venerdì 17 febbraio 2017

Mani Pulite, 25 anni dopo: Di Pietro, il malaffare si è evoluto. - Francesca Brunati



'C'è ancora ma si è ingegnerizzato per garantirsi più impunità.


"Da una parte rimane l'amarezza nel constatare che nonostante tutto quel che ha scoperchiato Mani Pulite, il sistema della corruzione e del malaffare nella pubblica amministrazione è rimasto ma non come prima: si è 'ingegnerizzato' per garantirsi maggiore impunità. Dall'altra parte bisogna sottolineare, come dimostrano le inchieste quotidiane, che la magistratura, nella lotta alla corruzione, non ha abbassato la guardia". 

A 25 anni di distanza dall'avvio dell'inchiesta Mani Pulite è la "riflessione a due facce" di Antonio Di Pietro, ex pm e tra i protagonisti, accanto a Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e all'allora Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, di quella stagione cominciata il 17 febbraio 1992 con l'arresto di Mario Chiesa. Le parole di Di Pietro non sono inedite. Le va ripetendo da tempo e spesso in occasioni pubbliche. L'ultima una decina di giorni fa al Palagiustizia milanese dove l'incontro per celebrare il venticinquesimo anniversario dalla nascita dell'indagine, la quale ha comunque ridisegnato la geografia dei partiti italiani, è andato semi deserto. In quell'occasione, davanti a una platea risicata, e a fianco di Davigo, ora presidente del'Anm, aveva affermato: "Tangentopoli è ancora qui" mentre "Mani Pulite è finita" e da allora ad oggi l'unica cosa che è cambiata è che adesso "c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica perché non crede più che possa cambiare qualcosa". E la dimostrazione è "quest'aula che vedo vuota". 

Ancora oggi, sentito al telefono, Di Pietro ha ricordato che "Mani Pulite non aveva scopi politici ed è stata solo una inchiesta giudiziaria che ha preso 'con le mani nella marmellata' anche i politici. Non è stata colpa della magistratura - ha aggiunto - se a rubare erano politici, uomini delle istituzioni e funzionari pubblici". Tutt'altra cosa Tangentopoli: "Era il sistema del malaffare. C'era allora e c'è adesso", solo che adesso si è in sostanza riprogrammato in modo più sofisticato per garantirsi sempre più l'impunità. Un sistema che non è stato intaccato visto che nella classifica mondiale dell'Indice di percezione della corruzione (Cpi) elaborata da Transparency International, l'Italia è al sessantesimo posto ed è terzultima in Europa, seguita da Grecia e Bulgaria. Qualcosa ha fallito? "Ha fallito chi doveva attivarsi affinché ci fossero leggi, mezzi e prevenzione... E non voglio aggiungere altro".

Tiziano Renzi indagato a Roma sugli appalti Consip: è accusato di concorso in traffico di influenze.

Tiziano Renzi indagato a Roma sugli appalti Consip: è accusato di concorso in traffico di influenze

L’inchiesta della Procura capitolina è uno stralcio di quella napoletana, svelata il 21 dicembre in esclusiva da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano. Il padre dell'ex premier: "Ammetto la mia ignoranza ma prima di stamattina neanche conoscevo l’esistenza di questo reato che comunque non ho commesso essendo la mia condotta assolutamente trasparente come i magistrati - cui va tutto il mio rispetto - potranno verificare".


Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del consiglio Matteo Renzi, è indagato dalla Procura di Roma nell’inchiesta sugli appalti Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. L’accusa nei suoi confronti è concorso in traffico di influenze. L’inchiesta romana è uno stralcio di quella aperta a Napoli e svelata il 21 dicembre in esclusiva da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano. Si tratta dello stesso procedimento (inviato a Roma per competenza territoriale) in cui è indagato il ministro dello Sport Luca Lotti, accusato a sua volta di rivelazione di segreto e favoreggiamento al pari del generale dei carabinieri Tullio Del Sette e il comandante della Legione Toscana dei carabinieri, il generale Emanuele Saltalamacchia.
Il padre del segretario del Pd ha ricevuto oggi un invito a comparire nel quale si ipotizza il reato a suo carico. I magistrati di piazzale Clodio intendono sentirlo a breve, già la prossima settimana. La notifica è arrivata a Renzi senior alle ore 13 a Scandicci, come confermato dall’avvocato Federico Bagattini, legale di Tiziano Renzi. “Il fatto è totalmente incomprensibile – ha detto il difensore – perché nell’atto è riportato solo il numero della norma violata. Prenderemo contatto con il pm per capire quali sarebbero i fatti contestati”.
Anche il diretto interessato ha detto la sua circa l’iscrizione nel registro degli indagati: “Ammetto la mia ignoranza ma prima di stamattina neanche conoscevo l’esistenza di questo reato – ha detto Tiziano Renzi – che comunque non ho commesso essendo la mia condotta assolutamente trasparente come i magistrati, a cui va tutto il mio rispetto, potranno verificare. I miei nipoti sono già passati da una vicenda simile tre anni fa – ha aggiunto – e devono sapere che il loro nonno è una persona perbene: il mio unico pensiero in queste ore è per loro”.
Il reato di traffico di influenze, contestato al padre dell’ex premier in concorso con altri, è stato introdotto nel codice penale nel 2012: mira a colpire anche il mediatore di un accordo corruttivo al fine di prevenire la corruzione stessa. Il ruolo del padre del segretario Pd ha attirato le attenzioni dei magistrati poiché strettamente collegato a quello del suo vecchio amico Carlo Russo, un imprenditore toscano molto vicino ad Alfredo Romeo, protagonista principale dell’inchiesta della Procura partenopea.
Il primo a commentare la notizia è il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio del M5s, che su twitter scrive: “Padre di Renzi e suo braccio destro Lotti indagati in inchiesta Consip. Renzi era a conoscenza del traffico di informazioni? #Renzisapeva?”. Dello stesso tenore il commento del capogruppo M5s Vincenzo Caso. “L’inchiesta Consip – dice – che riguarda una commessa miliardaria si conferma un caso giudiziario da approfondire, su cui è necessaria la massima attenzione di tutta l’opinione pubblica. Bisogna accendere un faro sulla vicenda”.
Nell’indagine, che di fatto viene coordinata da due Procure, il focus principale degli inquirenti è rivolto alla gara d’appalto, bandita nel 2014, denominata Fm4 (facility management) del valore di 2,7 miliardi di euro e che era stato suddiviso in una serie di lotti.  I magistrati capitolini intendono approfondire i rapporti tra il padre dell’ex premier e l’imprenditore Russo, in contatto con Romeo. Agli atti dell’indagine anche decine di intercettazioni telefoniche acquisite nel filone napoletano dell’inchiesta tra Romeo e l’ex deputato Italo Bocchino, “consulente” dell’imprenditore.
Per l’inchiesta Consip, nel dicembre scorso, dopo aver ricevuto gli atti da Napoli, i pm capitolini hanno ascoltato il ministro dello Sport Lotti e il comandante generale dell’Arma, Del Sette. Entrambi hanno respinto le accuse, sostenendo di non aver mai rivelato ai vertici di Consip l’esistenza di indagini. In particolare Lotti, interrogato il 27 dicembre scorso, ha affermato di “non avere mai saputo nulla di indagini” relative alla Consip. Riferendosi all’amministratore delegato della società, Luigi Marroni, che sentito come persona informata sui fatti dai magistrati di Napoli aveva fatto il nome dell’allora sottosegretario, Lotti ha detto di “non frequentarlo” e di “averlo visto solo due volte nell’ultimo anno”.

ECCO QUANTO HA RUBATO LA FAMIGLIA AGNELLI IN 100 ANNI AGLI ITALIANI! - Marx21

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Come gli Agnelli hanno rapinato l’Italia lungo un intero secolo.

Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l’Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. 

Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E’ una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare – alla luce dell’ultimo blitz di Marchionne – tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent’anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). 

Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt’oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. 

Nel suo libro – “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli – Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell’ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto “regolare”. Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, “piani di sviluppo” così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell’imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave “meridionalistica”) in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce “conto capitale”. Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge – allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all’epoca del 40% del mercato – sulla rottamazione delle auto. 
Per non parlare dell’Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all’indirizzo dell’Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altisssimo è poi quello che va sotto la voce”ammortizzatori sociali”, un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione – scrive sempre Mucchetti nel libro citato – Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l’uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell’integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l’onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». 

Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su “Proteo”, Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l’appropriato titolo”Cent’anni di improntitudine.

Ascesa e caduta della Fiat”. Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di Motori per navi e sopratutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l’anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli “scioperi impulsivi”; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l’industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell’interventismo. I profitti (anzi, i “sovraprofitti di guerra”, come si disse all’epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell’80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila.
«Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del ’22 un collaborativo Agnelli batte le Mani al “Programma economico del Partito Fascista”; nel ’23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel ’24 approva il “listone” e non lesina finanziamenti agli squadristi.

Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l’importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel ’31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il “sistema Bedaux”, cioè il “controllo cronometrico del lavoro”: ottimo per l’intensificazione dei ritmi e ia congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E’ infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l’Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia – scrive Giacché – fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». 
Fiat brava gente. L’Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo “posto”. Nel ’47 risulta essere praticamente l’unica destinataria dell’appena nato “Fondo per l’industria meccanica”; e l’anno dopo, il fatidico ’48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere… E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! 
Questa è una rapina.

http://laveritadininconaco.altervista.org/quanto-rubato-la-famiglia-agnelli-100-anni-agli-italiani/

giovedì 16 febbraio 2017

Inps, Corte dei Conti: ‘Per la prima volta patrimonio negativo. E il rosso peggiorerà’. Boeri: ‘Prestazioni garantite’. - Fiorina Capozzi

Inps, Corte dei Conti: ‘Per la prima volta patrimonio negativo. E il rosso peggiorerà’. Boeri: ‘Prestazioni garantite’

"Il sistema è sostenibile", ha gettato acqua sul fuoco il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Ma i magistrati contabili, nella determinazione sull'esercizio 2015 dell'istituto, sottolineano che anche il bilancio di previsione per il 2017 evidenzia una perdita e un patrimonio netto che passa da -1,73 a -7,8 miliardi. Perplessità poi sulla riforma avviata dal presidente.


