sabato 13 agosto 2011

L’ex assessore regionale campano Sica “Ecco come ricattai Berlusconi”. - di Marco Lillo


L'ex assessore campano avrebbe avuto un ruolo decisivo nella compravendita per far cadere Prodi. Le ammissioni nei verbali della P3: "Io e Cosentino volevamo tagliare le gambe a Caldoro".

Nicola Cosentino ed Ernesto Sica

Berlusconi è stato ricattato da Ernesto Sicaattraverso rivelazioni imbarazzanti. Per questo ha fatto nominare il sindaco di Pontecagnano assessore regionale. Voleva evitare che spifferasse in giro il suo segreto: quello che aveva fatto e promesso il Cavaliere nell’estate del 2007. Lo conferma ai magistrati lo stesso sindaco di Pontecagnano, eletto nel Pdl dopo essere stato il consigliere regionale più votato della Margherita nel 2005, prima del grande salto del 2007 nelle braccia del Cavaliere. Sica però non ammette che il segreto della sua nomina sia lacompravendita dei parlamentari del centrosinistra. I pm napoletani però su questo punto non gli credono e gli contestano le dichiarazioni accusatorie del suo ex amico Arcangelo Martino.Sica è stato sentito nell’inchiesta napoletana sul ricatto a Berlusconi e al presidente Caldoro, svelata dal Fatto mercoledì 10 agosto. Messo alle strette, ha raccontato i suoi viaggi ad Arcore e a Villa Certosa, gli aperitivi a tre con Berlusconi e l’imprenditore Davide Cincotti. Il re degli imballaggi di Battipaglia che – subito prima dell’annuncio dell’abbandono di Prodi da parte di Lamberto Dini – ha elargito un finanziamento registrato di 295 mila euro al partitino dell’ex ministro del centrosinistra. Sica soprattutto racconta con disarmante sincerità di avere trafficato in dossier con Nicola Cosentino per “tagliare le gambe” (proprio così dice lui) a Stefano Caldoro.

Il sindaco di Pontecagnano viene convocato dai pm Alessandro Milita e Giuseppe Narducci(pochi mesi dopo divenuto assessore alla sicurezza della giunta De Magistris) il 4 aprile del 2011. che informano l’indagato delle prove a suo carico: “le intercettazioni del caso P3, le dichiarazioni rese in due distinti interrogatori da Arcangelo Martino, più le dichiarazioni rese, da Stefano Caldoro, Italo Bocchino e Mara Carfagna”.

L’interrogatorio è teso e dura quattro ore. “Nell’estate 2007 ero consigliere regionale del partito della Margherita… andai in Sardegna a Porto Rotondo a casa del mio amico Davide Cincotti e, grazie a lui e a una signora di nome Consuelo che ha una agenzia immobiliare, riuscii ad avere un incontro per un aperitivo con il Presidente Berlusconi …Dopo l’incontro per l’aperitivo tra me, Cincotti, Berlusconi e altre persone presenti alla villa sarda del Presidente del Consliglio a circa 15 giorni di distanza seguì un lungo incontro solo tra me e Berlusconi, sempre a villa La Certosa… io offrii a Silvio Berlusconi la mia pronta disponibilità ad abbandonare il partito della Margherita e transitare nelle fiIe di Forza Italia. In cambio Berlusconi mi assicurò che sarei entrato a far parte dello staff di segreteria della nascente formazione politica Popolo delle Libertà che di li a poco sarebbe stata annunciata …avrei lavorato a Palazzo Grazioli”.

A questo punto è utile ricordare che la Procura di Napoli indaga Sica per il ricatto a Berlusconi e Caldoro e sospetta che abbia effettuato alla fine del 2007 un’attività di compravendita di parlamentari del centrosinistra sulla base soprattutto di un verbale inedito, reso da Arcangelo Martino il 22 ottobre del 2010. L’ex assessore arrestato per la P3 e per il dossier Caldoronell’inchiesta di Roma racconta ai pm: “Sica diceva sempre di tenere in pugno Berlusconi per i favori che gli aveva reso e cioè in particolare per la famosa storia dell’acquisto dei voti dei parlamentari che avevano garantito la caduta del governo Prodi nel 2008.

