata una prova che tali nuclei contengono un buco nero supermassiccio.

I blazar sono unici nel loro genere in quanto emettono due getti di materia a velocità relativistica in direzioni opposte. Questi getti generano sottili fasci di luce a molte lunghezze d’onda diverse e devono essere puntati esattamente verso la Terra per poter essere rilevati alle distanze cosmologiche.

La scoperta di un blazar prossimo all’epoca Big Bang suggerisce che potrebbero esserci altri oggetti simili cosi lontano nel tempo che ancora non sono stati rilevati.

Silvia Belladitta, dell’Istituto Nazionale Italiano per Astrofisica (INAF), a Milano, e coautrice diell’articolo sul blazar in questione, ha dichiarato in una nota: “Grazie alla nostra scoperta, siamo in grado di dire che nel primo miliardo di anni di vita dell’universo, esisteva un gran numero di enormi buchi neri che emettevano potenti getti relativistici“.

La scoperta di Belladitta e dei suoi co-autori conferma che esistevano blazar durante un’epoca della storia del nostro universo conosciuta come “epoca della reionizzazione” un periodo dopo una lunga era oscura post-Big Bang, quando iniziarono a formarsi le prime stelle e galassie.

I ricercatori ritengono difficile che a quell’epoca esistesse uno solo di questi oggetti, nel caso, infatti, sarebbe stato estremamente poco probabile scoprirlo, praticamente impossibile in un universo vasto come il nostro, quindi certamente ne esistono altri che attendono di essere scoperti.

I blazar hanno un raggio molto ristretto e solo per caso questo era puntato verso il nostro pianeta.

Secondo gli autori dello studio, questi blazar sono i semi dei buchi neri supermassicci che dominano oggi i nuclei delle grandi galassie nel nostro universo come Sagittario A *, il buco nero supermassiccio relativamente tranquillo posto al centro della nostra Via Lattea.

Osservare un blazar è estremamente importante. Per ogni fonte scoperta di questo tipo, sappiamo che ce ne devono essere almeno altri 100 simili, ma la maggior parte sono orientati in modo diverso e sono quindi troppo deboli per essere visti direttamente“, ha aggiunto Belladitta.

Queste informazioni aiuteranno gli astrofisici a ricostruire la storia di come e quando si sono formati questi mostruosi buchi neri e quindi a comprendere meglio la storia del nostro universo.

https://reccom.org/blazar-nelluniverso-primordiale/

venerdì 21 giugno 2024

Individuati 2 buchi neri attivi che si fondono alla distanza più lontana mai vista. - Denise Meloni

Due quasar superluminosi, o buchi neri attivi al centro di grandi galassie, furono trovati appena 900 milioni di anni dopo il Big Bang: la prima rilevazione mai vista di una coppia di quasar in fusione

 Gli astronomi hanno individuato due buchi neri attivi che si fondono alla distanza più lontana mai vista, appena 900 milioni di anni dopo il Big Bang.

La fusione di due buchi neri.

Questa è la prima volta che due buchi neri supermassicci luminosi vengono avvistati durante l’alba cosmica.

L’alba cosmica è il tempo che comprende il primo miliardo di anni dell’Universo. Durante questo periodo, circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang, è iniziata l’epoca della reionizzazione, in cui la luce delle stelle nascenti ha privato l’idrogeno dei suoi elettroni, portando a un rimodellamento fondamentale delle strutture delle galassie.

I quasar sono i nuclei straordinariamente luminosi delle galassie attive nell’universo lontano, sono una forma estrema di ciò che gli astronomi chiamano “nuclei galattici attivi”, o AGN in breve. Una galassia attiva è quella in cui il buco nero supermassiccio centrale consuma grandi quantità di materia. La caduta di materia nel buco nero è così grande che tutta la materia non può entrare nel buco nero contemporaneamente e quindi forma una coda come un disco di accrescimento a spirale.

L’esistenza dei quasar che si uniscono nell’epoca della reionizzazione è stata anticipata da molto tempo” ha dichiarato l’autore principale dello studio, Yoshiki Matsuoka, astronomo dell’Università di Ehime in Giappone: “Ora è stato confermato per la prima volta”.

ricercatori hanno pubblicato i loro risultati su The Astrophysical Journal Letters.

Lo studio.

I buchi neri nascono dal collasso di stelle giganti e crescono nutrendosi incessantemente di gas, polvere, stelle e altri buchi neri nelle galassie stellari che li contengono. Se diventano abbastanza grandi, l’attrito fa sì che il materiale che si muove a spirale nelle loro fauci si surriscaldi e si trasformino in quasar, rilasciando i loro bozzoli gassosi con esplosioni di luce fino a un trilione di volte più luminose delle stelle più luminose.

