Il commercialista, candidato nel 2001 nella lista cuffariana Biancofiore, è stato ritenuto dai giudici palermitani 'socialmente pericoloso' e per questo sottoposto a sorveglianza speciale per quattro anni. Tre anni fa gli erano stati sequestrati quasi 800 milioni di euro per gli stessi motivi.
È ritenuto legato ai vertici di Cosa Nostra a Villabate, in provincia di Palermo. Un uomo della “zona grigia” che avrebbe gestito il patrimonio della cosca, secondo la Dia di Palermo, che dopo la pronuncia della sezione misure di prevenzione del Tribunale, ha sequestrato 400 milioni di euro tra conti correnti, quote societarie, capitale sociale e compendi aziendali all’ex deputato regionale cuffariano Giuseppe Acanto, 58 anni, già tre anni fa finito nel mirino della Direzione investigativa antimafia.
Acanto, inoltre, è stato ritenuto dai giudici palermitani ‘socialmente pericoloso’ e per questo sottoposto a sorveglianza speciale per quattro anni, a partire dal 2018. Secondo la Dia, Acanto negli Anni Novanta era socio in affari illeciti con Giovanni Sucato, il cosiddetto ‘mago dei soldi’ che, dopo aver truffato migliaia di persone tra cui anche alcuni appartenenti a Cosa nostra, sparì poi con un ingente capitale e il cui cadavere, nel 1996, fu trovato carbonizzato all’interno della propria auto. Anche Acanto dopo aver subito l’incendio nello studio professionale si rese irreperibile.
Nel 1994, dopo essere stato perdonato grazie alla mediazione di elementi di spicco della famiglia di Villabate, riprese l’attività di commercialista, dedicandosi alla costituzione di società in nome e per conto degli uomini d’onore. Secondo gli investigatori, riuscì a trovare interlocutori privilegiati all’interno dell’amministrazione del comune di Villabate (in seguito sciolto per infiltrazioni mafiose) facendosi nominare direttore del locale mercato ortofrutticolo e avvicinatosi all’attività politica, si occupò di sviluppare ogni operazione economica d’interesse della locale famiglia mafiosa, come la costruzione del centro commerciale.
Prima di leggere questo articolo, andate a pagina 13 e leggetevi quelli di Gomez e Robecchi sulla bombastica analisi della Corte dei Conti sul mega-bidone degli F-35, i cacciabombardieri americani che nel 2009 il governo di centrodestra e la finta opposizione Pd deliberarono di acquistare in 131 esemplari (poi ridotti a 90) dalla Lockheed Martin per la modica cifra di 15 miliardi: più o meno il costo di un anno di reddito minimo per chi non ha nulla. Ora i giudici contabili hanno scoperto quello che noi poveri tapini e financo un bel pezzo del Parlamento già sapevano: il programma F-35 è in ritardo di almeno 5 anni per “molteplici problematiche tecniche”; i costi sono “praticamente raddoppiati”; i 6500 nuovi posti di lavoro annunciati sono appena 1600; ritirarsi ora vorrebbe dire perdere gli “ingenti investimenti” di 4 miliardi già stanziati, ma anche risparmiare i restanti 10. Robecchi si domanda: “Chi è stato?” (ma la S andrebbe maiuscola). Per i più curiosi, torniamo indietro all’estate del 2013. In Egitto l’esercito arresta il presidente democraticamente eletto Morsi e migliaia di Fratelli musulmani e insedia il generale-dittatore Al-Sisi: scalpore in tutto il mondo. Intanto in Italia i generali con l’appoggio del rieletto presidente Giorgio Napolitano mettono in mora il Parlamento: silenzio di tomba. Il 29 giugno Camera e Senato approvano una mozione Sel-5Stelle che impegna il governo Letta (Pd+Pdl+Centro) a sospendere per sei mesi, in attesa dei risultati di un’“indagine conoscitiva”, i nuovi acquisti di F-35. Per motivi sia economici sia tecnici. Quel progetto di cooperazione tecnologico-militare coinvolge 9 Paesi, di cui già 5 si sono sfilati in varie forme: Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Australia e Turchia. Secondo non i pacifisti, ma gli esperti del Pentagono, gli F-35 presentano vari difetti di fabbricazione: tipo che, se colpiti da un fulmine, rischiano di esplodere in volo.