Quando il 26 e 27 gennaio 2010 parlo con lui al telefono e sollecito Sica a preparare con urgenza e a consegnarmi la relazione e parlo anche esplicitamente di dossier vi rispondo che queste telefonate fanno riferimento non al dossier su Caldoro. In verità io sollecito Sica a farmi avere al più presto in anteprima la famosa denuncia che lui diceva di poter preparare e voler presentare sul conto di Berlusconi ed in particolare su come lui Sica, per conto di Berlusconi, nel 2008, aveva comprato il voto di alcuni parlamentari inducendoli a votare la sfiducia al governo Prodi. Poiché io avevo informato Denis Verdini circa questa attività di Sica e poiché anzi lo stesso Sica aveva detto ai vertici nazionali del Pdl che lui poteva presentare questa denuncia, io ero stato sollecitato da Verdini affinché mi facessi consegnare da Sica il racconto che poi sarebbe confluito nella denuncia. I vertici del Pdl, in altri termini, volevano verificare la natura e la consistenza delle accuse che Ernesto Sica avrebbe potuto fare nei confronti di Silvio Berlusconi allo scopo, evidentemente, di contenere o neutralizzare la denuncia stessa. … Sica aveva detto a me che i soldi serviti per la operazione di acquisto del voto dei parlamentari erano stati forniti da un imprenditore di grande rilievo, suo amico nonché amico di Berlusconi, imprenditore che operava nel settore dei supermercati. Non conosco il nome di questo imprenditore…. Sica, quindi, aveva un potere ricattatorio di non poco conto e la sua finalità era quella di intimidire Berlusconi al fine di ottenere per sé la carica di candidato governatore”.

Sica nega. Ma i pm sospettano che l’imprenditore possa essere proprio il suo amico Davide Cincotti, presentato a Berlusconi ma contributore per Dini.
Davide Cincotti non conosceva, prima di quell’incontro dell’agosto Silvio Berlusconi…dopo il periodo delle festività natalìzie della· fine 2007 inizio 2008”, prosegue Sica che racconta le continue promesse non mantenute da Berlusconi. Prima non lo porta a Palazzo Grazioli, poi non lo candida. Sica vuole riscuotere anche se ai pm puntualizza: “non ho avuto alcun ruolo in operazioni di cosiddetta compravendita di parlamentari per la caduta di Prodi”. I magistrati napoletani però non la bevono: “mi si chiede delle operazioni di finanziamento effettuate alle forze politiche dal mio amico e vi rispondo che fu Cincotti a dirmi che aveva versato un contributo al gruppo di Dini”. Sica non sapeva nulla, nonostante avesse presentato il suo amico, fulminato sulla via di Lamberto, al Cavaliere. Ammette solo il patto scellerato con Cosentino contro Caldoro. “L’accordo tra me e Cosentino, sostenuti nel convincimento da Arcangelo Martino, era quello di lavorare attraverso la preparazione e la successiva divulgazione del dossier per tagliare le gambe a Stefano Caldoro”. Purtroppo non riescono nell’intento. Caldoro è il candidato del Pdl e Sica è sempre più teso. Vola a Viareggio e incontra Denis Verdini minaccia di raccontare “tutto da ferragosto 2007” e dice che non farà “la fine della “puttana di Bari”. Ai pm dice: “ho ricevuto assicurazioni da Berlusconi in persona circa il fatto che sarei stato dimenticato e che avrei avuto un posto nella futura, Giunta Regionale. … aggiunse che ne aveva già parlato con Caldoro ricevendo l’assenso di quest’ultimo”. Caldoro però il 15 maggio 2010 gli concede solo la misera delega all’avvocatura. Il giorno dopo Sica vola ad Arcore con la fidanzata. “Intorno alle 18,30 Berlusconi telefonò a Caldoro e io ascoltai”, racconta ai pm, “la conversazione essendo stato inserito il viva voce del telefono. Berlusconi disse a Caldoro che si poteva pensare anche di assegnarmi un assessorato più impegnativo. Caldoro rispose a Berlusconi che … in futuro si sarebbe di nuovo potuto tornare a parlare di un altro mio incarico”. Quando gli contestano le telefonate minacciose, Sica dice: “chiedevo il “conto morale e politico· di tutto” quello che avevo tatto per il partito di cui ho parlato in precedenza”. Sica nega però che il piano B del quale parla con Martino riguardi “le mie conoscenze sull’acquisto dei senatori per la caduta del governo Prodì”. L’unica minaccia che ammette è quella “di esporre pubblicamente il fatto che il Cavaliere aveva tradito gli accordi dell’agosto 2007”. Tanto sarebbe bastato per terrorizzare Berlusconi. Sica ammette: “Berlusconi ovviamente non voleva che io divulgassi alcuna notizia sulla storia del nostro accordo del 2007 e ricordo bene che in quella circostanza mi disse che lui non tradiva mai gli impegni e che anche io alla fine sarei stato gratiticato”.