Poiché la luce viaggia a una velocità fissa attraverso il vuoto dello Spazio, più gli scienziati guardano in profondità l’Universo, più luce remota intercettano e più indietro nel tempo vedono.

Precedenti simulazioni dell’alba cosmica hanno indicato che nubi fluttuanti di gas freddo potrebbero essersi coalizzate in stelle giganti destinate a collassare rapidamente, creando buchi neri. Man mano che l’universo cresceva, quei primi buchi neri potrebbero essersi rapidamente fusi con altri per seminarne di supermassicci ancora più grandi in tutto il Cosmo.

I buchi neri nascono dal collasso di stelle giganti e crescono nutrendosi incessantemente di gas, polvere, stelle e altri buchi neri nelle galassie stellari che li contengono. Se diventano abbastanza grandi, l’attrito fa sì che il materiale che si muove a spirale nelle loro fauci si surriscaldi e si trasformino in quasar, rilasciando i loro bozzoli gassosi con esplosioni di luce fino a un trilione di volte più luminose delle stelle più luminose.

Circa 300 quasar sono stati precedentemente trovati nell’epoca della reionizzazione, ma questi quasar scoperti di recente sono i primi ad essere scoperti in una coppia. I ricercatori li hanno trovati utilizzando la Hyper Suprime-Cam del telescopio Subaru, in cui sono apparsi come due deboli macchie rosse su uno sfondo di galassie e stelle.

Gli astronomi hanno poi effettuato delle riprese spettroscopiche e hanno confermato che la sorgente luminosa era una coppia di quasar a spirale.

Conclusioni.

I ricercatori hanno affermato che la loro scoperta li aiuterà a capire come i potenti fasci di luce dei quasar hanno scolpito le strutture dell’Universo che vediamo oggi.

Le proprietà statistiche dei quasar nell’epoca della reionizzazione ci dicono molte cose, come il progresso e l’origine della reionizzazione, la formazione di buchi neri supermassicci durante l’Alba Cosmica e la prima evoluzione delle galassie che ospitano i quasar“, ha concluso Matsuoka.

https://reccom.org/buchi-neri-attivi-fondono-distanza-piu-lontana/

venerdì 15 marzo 2024

Piccoli Quasar individuati da Webb potrebbero aiutare a risolvere una dei più grandi misteri dell’astronomia. - Dénise Meloni

 

Il telescopio Webb è riuscito ad identificare piccoli quasar rossi che potrebbero aiutare a rispondere a una delle più grandi domande aperte dell'astronomia.

Un nuovo studio ha utilizzato la spettroscopia per separare e studiare i piccoli quasar. I quasar sono buchi neri supermassicci che hanno assorbito una luminosità importante.

L’enigma dei buchi neri supermassicci che diventano quasar.

In una nuova ricerca effettuata utilizzando il James Webb Space Telescope (JWST), pubblicata su The Astrophysical Journal, un team di scienziati ha dimostrato di essere in grado di isolare ed esaminare un gruppo di piccoli punti rossi che si pensava fossero normali galassie.

È stato successivamente rivelato che quelle galassie potrebbero effettivamente ospitare quasar molto giovani o altrimenti detti buchi neri che risucchiano i corpi celesti circostanti fino a diventare tra i fenomeni più luminosi di tutto l’Universo.

I quasar non sono una novità, ma non sono ben compresi, e questo nuovo studio potrebbe aiutare a risolvere una delle più grandi domande aperte dell’astronomia.

Jorryt Matthee, astrofisico presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia Austria (ISTA) e autore principale della nuova ricerca, ha riassunto il motivo per cui i buchi neri supermassicci che diventano quasar rappresentano un tale enigma per gli scienziati: “È come guardare un bambino di cinque anni alto due metri“, ha spiegato: “Qualcosa non quadra”. Fondamentalmente, sono troppo grandi per l’età del nostro Universo.

La scala cosmica del tempo è lunga e i buchi neri supermassicci possono avere un diametro di migliaia di anni luce. I quasar, tuttavia, si trovano nella fascia più piccola della classe di dimensioni dei buchi neri supermassicci: a volte hanno un diametro di pochi giorni, o circa 1.000 della distanza tra la Terra e il Sole.

Anche così, gli eventi che portano alla loro formazione possono richiedere miliardi di anni, in modo simile alla linea temporale prevista di 6 miliardi di anni per la completa fusione della Via Lattea e di Andromeda.