I conti 2015 dell’Inps sono in rosso. E, per la prima volta, nel 2016 le perdite mangeranno anche quasi due miliardi di patrimonio dell’istituto. Ma per il presidente Tito Boeri non c’è nessun allarme nello scenario decritto dalla Corte dei Conti con la determinazione sull’esercizio 2015 dell’istituto. Anche perché “il disavanzo deriva unicamente da ritardi nei trasferimenti dello Stato che vengono anticipati dall’Inps e poi ripianati di nuovo dallo Stato. E’ già successo altre volte”, ha precisato Boeri. Aggiungendo che in ogni caso “le prestazioni sono garantite dallo Stato”. “Il sistema è sostenibile“, ha aggiunto poi il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, spiegando che non sono previsti interventi del governo a supporto dell’ente previdenziale.
Eppure per la Corte dei Conti c’è un chiaro trend di deterioramento patrimoniale. Se infatti il 2015 si chiude con un risultato economico negativo per 16,297 miliardi e un patrimonio netto in flessione a 5,87 miliardi, non c’è da star tranquilli per gli anni a venire. I magistrati contabili evidenziano come sullo scorso anno “per effetto di un peggioramento dei risultati previsionali assestati del 2016 (con un risultato economico negativo che si attesta su 7,65 miliardi) il patrimonio netto passi, per la prima volta dall’istituzione dell’ente, in territorio negativo per 1,73 miliardi“. Non solo: “Nella stessa direzione, il bilancio di previsione per il 2017 adottato dal presidente il 27 dicembre 2016 e in corso di approvazione da parte del Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ), mostra un risultato economico di esercizio negativo per 6,152 miliardi e un patrimonio netto che si attesta a -7,863 miliardi”, come si legge nel documento della Corte dei Conti che evidenzia come nel 2015 21 milioni di pensioni (di cui l’82% previdenziali) siano costate 307 miliardi contro 215 miliardi di entrate contributive.
Ma, al di là dello squilibrio di gestione, la maggiore criticità nel bilancio Inps è nei crediti contributivi. Nel 2015 il loro valore è ammontato a 92,399 miliardi. Ma sulla effettiva riscossione di questa somma cui non ci sono certezze perché si tratta di crediti “a rischio di realizzabilità”. Non a caso, nel 2015 sono state proprio le svalutazioni dei crediti (per 13,09 miliardi) a determinare il risultato negativo della gestione. “Rimane, pertanto, centrale ai fini del rispetto degli stessi principi della attendibilità e veridicità dei dati iscritti in bilancio che l’Istituto prosegua e rafforzi gli interventi volti ad accertare la sussistenza dei presupposti sottesi all’iscrizione in bilancio dei residui attivi, la cui revisione – e la conseguente cancellazione di quelli non più riscuotibili – si pone a monte sia della eliminazione dalle poste dell’attivo dello stato patrimoniale dei correlati crediti, sia della correzione degli importi iscritti nel fondo svalutazione crediti (55 miliardi, ndr) che figura nel passivo dello stato patrimoniale” precisa la Corte.
Nelle 206 pagine di delibera, la magistratura contabile accende anche un faro su voucher e Isee. Per la Corte dei Conti, dietro all’incremento dei buoni lavoro per le prestazioni occasionali di lavoro accessorio (+66% rispetto al 2014 per 1,151 miliardi) potrebbero infatti nascondersi “fenomeni di lavoro nero e irregolare” capaci di incidere negativamente sui flussi di cassa dell’ente. Per questo “l’espandersi dell’utilizzo dello strumento impone, comunque, un’attenta opera di vigilanza”, si legge nella delibera. Per quanto invece ai rapporti con i Caf per l’assistenza agli utenti delle dichiarazioni sostitutive uniche (Dsu) ai fini della certificazione Isee, l’Inps ha registrato un incremento nei costi (87 milioni, 11 in più rispetto alla stanziamento di bilancio 2016) coperto, con un intervento spot, attraverso la riduzione di altre voci di spesa dell’Istituto. Tuttavia “il problema della copertura dei costi del servizio reso dai Caf, in particolare, ai fini della certificazione Isee rimane, dunque, ancora non risolto, con ripercussione già dal 2017. E’ dunque necessario che si pervenga ad individuare idonee soluzioni anche di carattere tecnico-normativo”, spiega il documento esprimendo preoccupazione per uno strumento necessario per consentire l’accesso alle agevolazioni per le classi meno agiate della popolazione.
Desta, infine, perplessità la riforma avviata da Boeri. La Corte esprime dubbi cioè sul regolamento, che ha rafforzato la figura del presidente ed innescato una lotta di potere all’interno dell’ente previdenziale. Per i magistrati contabili, “l’interpretazione conferita dalla norma regolamentare al quadro normativo vigente non appare del tutto convincente” relativamente al rapporto fra presidente e direttore generale. Per non parlare del fatto che anche la determinazione presidenziale che stabilisce criteri e modalità per gli incarichi dirigenziali rischia di far scattare una “crescita esponenziale del contenzioso sulla materia”. Con un conseguente impatto negativo sui risultati futuri dell’ente.
Che l'abuso di utilizzo e le pessime amministrazioni abbiano causato il problema risulta anche naturale, ciò che lascia perplessi è l'opinione che esprime la Corte dei Conti su Boeri. 
Un responsabile deve avere un certo potere decisionale sull'oggetto affidatogli.
O chi ha affidato la nomina pensava di aver posto in atto l'ennesima investitura di simil "cavalier servente"?
La politica ha perso il suo bel significato, purtroppo, assumendone uno peggiore e mortificante: quello di "pessima espressione di amministrazione della società".
C.

Bocciatura alla scuola primaria “discriminatoria, va abolita”. Su change.org l’appello alla ministra.

Bocciatura alla scuola primaria “discriminatoria, va abolita”. Su change.org l’appello alla ministra

Nella legge delega sulla Buona Scuola era inserito il divieto, ma Valeria Fedeli l’ha eliminato. E parte la rivolta di docenti e pedagogisti: "Chi di noi lavora nell'ambito scolastico o si occupa di formare i futuri maestri sa non solo quanti sono i respinti ma anche chi sono: figli di immigrati, ragazzi meridionali delle famiglie più povere, bambini rom. La scuola dovrebbe aiutare chi ha difficoltà". Il testo della lettera.