Non sono un'economista, ma...


Premetto di non essere un'economista, ma semplicemente una persona che ama ragionare con la propria testa.
E proprio perchè ragiono con la mia testa, in base all'esperienza vissuta e utilizzando la logica, mi sorge spontanea una domanda: la manovra varata dal governo che manovra è?
E' una manovra che cerca solo di recuperare e racimolare soldini e che non ha nulla a che fare con la tanto agognata crescita economica del paese.
Se si vuole far crescere un paese bisogna mettere soldi nelle tasche dei cittadini e dar loro la possibilità di spenderli per comprare ciò che viene prodotto.
Se si tolgono i soldi dalle tasche dei cittadini, ciò che viene prodotto resta invenduto, le fabbriche si fermano, il lavoro diminuisce, la crisi aumenta.
Che senso ha, allora, accorpare le festività alle domeniche? Noi non abbiamo, allo stato attuale, bisogno di aumentare le produzioni, abbiamo bisogno di venderle, di farle comprare per poi continuare a produrle.
E che senso ha legalizzare i licenziamenti? E con quali criteri?
Rendere legale un licenziamento è un'arma a doppio taglio; sappiamo, noi che abbiamo lavorato, quali criteri adottano i capi per premiare o per punire i lavoratori, non certo un criterio correlato alla meritocrazia, ma, piuttosto, alla simpatia o antipatia, alla raccomandazione, al servilismo.
Dobbiamo pensare, allora, che si vuole mandare tutto a puttane?
O dobbiamo pensare che il governo che ci amministra è composto da persone incapaci di pensare e di amministrare?
E se chi ci amministra è incapace, perchè continuare a tenerlo in carica senza ribellarci?
Ripeto, non sono un'econimista, ma seguendo la logica di amministratrice di una casa, di una famiglia, mi rendo conto che non è così come fa il governo che si amministra una nazione.

Cettina de Giosa.


P3, Dell’Utri: “I bonifici di Berlusconi? Ho ristrutturato casa, ero senza quattrini”.


In un'intervista al Corriere il senatore azzurro dà la sua versione riguardo ai versamenti per 8 milioni di euro ricevuti dal presidente del Consiglio: "Ho dei problemi, vivo come un nobile decaduto". Insomma, i soldi sono serviti per ristrutturare la villa di Torno che, a breve, sarà venduta "per problemi finanziari".


“Mi hanno ridotto a corto di quattrini. Ho dei problemi. Non riesco a mantenere più questa villa”. Così Marcello Dell’Utri, intervistato oggi da Il Corriere della Sera, spiega l’origine dei versamenti per dieci milioni di euro ricevuti da Silvio Berlusconi, e finiti agli atti dell’inchiesta P3come rivelato ieri da Il Fatto Quotidiano (Leggi). Il riferimento è alla magnifica dimora di Torno, sul lago di Como. Che ora il senatore vorrebbe vendere, racconta, ma prima deve ristrutturarla. Da qui l’esigenza di “chiedere un prestito a un amico”. Berlusconi, appunto.

Appare molto nervoso, Marcello Dell’Utri, nello spiegare l’ennesimo caso giudiziario che lo coinvolge. Si tratta di “miei affari personali e privati”, afferma, “anche quando si parla di ristrutturare, comprare o vendere una casa, chi mesta nel torbido ci voglia sempre mettere lo zampino. Capisco certi giornali, ma che c’entra il Corriere con questa rottura di c…?”. E ancora: “Ognuno di noi in questo Paese non è più libero di fare una trattativa, di chiedere un prestito a un amico, di fare un lavoro a casa, di avere un guaio? Tutto deve diventare di dominio pubblico, senza un minimo di riserbo? E questa non è secondo lei una rottura di c…?”.

Ma poi, incalzato, il senatore azzurro cede e racconta la sua versione dei fatti: “Va bene, basta, lo dico: sto vendendo casa. Ecco la verità. Non subito. Ma ho dato voce. E’ necessario fare dei lavori importanti. Ristrutturo e poi vendo tutto. Perché io ho da pagare c… e ramurazzi (ravanelli,ndr)». E’ una parte nuova da recitare per Dell’Utri, quella del “poveraccio” a corto di quattrini: «Ho dei problemi. Non riesco a mantenere più questa villa. Troppo grande. E’ stato un sogno. Mi rendo conto che nella vita c’è chi sale e chi scende. E io vendo casa… ». Insomma, Dell’Utri come un nobile decaduto: “Appunto, nobiltà decaduta. Ero anch’io un principe. E non lo sono più”. E a cosa attribuire le responsabilità di questo stato di indigenza se non ai processi? “Colpa della persecuzione”.