Il più antico quasar visibile ha più di 13 miliardi di anni, il che significa che doveva essere già un buco nero supermassiccio quando l’Universo era molto più giovane, almeno secondo la nostra attuale comprensione di come essi si formano. Subito dopo il Big Bang, l’Universo era significativamente diverso da come è oggi e ospitava una selezione di elementi molto più semplice e fenomeni molto più vasti e straordinari.

Di conseguenza, gli scienziati hanno teorizzato che i buchi neri supermassicci potrebbero essersi formati più rapidamente con un vantaggio potenziato dalla fisica da vortici di gas e nuvole. Sarebbe come dare a quel bambino di cinque anni il siero del super soldato di Capitan America: ovviamente sarà insolitamente alto.

Piccoli quasar rossi a causa della polvere cosmica.

In questo nuovo studio, i ricercatori hanno esaminato quei deboli punti rossi individuati nelle immagini del JWST e hanno scoperto che i piccoli quasar erano rossi a causa della polvere cosmica, che va di pari passo con la formazione di galassie e stelle.

La polvere cosmica è composta da materiali vitali. Questi materiali riempiono un anello cruciale mancante nella catena del ciclo di vita dei quasar e dovrebbero consentire agli astronomi di comprendere meglio come si formano questi fenomeni. Per estendere ulteriormente la metafora del “bambino gigante di cinque anni” di Matthee, questi sono i bambini di due anni che sono già un po’ più grandi di quanto dovrebbero essere in realtà.

JWST ha superato le aspettative nell’intercettare i piccoli quasar rossi.

Il rossore stesso aiuta anche gli scienziati a datare i piccoli quasar a un’età precedente rispetto a quelli più blu e più vecchi che si sono liberati della polvere cosmica. Inoltre, li posiziona come emergenti dai vorticosi vivai di stelle che non vengono registrati come rossi in questa osservazione.

Il JWST non è uno strumento specializzato per il rilevamento di oggetti spaziali di questo tipo, il che significa che i ricercatori sono rimasti piacevolmente sorpresi dal lavoro che hanno potuto svolgere senza bisogno di qualcosa di più adatto a questo particolare compito.

Lo strumento NIRCam del telescopio si è rivelato appena sufficiente, poiché la sua modalità spettroscopica consente agli scienziati di sintonizzarsi su aree specifiche dello spettro utilizzando un oggetto focale chiamato grism.

https://reccom.org/piccoli-quasar-aiutare-risolvere-mistero-astronomia/

domenica 10 marzo 2024

Buchi neri: l’IA rivela come crescono. - Arianna Guastella

Un nuovo studio, che utilizza l’apprendimento automatico, ha rivelato che la crescita dei buchi neri supermassicci nelle galassie richiede gas freddo oltre alle fusioni, sfidando le ipotesi precedenti e migliorando la nostra comprensione dell’evoluzione delle galassie.

I buchi neri supermassicci: giganti dormienti che si risvegliano.

Quando sono attivi, i buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nel modo in cui si evolvono le galassie. Fino ad ora, si è pensato che la crescita fosse innescata dalla violenta collisione di due galassie seguita dalla loro fusione, tuttavia, una nuova ricerca condotta dall’Università di Bath ha suggerito che le fusioni tra galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare un buco nero. Per spiegare la crescita di essi, è necessario un secondo ingrediente: un serbatoio di gas freddo a livello planetario situato al centro della galassia ospite.

Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista Monthly Notice della Royal Astronomical Society, è stato il primo a utilizzare l’apprendimento automatico per classificare le fusioni galattiche con l’obiettivo specifico di esplorare la relazione tra le stesse, l’accrescimento di buchi neri supermassicci e la formazione stellare. Finora le fusioni sono state classificate (spesso erroneamente) esclusivamente attraverso l’osservazione umana.

Mathilda Avirett-Mackenzie, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Los Angeles Università di Bath e prima autrice del documento di ricerca, ha dichiarato: “Quando gli esseri umani cercano fusioni tra galassie, non sempre sanno cosa stanno guardando e usano molta intuizione per decidere se è avvenuta davveroAddestrando una macchina a classificarle, si ottiene una lettura molto più veritiera di ciò che stanno effettivamente facendo le galassie”.

La ricerca è frutto di una collaborazione tra i partner di BiD4BEST (Big Data Applications for Black Hole Evolution Studies), la cui rete innovativa fornisce formazione di dottorato sulla formazione dei buchi neri supermassicci.

buchi neri supermassicci sono una componente fondamentale delle galassie (per dare un senso di scala, la Via Lattea, con circa 200 miliardi di stelle, è solo una galassia di medie dimensioni), al centro di essa si trova un buco nero chiamato Sagittarius A*, che ha una massa di circa 4 milioni di volte quella del Sole.