Anche il Pd – pur fra mille maldipancia – vota con M5S e Sel per vincolare il governo “a non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito, ai sensi della legge 244/2012”. Ma la sola idea che il Parlamento torni a esistere e a dire qualcosa senza il permesso dei superiori fa saltare la mosca al naso di re Giorgio. I giornali lo descrivono “molto irritato” per la lesa maestà delle Camere nei confronti suoi e dei padroni americani. Così il 3 luglio Napolitano riunisce il Consiglio supremo di difesa, di cui s’erano perse le tracce dalla notte dei tempi. Poi dirama un supermonito categorico e impegnativo per tutti.
Eccolo: “La facoltà del Parlamento (riconosciuta dalla legge 244/2012, nda) non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Cioè: nel 2012 il Parlamento approva una legge, la 244, promulgata da Napolitano, per raccomandare tagli alle spese militari e stabilire che quelle “straordinarie” passino sempre dalle Camere, e pure quelle ordinarie che completino “programmi pluriennali finanziati nei precedenti esercizi con leggi speciali”; e per dare alle Camere l’ultima parola sulle spese militari alla luce del quadro internazionale e delle disponibilità finanziarie dello Stato, per evitare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Proprio il caso degli F-35. Ma Napolitano fa dire a quella legge il contrario di quel che dice, usandola per esautorare le Camere. Ce ne sarebbe abbastanza per un conflitto di attribuzioni fra Parlamento e Quirinale contro questo golpetto senza carri armati, ma con i generali. Ma i presidenti Boldrini e Grasso, solitamente così loquaci e suscettibili, dormono e non fanno un plissé.
Il ministro Franceschini ringrazia fantozzianamente il sovrano per il “giusto richiamo alla separazione dei poteri”. Solennissima sciocchezza: il Consiglio supremo di difesa non è un potere dello Stato, ma – come osserva Stefano Rodotà – “un organo di informazione e consulenza del presidente della Repubblica e indirettamente del governo”, dunque “non solo queste prerogative non si estendono al Parlamento, ma di certo non può essere il Consiglio a imporre veti alle Camere. Proprio non gli compete. Il Parlamento è stato ancora una volta esautorato”.
Intervistato dal Fatto, anche Gustavo Zagrebelsky stigmatizza l’entrata a gamba tesa del Colle: “Chissà chi sono i consulenti giuridici che hanno avallato le affermazioni del Consiglio supremo di difesa, che svuotano i compiti del Parlamento in materia di sicurezza e politica estera. Un regresso di due secoli, a quando tali questioni erano prerogativa régia…La natura del Consiglio supremo di difesa è stata definita nel 1988 da una relazione della Commissione presieduta da un grande giurista, Livio Paladin, istituita dal presidente Cossiga per fare chiarezza su un organo ambiguo (ministri, generali, presidente della Repubblica). Fu chiarito allora che si tratta di un organo di consulenza e informazione del presidente, senza poteri di direttiva.
D’altra parte, chi stabilisce se certi provvedimenti e decisioni sono solo tecnici e operativi, e non hanno carattere politico? I sistemi d’arma, l’uso di certi mezzi o di altri non sono questioni politiche? Chi decide? Il Parlamento, in un regime parlamentare. Forse che si sia entrati in un altro regime?”. Parole che cadono nel vuoto. Il Parlamento rincula, il governo preleva un’altra manciata di miliardi dalle nostre tasche per comprare dalla Lockheed altri bidoni volanti, e ora si scopre che era tutta una patacca. Casomai volesse recuperare qualche spicciolo, la Corte dei Conti può spedire il conto a casa Napolitano, Roma, via dei Serpenti.
Con consenso delle persone stesse, fermati da Polizia a Palermo.