Non sembra appartenere alla sua mentalità il fatto che chi ricopre cariche pubbliche sia tenuto a dare spiegazioni ai cittadini specie se in ballo, come raccontato dal Fatto, ci sono 8 milioni di euro incassati direttamente dal presidente del Consiglio. Milioni che diventano 18 se si contano anche i versamenti fatti a Denis Verdini dal senatore del Pdl nonché editore di Libero e RiformistaAntonio Angelucci (Leggi). Versamenti di cui si ha notizia dalle carte appena depositate nell’indagine sull’associazione segreta (P3) che mirava a condizionare gli organi costituzionali e giudiziari e gli enti pubblici nazionali e regionali.

Ma nell’intervista al Corriere, messo di fronte a quello che il giornalista chiama “il retro pensiero dei malpensanti”, e cioè che “Berlusconi potrebbe averlo pagato per mantenere un segreto o per non dire qualcosa magari con riferimento a qualche processo”, il senatore siciliano risponde con veemenza: “Menti disturbate possono pensare queste cose, ma io non mi voglio disturbare e vorrei starmene tranquillo”.

E proprio per starsene in tranquillità, lontano dalle “rotture di c.”, Dell’Utri corre intorno alla sua villa sul lago: “Sì, corro attorno a casa mia. O meglio cammino veloce, diciamo 5 all’ora, giusto per mantenermi in esercizio. Ma ora passa la voglia di tutto con questi sospetti sul niente“. Il senatore corre anche per “controllare la pressione del cuore”. Colpa dei processi che gli rovinano l’umore: “Debbo controllarla. Sale quando penso a queste camurrie dei processi. Appena penso ad altro scende che è una bellezza». Già, perché Dell’Utri si sente “un perseguitato” dalla giustizia: “Ho visto tanti perseguitati morire di infarto o di cancro. Meglio la mia educazione arabo-fatalista. Forse mi salvo e arrivo all’11 settembre». Il giorno del suo 70esimo compleanno.


La villa da ristrutturare:
http://www.nessimajocchi.it/portfolio_dettaglio.asp?ID=11&IDTESTA=261


In pasto ai cannibali del mercato. - di Piero Sansonetti.




Il mercato è il colpevole della crisi che sta travolgendo l’Occidente. L’Occidente però, invece di porsi il problema di come imbrigliare il mercato, e riformarlo, e imporgli delle regole, ha deciso di affidare al mercato la soluzione della crisi. Lo ha fatto prima sconfiggendo Obama negli Stati Uniti e poi estendendo a tutta l’Europa la sua idea paradossale, e cioè quella di affidare all’assassino le indagini sull’omicidio.

In Italia tutto questo si è tradotto in una iniziativa di esautoramento del governo e del parlamento e nel trasferimento della sovranità nazionale in sede europea (in sede di finanza europea). La nuova autorità ha deciso misure severissime di taglio del welfare, in particolare delle pensioni delle donne e dei meno ricchi, e di aiuti alle imprese. L’idea è quella di accentuare le diseguaglianze sociali e concentrare ulteriormente la ricchezza (fino a misure odiose come quella, un po’ nazista, di togliere le pensioni di reversibilità alla vedove senza reddito).

Poi si è andati un passo avanti: con la richiesta di abolire l’articolo 41 della Costituzione (quello che pone un limite alla sregolatezza dell’iniziativa privata) e di introdurre, sempre in Costituzione, un articolo che imponga il pareggio di Bilancio; si è deciso in questo modo di rendere stabile il “disarmo della politica”, togliendogli, definitivamente, ogni diritto di influenzare o disciplinare l’economia. L’obbligo del pareggio di Bilancio significa impedire alla politica di governare le risorse necessarie per la propria iniziativa sociale. Quindi escludere la politica dall’iniziativa sociale. E dunque porre fine al compromesso socialdemocratico sul quale, dopo la seconda guerra mondiale, era stata costruita l’Europa. La Costituzione perde tutto il suo spirito originario e diventa una specie di gabbia che certifica la sospensione della democrazia, o comunque il suo essere un fatto accessorio e non più indispensabile nel governo delle nostre società.