Era già tutto deciso. Per mesi sui quotidiani si è parlato dell’addio alla bocciatura alla scuola primaria. Un provvedimento voluto dall’ex ministro Stefania Giannini. La senatrice Francesca Puglisi, responsabile nazionale della scuola del Partito democraticol’aveva annunciato anche su Ilfattoquotidiano.it. E’ bastato un cambio al vertice per ribaltare le carte e far apparire di nuovo nella bozza dei decreti delegati la possibilità di respingere un bambino alla scuola elementare. A fare marcia indietro è stata la ministra Valeria Fedeli.
Una scelta per nulla digerita da chi sta in classe ogni giorno. Quindici rappresentanti del mondo della scuola, tra cui il direttore della Fondazione “Giovanni Agnelli” Andrea Gavosto, i maestri Franco LorenzoniPaolo Limonta e Alex Corlazzoli; il Movimento di cooperazione educativaFrancuccio Gesualdi, l’ex alunno di don Lorenzo Milani; i pedagogisti Daniele NovaraPaolo MottanaMonica GuerraLorena RoccaMario Piatti e tanti altri hanno lanciato un appello per chiedere alla ministra di tornare sui suoi passi. In quarantott’ore sono già state raccolte più di 700 firme. Ecco il testo:
Ministra Fedeli, tolga la bocciatura dalla scuola primaria!
“Non bocciare. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno. Agli svogliati basta dargli uno scopo”. Sono passati cinquant’anni da quando don Lorenzo Milani scriveva queste tre riforme della scuola in “Lettera ad una professoressa” ma nello schema di decreto legislativo recante “Norme sulla valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato a norma dell’articolo 1, commi 180, 181 e 182, della legge 13 luglio 2015, n. 107” all’articolo tre è stata reintrodotta la bocciatura alla scuola primaria.
Dopo che autorevoli componenti della VII° Commissione della Camera avevano annunciato la soppressione della bocciatura dalla scuola primaria, la ministra Valeria Fedeli ha voluto reintrodurre la norma precedente ovvero “i docenti della classe in sede di scrutinio, con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione”. I cosiddetti casi “eccezionali” solo nell’ultimo anno scolastico 2015/2016 sono stati 11.071 e nell’anno precedente 11.866.
Chi di noi lavora nella scuola o si occupa di formare i futuri maestri sa non solo quanti sono i respinti ma anche chi sono: figli di immigratiragazzi meridionali provenienti dalle famiglie più poverebambini rom. Oggi come ai tempi di don Lorenzo Milani “la scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde”. La nostra scuola anche oggi perde il 15% dei ragazzi.
Dietro questa percentuale noi vediamo i volti dei nostri bambini che non hanno certo bisogno di essere respinti ma di maggiore risorse umane, di insegnanti di sostegno formati, di educatori di strada, di una scuola più lenta, capace di ascoltare le esigenze di questi bambini, di captare le loro difficoltà e quelle delle loro famiglie.
Come scriveva Janusz Korczak noi dobbiamo “rispetto alle sconfitte e alle lacrime del bambino. Dobbiamo rispetto alla sua ignoranza”. Come insegnanti e pedagogisti respingiamo l’idea che la nostra scuola dopo cinquant’anni non abbia ancora compreso che non può respingere nessuno alla primaria ma può solo far valere l’articolo 3 della nostra Costituzione anche per i bambini che sono cittadini alla pari dei “grandi”. E’ lo stesso don Milani ancora a ricordarci che “Se si perde loro (gli ultimi) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati” e che dobbiamo fare una sola cosa: “Richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar per pazzi”. Sottolineiamo altresì l’opportunità di non mantenere i voti in decimi, fonti di discriminazioni, indebiti confronti, demotivazione e effetti dannosi sull’autostima come gli stessi don Milani, Mario Lodi e molti altri hanno speso una vita a dimostrare.
E’ per questo che ci appelliamo a lei, ministra, perché ascolti il parere di chi nella scuola vive da anni e conosce i bambini e tolga dallo schema di bozza delle norme sulla valutazione l’articolo tre così come citato.
Gian Carlo Cavinato, segretario nazionale Movimento Cooperazione Educativa
Alex Corlazzoli, maestro e giornalista
Stefania Fenizi, insegnante e moglie di Gianfranco Zavalloni
Andrea Gavosto, direttore Fondazione “Giovanni Agnelli”
Francesco Gesualdi, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ex allievo di don Lorenzo Milani
Rosa Giudetti, presidente Associazione “Montessori” – Brescia
Monica Guerra, docente in didattica “Bicocca” Milano
Paolo Limonta, maestro
Franco Lorenzoni, maestro e scrittore
Paolo Mottana, docente in pedagogia “Bicocca” Milano
Daniele Novara, pedagogista, fondatore Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti.
Mario Piatti, docente di pedagogia musicale
Lorena Rocca, docente dipartimento scienze storiche, geografiche Università degli Studi, Padova
Federico Taddia, giornalista
Elena Tamberi
Far passare la bocciatura come atto discriminatorio è il massimo della stupidità.
Dobbiamo forgiare le future generazioni a farsi carico di tutte le responsabilità che contribuiscono al mantenimento di una società sana e produttiva e che si assumano le responsabilità del caso, non possiamo, pertanto, passare sopra le carenze culturali e di comunicazione.
Le correzioni al sistema vanno operate nei metodi di insegnamento, non nell'elargizione di un premio immeritato.
Cadiamo sempre negli stessi errori che ci hanno portato allo sfascio della cultura e della meritocrazia.
Il buonismo ad oltranza è solo deleterio!
C.