Mutilavano braccia e gambe delle vittime, che erano consenzienti nonostante a volte finissero in sedia a rotelle, sostenendo che quelle lesioni erano la conseguenza di incidenti stradali, in modo da poter poi truffare le assicurazioni. E' quanto ha scoperto la Polizia a Palermo sgominando due pericolose organizzazioni criminali. Le indagini coordinate dalla Procura di Palermo hanno portato a undici fermi.
La Polizia ha accertato che i membri delle due organizzazioni utilizzavano metodi particolarmente violenti e dolorosi per mutilare le vittime, ad esempio scagliando su braccia e gambe dei pesanti dischi di ghisa come quelli utilizzati per il sollevamento pesi nelle palestre. Le menomazioni erano tali che le vittime o finivano in sedia a rotelle o erano costrette a muoversi per lunghi periodi con le stampelle.
L'inchiesta è partita dalle indagini su un presunto sinistro. Un cittadino tunisino, Hadry Yakoub è stato trovato morto su una strada alla periferia di Palermo, a gennaio del 2017. La morte sembrava provocata da un incidente. Nel corso degli accertamenti è stato scoperto che in realtà l'uomo era deceduto per le fratture multiple procurate dalla banda.
I finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, con il supporto operativo del gruppo aeronavale di Messina e la collaborazione del servizio centrale investigazione criminalità organizzata hanno sequestrato oltre 20 tonnellate di hashish, 400 mila litri di gasolio e la nave che li trasportava, 'Remus', battente bandiera panamense. La Gdf ha arrestato i componenti dell'equipaggio: 11 persone del Montenegro. L'operazione si è svolta col coordinamento e la direzione della Dda di Palermo. La nave, abbordata in acque internazionali, è stata scortata nel porto di Palermo per l'ispezione.
Dopo essere partita da Las Palmas in Gran Canaria, la nave aveva dichiarato di essere diretta verso Tuzla (Turchia), via Alessandria (Egitto). Seguita nel tragitto con aeromobili e pattugliatori della Gdf, durante la navigazione davanti alle coste nord africane la nave ha spento più volte il trasmettitore per nascondere la posizione.
La Gdf, dopo aver raccolto elementi che indicavano un possibile traffico internazionale di droga, ha richiesto - attraverso la Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell'Interno - l'autorizzazione all'abbordaggio, in acque internazionali, alle autorità panamensi.
Successivamente, la nave è stata scortata nel porto di Palermo per l'ispezione e, dopo lo svuotamento di due serbatoi di prua, contenenti 20 mila litri di gasolio, sono stati trovati oltre 650 sacchi di iuta con 20 tonnellate di hashish di 13 diverse qualità, per un valore tra i 150 e i 200 milioni di euro.
L'inchiesta della procura: i soldi sarebbero finiti in investimenti immobiliari e quote delle società. Uno degli indagati è il cognato di Matteo Renzi. Il legale: "Nessuna denuncia da parte dei donatori, chiariremo tutto". Oltre 6,6 milioni di dollari destinati ad attività di assistenza di bambini africani sarebbero transitati sui conti privati di Alessandro Conticini, fratello maggiore di uno dei cognati di Matteo Renzi, e utilizzati in gran parte per cospicui investimenti immobiliari e in misura minore (per circa 250 mila euro) per l'acquisto di quote di alcune società della famiglia Renzi o di persone ad essa vicine. Un'accusa gravissima che l'avvocato Federico Bagattini respinge risolutamente, facendo rilevare che nessuna delle organizzazioni che hanno donato contributi di beneficenza alla Play Therapy Africa Ltd, di cui Conticini – impegnato da anni nelle attività di aiuti umanitari - era socio e direttore, “ha fatto la benché minima denuncia nei suoi confronti”.
Quel che è emerso dalle indagini della Guardia di finanza e dalle rogatorie all'estero disposte dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto Giuseppina Mione è tuttavia piuttosto allarmante. Alessandro Conticini, 42 anni, e il fratello minore Luca, 37, che poteva operare sui conti della Play Therapy Africa e su quelli personali del fratello, sono sotto inchiesta per appropriazione indebita aggravata e autoriciclaggio. Il terzo fratello, Andrea, gemello di Luca e marito di Matilde Renzi, sorella dell'ex presidente del consiglio, è indagato per riciclaggio, per gli acquisti, a nome del fratello Alessandro, di quote di tre società: la Eventi 6 della famiglia Renzi, la Quality Press Italia e la Dot Media di Patrizio Donnini e di sua moglie Lilian Mammoliti, legati ai Renzi. Queste operazioni risalgono al 2011. Alla Eventi & sono arrivati 133 mila euro, alla Quality Press Italia 129 mila, alla Dot Media 4 mila.