L’aspetto più drammatico di tutto questo è che il nostro centrosinistra brancola nel buio. In parte addirittura sembra soddisfatto di questa drastica svolta autoritaria e reazionaria, e speranzoso di poter essere chiamato a partecipare al governo di questa stretta, in sostituzione dei gruppi dirigenti “riottosi” del berlusconismo. Per ora, comunque, il comando è stato assegnato a una piccola lobby che ha sede in via Solferino. Il Corriere della Sera ha preso il posto del Parlamento ed esercita la sua nuova funzione – bisogna ammetterlo – con molta liberalità.

http://www.glialtrionline.it/home/2011/08/13/in-pasto-ai-cannibali-del-mercato/

La manovra della disperazione. - di MASSIMO GIANNINI





IL GOVERNO della dissipazione ha infine raffazzonato la manovra della disperazione. Come i peggiori esecutivi andreottiani della Prima Repubblica, costretti a turare in extremis gli allegri buchi di bilancio, buttavano giù in tutta fretta i decretoni di Natale, così anche il gabinetto di guerra berlusconiano, obbligato dal direttorio franco-tedesco e dal board della Banca centrale europea, improvvisa il suo decretone d'agosto. Quarantacinque miliardi "aggiuntivi" di tasse e di tagli, dicono Berlusconi e Tremonti, per accentuare il peso simbolico dello "sforzo" di fronte alla business community. In realtà si tratta di misure che solo in minima parte si sommano, mentre in massima parte si integrano e anticipano la "prima rata" di norme, già evanescenti nel merito e urticanti nel metodo, varate a metà luglio. È il prezzo da pagare all'improvvisazione politica, come i fatti di questi tre anni dimostrano, e non certo alla speculazione finanziaria, come la vulgata governativa si affanna a far credere.

È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana. Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull'aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che "non mette le mani nelle tasche degli italiani". Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che "in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato". Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall'inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell'occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.

La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto "contributo di solidarietà" per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l'eurotassa introdotta dal governo Prodi nel '96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore "di classe", come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell'allevamento di Arcore. La scelta di aggredire l'Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi "super-ricchi" (511 mila italiani, cioè l'1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l'anno) fa sì che all'imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l'anno). Dunque, l'intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.

Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l'impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l'intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l'universo dei pensionati, che tra disincentivi all'anzianità e anticipo dell'età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare. Dall'altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l'esito non potrà non essere l'aumento dei tributi locali e l'azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c'è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.

Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell'emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai "costi della politica". Ancora una volta l'improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già malriposte attese della vigilia. C'è finalmente una sforbiciata delle province e l'accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente "svenduta" nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c'è poco e niente, a parte il modestissimo "obolo" sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy. Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta "patrimoniale": l'unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all'inizio della sua legislatura perché le considerava "leggi di stampo sovietico".

Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell'economia e alla produzione della ricchezza. È l'aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un'idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino. Tutti gli stati dell'Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un'economia. "Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo", ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.
m.giannini@repubblica.it



Da Claudia Petrazzuolo.