mercoledì 15 febbraio 2017

5 errori che facciamo sull’evoluzione.


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Davvero gli uomini hanno smesso di evolversi? L’evoluzione spiega l’origine della vita? Possiamo parlare di perfetti adattamenti all’ambiente? In occasione del Darwin Day ecco altri 5 errori comuni sull’evoluzione

Il 12 febbraio è l’anniversario della nascita di Charles Darwin e, come ogni anno, la ricorrenza è l’occasione per riaffermare pubblicamente l’attualità degli studi e dell’insegnamento dell’evoluzione attraverso gli eventi Darwin Day. I Darwin Day italiani sono segnalati dal portale dell’evoluzione Pikaia, mentre il sito dell’International Darwin Day Foundation mostra gli eventi in tutto il mondo.

Per gli obiettivi che si pone la celebrazione, questo Darwin Day è forse il più significativo degli ultimi anni: dopo l’elezione di Trump negli Usa si sono intensificati i tentativi di indebolire l’insegnamento dell’evoluzione, mentre anche in Europa, a lungo considerata relativamente immune a questo tipo di antiscienza, il creazionismo continua ad avanzare.

Eppure, se molto spesso fraintendiamo alcuni aspetti dell’evoluzione non è necessariamente colpa della propaganda creazionista (che di questi tempi qualcuno forse chiamare post-verità). Buona parte degli errori che facciamo sono molto probabilmente dovuti a come ragiona e comunica la nostra specie. Per esempio l’idea (errata) dell’evoluzione come progresso, che a volte ci fa paragonare gli organismi a tecnologie, è molto diffusa anche perché siamo naturalmente portati ad attribuire un fine a quello che ci circonda. In occasione del Darwin Day proviamo allora a raccontare altri 5 errori comuni che facciamo sull’evoluzione.

1. L’evoluzione NON spiega l’origine della vita.
Charles Darwin
 e Alfred Russel Wallace erano dei geni e la loro teoria, opportunamente aggiornata, è in grado di spiegare la diversità della vita sul nostro pianeta. Quello che non spiega, invece, è come sia nata la vita. Gli scienziati non hanno dubbi che i primissimi organismi terrestri siano stati immediatamente sottoposti ai meccanismi evolutivi, e che quello che vediamo intorno a noi sia il risultato di quella che Darwin chiamava “discendenza con modificazioni”. Ma senza la materia prima, l’evoluzione biologica non può avere luogo. Com’è nata allora la vita? La realtà è che ancora non lo sappiamo. In generale, gli scienziati parlano di abiogenesi: sulla Terra primordiale processi naturali hanno probabilmente portato ai composti chimici alla base della vita, e in centinaia di milioni di anni questi si sarebbero auto-organizzati in sistemi molecolari in grado di replicarsi e mantenere un metabolismo, cioè le prime forme di vita. Viene usato a questo proposito anche il termine evoluzione chimica, perché si può comunque immaginare un processo graduale, dove magari alcuni sistemi sono diventati predominanti, ma si tratta di qualcosa di ben distinto dall’evoluzione biologica di Darwin e Wallace: come detto l’origine della vita è un problema scientifico aperto.