Per gran parte della loro esistenza, i buchi neri supermassicci sono quiescenti, rimangono in uno stato di calma, con la materia che orbita intorno, e hanno un impatto minimo sulla galassia nel suo complesso. Tuttavia, per brevi periodi della loro esistenza (brevi solo in termini astronomici, con una durata di milioni o centinaia di milioni di anni), essi sfruttano la loro forza gravitazionale per attirare grandi quantità di gas verso di sé. Questo fenomeno, noto come accrescimento, genera un disco luminoso talmente intenso da poter eclissare l’intera galassia.

Sono queste brevi fasi di attività ad essere più importanti per l’evoluzione delle galassie, poiché le enormi quantità di energia rilasciata attraverso l’accrescimento possono influenzare il modo in cui le stelle si formano nelle stesse. Per una buona ragione, quindi, stabilire cosa provoca il movimento di una galassia tra i suoi due stati – quiescente e formazione stellare – è una delle più grandi sfide dell’astrofisica.

Active Galactic Nucleus Concept

Buchi neri, ispezione umana vs Machine Learning.

Per decenni, i modelli teorici hanno suggerito che i buchi neri crescono quando le galassie si fondono. Tuttavia, gli astrofisici che studiano da molti anni la connessione tra fusioni di galassie e crescita dei buchi neri hanno sfidato questi modelli con una semplice domanda: come possiamo identificare in modo affidabile le fusioni di galassie?

L’ispezione visiva è stato il metodo più comunemente utilizzato. I classificatori umani – esperti o membri del pubblico – hanno osservato le galassie e hanno identificato elevate asimmetrie o lunghe code di marea (regioni sottili e allungate di stelle e gas interstellare che si estendono nello spazio), entrambe associate alle fusioni delle stesse. Tuttavia, questo metodo di osservazione è dispendioso in termini di tempo e inaffidabile, poiché è facile per gli esseri umani commettere errori nelle loro classificazioni. Di conseguenza, gli studi sulle fusioni spesso forniscono risultati contraddittori.

Nel nuovo studio condotto da Bath, i ricercatori si sono posti la sfida di migliorare il modo in cui vengono classificate le fusioni studiando la connessione tra la crescita dei buchi neri e l’evoluzione delle galassie attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale.

black hole in space elements of this image furnished by nasa 285461906

L’IA illumina i segreti dei buchi neri.

Gli scienziati hanno addestrato una rete neurale su fusioni di galassie simulate, quindi hanno applicato questo modello a quelle finora osservate nel cosmo.

In questo modo, sono stati in grado di identificare le fusioni senza pregiudizi umani e studiare la connessione tra fusioni di galassie e crescita dei buchi neri. Hanno anche dimostrato che la rete neurale supera i classificatori umani nell’identificarle.

Applicando questa nuova metodologia, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che le fusioni non sono fortemente associate alla crescita dei buchi neri. Le firme delle stesse sono ugualmente comuni nelle galassie con e senza buchi neri supermassicci in accrescimento.

Utilizzando un campione estremamente ampio di circa 8.000 sistemi di buchi neri in accrescimento – che ha permesso al team di studiare la questione in modo molto più dettagliato – si è scoperto che le fusioni portano alla crescita dei buchi neri solo in un tipo molto specifico di galassie, ovvero quelle contenenti quantità significative di gas freddo.

Questo ha dimostrato che le fusioni tra galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare i buchi neri: devono essere presenti anche grandi quantità di gas freddo per consentire al buco nero di crescere.

Avirett-Mackenzie ha affermato: “Affinché le galassie possano formare stelle, devono contenere nubi di gas freddo in grado di collassare in stelle. Processi altamente energetici come l’accrescimento di un buco nero supermassiccio riscaldano questo gas, rendendolo troppo energetico per collassare o espellendolo fuori dalla galassia”.

La dottoressa Carolin Villforth, docente senior presso il Dipartimento di Fisica e supervisore della signora Avirett-Mackenzie a Bath, ha concluso: “Fino ad ora le fusioni sono state studiate allo stesso modo, attraverso la classificazione visiva. Con questo metodo, utilizzando classificatori esperti in grado di individuare caratteristiche più sottili, siamo riusciti a osservare solo un paio di centinaia di galassie, non di più. L’utilizzo dell’apprendimento automatico ha aperto un campo completamente nuovo e molto entusiasmante in cui è possibile analizzare migliaia di galassie alla volta”.

https://reccom.org/buchi-neri-l-ia-rivela-come-crescono/?fbclid=IwAR1VjOMuAp9HJEAvgnIXhBGU3OadubYJ7R_x5h5n4fSL5-nXh9oXkhqhRgs