‎" Ricevo e ripropongo volentieri:
" Vedete voi …

Il figuro che, per maledizione divina e volontà di un quarto della nazione, da anni usurpa il governo di questo paese, a maggior ragione detto in questi momenti in cui gode di un premio di maggioranza conquistato da una coalizione diversa da quella che lo sorregge, assieme ad un azzeccagarbugli di manzoniana memoria, ieri ha spinto il paese sul fondo di ognuno dei baratri possibili. Dalla faccia a deretano di questo essere è venuta, come prima affermazione, quella secondo la quale questo debito pubblico è colpa dei governi in vita sino al 1992, dopodiché c’è stata la sua discesa in campo e solo le incarognite forza del male: comunisti, mercati, spectre, satana ed i suoi discepoli, gli alieni di Orione e, udite udite, persino istituzioni deviate dello stato quali magistratura e presidenza della Camera e della Repubblica gli hanno impedito di rendere ricchi e felici gli Italiani. Ogni altra considerazione a tutto ciò è superflua!. Il dopo, ciò che, insieme, hanno biascicato dopo si risolve in un unico concetto: “ ITALIANI POSIZIONE DEL RACCOGLITORE D’ULIVE E OLIO O BURRO secondo che siate del sud o del nord “.
In questo paese c’è una evasione fiscale annua di duecentosettantamiliardi (270.000.000.000) di euro, pari a circa quattro possibili correzioni di bilancio dell’importo di quella annunciata; a parte una spinta alla guerra tra poveri (chiuderemo gli esercizi che non emettono scontrino fiscale) non c’è traccia alcuna di una seria terapia per questa patologia. I possessori di yacth, ferrari, seconde e terze e quarte case in giro per il mondo, gli abituès delle seichelles e delle caiman , i correntisti italiani dei paradisi fiscali, i possessori di aziende off shore, i corruttori, gli intrallazzatori e quelli che “spaghetti e alici 1,30 euro” continueranno imperterriti e sornioni a vivere la loro vita a fianco di coloro che, invece, si spezzano la schiena o con gli occhi pieni di lacrime dicono ai figli che “ no …, non te lo posso comprare” o di quei giovani che vivono le proprie legittime speranze come una maledizione.
Sono previsti tagli agli enti locali per nove miliardi di euro; gli enti locali sono i comuni, le province, le regioni. Tutte queste istituzioni dovranno giocoforza sopperire ai mancati introiti dal governo centrale in altri modi, secondo Voi come faranno? Il vostro sindaco di rifondazione, o dell’Italia dei valori, o anche leghista, pidino, udcino, pidiellino, dentro a quali tasche andrà a pescare gli euro che gli serviranno per fornirvi di quei servizi di cui abbisognate? LE VOSTRE!. Ed ecco perché noi tutti DOBBIAMO, non metterci in marcia verso una Roma distratta e bistrattata al pari delle altre realtà urbane, RACCOGLIERCI in POPOLO, CIASCUNO NEL SUO DISTRETTO DI APPARTENENZA e costringere questi nostri rappresentati a cessare di essere i galoppini del FIGURO per diventare finalmente coloro che abbiamo scelto ed eletti per fare i nostri interessi e non quelli del nano.
Lo sviluppo e la crescita, nella relazione fatta ieri dal GATTO e dalla VOLPE, sono e restano dei concetti inespressi di una speranza la cui realizzazione è legata alla volontà di quel dio, chiamatelo come volete, che ha però di già e da tempo lunghissimo oramai, dimostrato di non amare questo paese, visto che alcuni tra i suoi rappresentanti continuano ad usufruire di agevolazioni negate agli altri cittadini, continuano a sostenere gli affamatori, non denunciano e combattono soprusi e abusi, difendono privilegi, non combattono, se non a parole, vergogne e disgrazie diffuse. Quindi niente investimenti a favore del lavoro, della ricerca, delle innovazioni tecnologiche, della gioventù, in una sola parola: della SPERANZA.
Tagli al numero dei comuni e delle province: qualcuno si è chiesto dove finiranno, in attesa del previsto accorpamento, gli impiegati, i funzionari, gli operai i, comunque, dipendenti degli ENTI TAGLIATI? E le loro famiglie? E cosa sostituirà i loro redditi? Avremo tutta una nuova classe di diseredati da licenziamento, cassa integrazione? E quanti, tra quelli già di una certa età, reggeranno alla umiliazione di una sopravvenuta malattia del vivere? Chi si assumerà questa tremenda responsabilità? Chi, se non noi tutti, sarà responsabile di ogni singolo atto di disperazione non soltanto di e tra questi ma anche di ciascuno di tutti gli altri?
Un giornale di ieri titolava “ per noi stangata per loro un pranzo a 4 euro”. E la sintesi perfetta della condizione espressa dalla nostra classe politica, non solo quella al governo ma anche e soprattutto quella che dovrebbe essere espressione della povera gente: LA VERGOGNA che avrebbe dovuto soffocarli ad ogni boccone deve essere annegata alla prima forchettata di spigola o al primo sorso di cabernet o di primitivo che hanno ingurgitato, altrimenti almeno qualcuno avrebbe, e non da poco, dovuto segnalare la cosa ai suoi elettori e farne motivo di scandalo e di ludibrio pubblico, perché, sappiatelo, la differenza al costo reale di ogni pietanza ce la RIMETTIAMO NOI DI TASCA ad ogni forchettata.
Lo stesso giornale, IL MIO GIORNALE, titola stamane : “ QUESTA E’ UNA RAPINA ! “. Signori, IN ALTO LE MANI, PREGO!. FORTEBRACCIO".