2. NON ci siamo evoluti per caso.
Diversi creazionisti credono che secondo i biologi il cambiamento degli esseri viventi sia dovuto al puro caso, e spesso a loro supporto citano un esempio del celebre astronomo Fred Hoyle: se un tornado passasse sopra un deposito di rottami, quali sono le probabilità che il risultato sia un Boeing 747 perfettamente funzionante? In realtà l’esempio (ampiamente demolito) di Hoyle riguardava l’abiogenesi, ma argomenti di questo tipo risalgono addirittura ai tempi di Darwin. Il caso ha una grande importanza nell’evoluzione, ma dire che l’evoluzione è un processo casuale è errato; allo stesso tempo è errato affermare che è un processo dove il caso non conta nulla. Sì, le mutazioni del dna sono in genere definite casuali, nel senso che l’emergere di una certa mutazione non dipende dai bisogni dell’individuo o della specie. Ma la selezione naturale (come quella sessuale) è l’opposto del caso: l’adattamento è reso possibile da questo onnipresente filtro che nel tempo modificano il patrimonio genetico delle popolazioni. Non è affatto un caso se alcune delle (rare) mutazioni che permettono agli individui di lasciare più discendenti si diffondono.

3. L’evoluzione È osservabile. 
Si dice che l’evoluzione sia lenta e graduale, e che per questo non è possibile osservarla direttamente. In realtà è vero che l’evoluzione è graduale e molti cambiamenti avvengono nella scala dei tempi geologici, ma esistono molti casi nei quali è possibile osservare l’evoluzione in diretta, o quasi. Usando organismi che si riproducono molto velocemente, come i batteri, gli scienziati possono osservare in laboratorio la selezione naturale e le altre forze dell’evoluzione, come nel caso del E. coli Long-Term Evolution Experiment (Ltee) cominciato dal microbiologo Richard Lensky (Michigan State University) nel 1988. Rapidi adattamenti sono osservabili anche fuori dai laboratori: la resistenza dei batteri agli antibiotici è forse l’esempio più immediato, ma tutti i patogeni, dagli insetti ai funghi, sviluppano rapidamente ceppi resistenti a tutte le nostre contromisure. Anche i vertebrati possono cambiare nel giro di pochi decenni, e in tutto il mondo stiamo già assistendo agli adattamenti dovuti al cambio climatico.

4. Gli esseri umani NON hanno smesso di evolversi. 
Nel 2013 il divulgatore britannico David Attenborough ha affermato che, almeno nei paesi più sviluppati, l’evoluzione umana si sarebbe fermata: medicina ed elevati livelli di benessere avrebbero eliminato la lotta per la sopravvivenza, e di conseguenza l’evoluzione. Non è chiaro come un divulgatore tanto preparato abbia potuto fare un tale scivolone, ma i biologi non hanno tardato a replicare. Sì, indiscutibilmente la specie umana sta continuando a evolversi, anche nelle società dove quasi tutti raggiungono tranquillamente fino all’età riproduttiva. Non è infatti necessario che molti individui non sopravvivano perché l’evoluzione avvenga: finché alcuni faranno più figli di altri, finché continueremo a scegliere (quindi in maniera non casuale) se e con chi riprodurci, e finché l’ambiente intorno a noi continuerà a mutare, il dna delle popolazioni continuerà a cambiare e l’evoluzione continuerà la sua strada.