La linea del Piave. - di Alberto Asor Rosa





Nella storia di questo disgraziato paese (l'Italia, intendo, per chi non ami le metafore), c'è una sindrome spesso ricorrente: si chiama la linea del Piave. Funziona così. Per anni, talvolta per decenni, gli alti comandi, i Governi, le classi dirigenti in genere, prendono decisioni inique, sbagliate, avventurose, persino ciniche e anche delinquenziali: l'incredibile mediocrità degli alti comandi medesimi, la strategia irresponsabile dell'attacco frontale, il mostruoso disavanzo di bilancio, l'incapacità del ricambio, la stralunata soggezione dell'interesse pubblico agli interessi privati o di gruppo, ne rappresentano le manifestazioni più significative ed esemplari. Poi, ad un certo punto, dai e dai, si verifica la catastrofe: le linee cedono, il bilancio crolla, l'economia va in pezzi, le classi dirigenti, d'ogni razza e colore - ripeto: d'ogni razza e colore - annaspano nel vuoto che loro stesse hanno creato. È a quel punto che a qualcuno viene in mente la linea del Piave: gli interessi non sono più diversi, separati e magari contrapposti, diventano "unico". La catastrofe si può affrontare solo tutti insieme, senza più differenze né di razza, né di colore, né di collocazione sociale, né di orientamento politico. E questo, a pensarci bene, è anche giusto: chi, infatti, vorrebbe vedere gli austriaci a Milano o a Venezia? Se poi, come nel caso di oggi, la linea del Piave assume dimensioni planetarie, la solidarietà di tutti intorno a un modello unico di soluzione assume un'evidenza ancor più eloquente: o ci si salva tutti oppure non si salva nessuno. E anche questo potrebbe essere giusto. Ma vediamo fino a che punto il discorso del Piave regge e, ammesso che regga, quali diverse impostazioni gli si possono dare. Facciamo (almeno noi) un passo indietro e torniamo in Italia. Negli ultimi tre-quattro mesi è accaduto nel nostro paese qualcosa che in precedenza sarebbe stato inimmaginabile: e cioè un cambiamento vistoso della costituzione materiale, un aggiustamento invisibile dei meccanismi decisionali. Tutte le più importanti scelte in materia politica ed economica sono state, non certo prese, ma indotte con forza e con, appunto, autorevolezza "dall'alto". E quale esempio più lampante di "Camere congelate" di quelle che, nel giro di quarantotto ore, hanno votato un bilancio dello Stato strangolatorio e, nel caso di certi partiti, addirittura apertamente non condiviso? Non sto dicendo né che sia stato un bene né che sia stato un male: mi limito per ora a constatare che è accaduto. Ricordate il mio articolo sul manifesto del 13 aprile? «Ciò cui io penso è una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instauri quello che io definirei un normale "stato di emergenza", eccetera eccetera». L'unico auspicio di quell'appello che non sia stato per ora praticato è il ricorso all'Arma dei carabinieri e alla polizia di Stato: non ce n'è stato bisogno, e comunque la magistratura e le forze dell'ordine erano impegnate in altro (sempre però nei dintorni: Papa, Milanese, Penati, Bisignani eccetera eccetera).

Ma in generale la linea più volte adottata è andata puntualmente in quella direzione, tacciata allora dai pulpiti più diversi d'imbecillità, provocazione, golpismo, ecc. ecc. Oggi tutti i dubbi e le riserve sono svaniti nel nulla: la linea estrema di difesa delle istituzioni repubblicane e dell'economia e coesione sociale nazionali è diventata il Governo del Presidente (non quello del Consiglio, naturalmente), universalmente invocato dalle forze, partitiche e d'opinione, che si collocano all'opposizione dell'attuale maggioranza parlamentare. Restiamo anche noi all'interno del ragionamento, ma al tempo stesso prendiamoci la libertà di porci - di porre - alcune domande decisive: a favore di chi? Con quali mezzi? Con quale, non solo istituzionale, ma anche politica autorevolezza? Le linee del Piave, in sé e per sé considerate, non servono a scardinare i sistemi, servono a confermarli e a renderli ancora più inattaccabili. La difesa del "bene comune" è pagata sempre da una sola parte. Sul Piave (storicamente, non metaforicamente inteso) la linea fu tenuta dalla leva dei '99, giovani diciottenni gettati in massa nel rogo a difendere l'integrità e l'unità nazionale. Oggi nel tritacarne dell'unità nazionale sono destinati ad essere macinati - alfieri del tutto involontari d'un patriottismo a senso unico - gli anziani e le famiglie deboli, i pensionati, gli operai, i giovani (soprattutto i giovani), i piccoli e medi borghesi, impiegati e professionisti, gli uni e gli altri ovviamente senza rendite parassitarie alle spalle. Sull'atteggiamento da tenere nei confronti di questa situazione si è già sfarinato il fronte delle opposizioni: il Terzo Polo ha subito adottato la linea della massimizzazione dei "sacrifici popolari" (davvero singolare in questo quadro - mi sia permesso di osservarlo - l'atteggiamento della formazione che recentemente ha scelto di chiamarsi "Futuro e Libertà": non dovevano essere la forza di rinnovamento del quadro politico italiano e sono finiti alleati in tutto e per tutto subalterni dei moderati più moderati?). Ma lo sfarinamento ha già raggiunto vertici e settori anch'essi in precedenza inimmaginabili: vedere la Camusso, leader di un'organizzazione operaia e popolare come la Cgil, collocarsi anche fisicamente, quasi a segnare il rapporto gerarchico nuovo testé costituitosi, alle spalle della Marcegaglia, leader delle organizzazioni padronali, ha avuto la portata e il valore di un manifesto, ben comprensibile ai più. La linea del Piave, per essere minimamente condivisa prima che accettata e praticata, avrebbe bisogno di molte condizioni, di cui per ora non si vede traccia, anzi, per essere più esatti, quasi nessuno parla. A scopo puramente provocatorio, come di consueto (poi fra qualche mese si vedrà meglio), ne elenco due, una di carattere economico-sociale, l'altra di carattere politico, la seconda, ovviamente, condizione sine qua non perché la prima diventi credibile. La condizione economico-sociale è la conservazione integrale dello Stato sociale, e cioè, per essere più precisi, di quell'insieme di statuti, regole, leggi e abitudini, che garantiscono la libertà e il benessere ai cittadini più deboli. Quanto al pareggio di bilancio, bisognerebbe chiedersi se le cure prospettate, in dimensioni e rapidità di tempi, non siano destinate ad ammazzare il cavallo invece di rimetterlo in piedi. La distribuzione dei pesi e delle misure, e le loro conseguenze effettive, devono perciò fin d'ora essere elencate con estrema precisione: l'obiettivo, infatti, è garantire con assoluta certezza - e la cosa è tutt'altro che impossibile - che dalla crisi ci si proponga di uscire con uno stato più giusto, non con uno più infame. La condizione politica è che dalla crisi si esca con un riassetto del sistema di potere che almeno garantisca la riapertura di una nuova fase. Dobbiamo invece prendere atto che finora si è andati nella direzione esattamente contraria: e cioè - nella più pura tradizione delle linee del Piave nazionali (ma almeno Cadorna nel '17 perse il posto) - la crisi ha paradossalmente rafforzato, o almeno lasciato più tranquillo, il Governo Berlusconi: è entrato a far parte anch'esso, infatti, della "soluzione unica nazionale" della crisi. Ma questo è intollerabile, e quindi inaccettabile: significherebbe far pagare al paese, come prezzo per uscire dalla crisi, la perpetuazione delle ragioni più profonde della crisi medesima, l'inaffidabilità, il discredito, interno ed internazionale, l'assoluta mancanza del senso dell'interesse pubblico da parte dei suoi goverrnanti. Perché la linea del Piave sia almeno decentemente compresa e condivisa, occorre che il governo del Presidente metta in programma questa apertura di una nuova fase in netta, inequivocabile discontinuità con quella precedente: anche ricorrendo, in tempi ragionevoli, ad un nuovo responso elettorale. Ai costituzionali - notoriamente ce ne sono molti e di molto eccellenti - va richiesta con urgenza una rilettura del primo comma dell'art. 88 della Costituzione, il quale recita (com'è universalmente noto): «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti; sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Le interpretazioni correnti, che depotenziano in genere la facoltà del Capo dello Stato di assumere autonomamente tale decisione, mi sembrano estremamente discutibili, e perciò andrebbero ridiscusse, in una situazione come questa in cui si potrebbe da un momento all'altro avere bisogno di disporre tranquillamente di tale estrema risorsa. Insomma: il Governo del Presidente comporterebbe una netta e puntuale individuazione dei pesi e delle misure da adottare,

una equa distribuzione dei sacrifici, una preliminare scelta di campo a favore delle classi e dei ceti più deboli e, preliminarmente e contestualmente, la ricostituzione d'un quadro politico in grado di giocare la partita nella piena dignità ed efficacia dei suoi possibili mezzi (e uomini). Altrimenti, sarà un confuso, inane e un po' disperato tentativo di tenere in piedi il sistema a favore dei soliti "amici". Non sarebbe una bella cosa, e non funzionerebbe.


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