5. L’adattamento perfetto NON esiste.
Quante volte guardando un documentario abbiamo sentito il narratore affermare che un certo organismo era “perfettamente adattato”? Sicuramente i risultati della selezione naturale possono farci rimanere a bocca aperta, ma i biologi sanno che la perfezione non è un concetto applicabile agli esseri viventi. Come spiega Marco Ferrari nel libro l’Evoluzione è ovunque (Codice, 2015) anche i più stupefacenti adattamenti sono frutto di compromessi, non c’è spazio per assoluti: “Per diventare una macchina da predazione, l’evoluzione del ghepardo ha dovuto obbedire a numerosi compromessi che derivano da spinte evolutive differenti. Quelle che portano alla velocità evolverebbero strutture per farlo correre il più rapidamente possibile, ma “coabitano” con altre, come robustezza o capacità riproduttiva. Il risultato sono caratteristiche a metà strada tra le une e le altre. […] Non può esistere, quindi, un ghepardo velocissimo e fortissimo”. Le stesse considerazioni sono valide per qualunque specie, anche la nostra. Basta pensare alla nostra postura eretta con andatura bipede, celebrata come un traguardo nella celebre (e antiscientifica) icona La marcia del progresso: rispetto alle altre scimmie gli umani hanno pelvi più strette, una caratteristica che rende il parto più rischioso, anche a causa della grandezza del nostro cervello. Un bacino ancora più stretto, spiega Ferrari, potrebbe faciliterebbe la corsa, ma renderebbe impossibile la riproduzione, quindi quello che osserviamo è il risultato di un compromesso tra diverse spinte evolutive.

http://pikaia.eu/5-errori-che-facciamo-sullevoluzione/

martedì 14 febbraio 2017

Addio al traffico: nei cieli di Dubai arriva il drone-taxi.



Prodotto in Cina, l'EHang 184 sarà pilotato a distanza. Con un solo posto a bordo, percorrerà un massimo di 50 km a viaggio.


Sembrava un lontanissimo sogno da film di fantascienza e invece volare sulle città sta per diventare una solida realtà. Introdurre un servizio drone adibito al trasporto passeggeri entro luglio 2017: è l'intenzione di Mattar al Tayer, responsabile della Roads & Transportation Agency di Dubai, che al Al World Government Summit ha fatto l'annuncio. I droni potranno ospitare una sola persona e trasportare pendolari tra punti di controllo prestabiliti. L’agenzia - secondo quanto riportato dall'Associated Press - ha mostrato il veicolo ad un evento. “Questo non è solo un prototipo”, ha detto al-Tayer. “Abbiamo effettivamente sperimentato con questo veicolo il volo nei cieli di Dubai.”


EHang 184, il drone elettrico made in China
È completamente elettrico, è fabbricato in Cina, ha debuttato al CES 2016 ed è stato testato in volo a Las Vegas la scorsa estate. Si tratta del drone EHang 184, un aereo personale di 500 chili, con spazio per un passeggero di peso fino a 100 kg e una piccola valigia in un vano separato. Può coprire una distanza di circa 50 chilometri con una singola carica e arrivare ad una velocità massima di 160 km orari. Per il servizio di taxi proposto da Dubai, i droni saranno pilotati e monitorati da un “centro di comando a distanza.”


Da Airbus a Uber, la sfida del trasporto aerospaziale è iniziata
Come già anticipato da Evening News (n. 662 del 25/01), anche Tom Enders, Ceo della compagnia aerea Airbus, ha annunciato un prototipo di taxi volante che sarà svelato entro la fine del 2017. L’anno scorso il colosso dei cieli a questo scopo ha creato la divisione Urban Air Mobility. L’obiettivo è ipotecare la rivoluzione che cambierà il nostro stile di vita urbano. E non solo, si apre così la sfida del far sharing aerospaziale. Obiettivo di Airbus sono i taxi volanti elettrici, con decollo e atterraggio verticali, da uno o più posti, che si prenotano via smartphone attraverso un'app. Un guanto di sfida lanciato ad altre case come Uber, attualmente all’opera per testare un servizio simile chiamato Uber Chopper, che consente di prenotare un elicottero. Senza dimenticare Larry Page (creatore di Google) e il suo investimento di 100 milioni di dollari per la startup Zee.Aero, la divisione nella Silicon Valley specializzata in veicoli volanti. L'obiettivo di tutti questi progetti? Eliminare il traffico urbano.