Alessandro Conticini, che vive all'estero, è stato il rappresentante dell'Unicef ad Addis Abeba, poi si è avvicinato alla Associazione per la Play Therapy fondata a Londra nel 1982, con la quale ha costituito la Play Therapy Africa, e fra il 2008 e il 2016 ha raccolto circa 10 milioni di dollari di fondi destinati ai bambini africani. Il principale donatore è stata la Fondazione Pulitzer, che attraverso la organizzazione no profit Operation Usa ha versato alla Play Therapy Africa 5,5 milioni di dollari, seguita da Unicef (Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia) che ha donato 3,8 milioni di dollari e da altre organizzazioni umanitarie australiane, americane ed europee, che complessivamente hanno versato quasi 900 mila dollari.
L'inchiesta della procura di Firenze nasce da alcune segnalazioni bancarie. Sui conti correnti personali di Alessandro Conticini presso la Cassa di Risparmio di Rimini, agenzia di Castenaso (città di origine dei tre fratelli), sono transitati – secondo le accuse - quasi 6,6 milioni di dollari provenienti dalle donazioni, in parte utilizzati nel 2015 per la sottoscrizione di un prestito obbligazionario di 798 mila euro emesso da una società dell'isola di Guernsey, e in parte destinati fra il 2015 e il 2017 a un investimento immobiliare in Portogallo per un importo di 1 milione e 965 mila euro.
La procura ritiene che una parte del denaro sia inquadrabile quale compenso di Alessandro Conticini, di sua moglie e dei loro collaboratori, ma non nelle proporzioni rilevate nei passaggi dai conti della società in quelli personali di Conticini. Non 6,6 milioni su 10. L'avvocato Bagattini, che difende i tre fratelli con la collega Chiara Zecchi di Bologna, afferma che tutto è puntualmente spiegato in una memoria che verrà depositata alla conclusione delle indagini preliminari. E spiega che i tre fratelli, convocati per essere ascoltati il 14 giugno, non si sono presentati perché – dopo che si erano dichiarati disponibili a chiarire tutto e uno di loro era arrivato dall'estero – la procura aveva annullato gli interrogatori fissati nel dicembre scorso.
In ogni caso, la recente riforma che ha esteso la procedibilità a querela per molti reati, lo ha fatto anche per la appropriazione indebita aggravata. E finora – come sottolinea l'avvocato Bagattini – nessuno dei donatori ha presentato denuncia contro i Conticini. La procura ha provveduto in queste settimane ad avvisare della modifica legislativa Unicef, Fondazione Pulitzer, Operation Usa e le altre associazioni benefiche e a chiedere se intendano sporgere querela, senza di che il reato di appropriazione indebita diventerebbe improcedibile. http://firenze.repubblica.it/cronaca/2018/08/08/news/firenze_l_accusa_ai_fratelli_conticini_quei_6_6_milioni_di_dollari_mai_arrivati_ai_bambini_africani-203690676/
Nel registro degli indagati anche i responsabili della cooperativa Ecofficina.
PADOVA Il vice prefetto vicario di Padova, Pasquale Aversa, ed una ex funzionaria della stessa sede di governo, sarebbero indagati nell’ambito di un’inchiesta della Procura per una serie di irregolarità nella gestione delle strutture di accoglienza dei migranti nel Padovano. Con Aversa e con l’ex funzionaria della Prefettura sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati anche i responsabili della cooperativa Ecofficina (oggi Edeco), che gestisce, tra gli altri, i Cpt di Bagnoli e Cona. Le accuse vanno dalla turbata libertà degli incanti, la frode nelle forniture pubbliche, la truffa alla corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, all’induzione indebita, la rivelazione di segreto d’ufficio. Le indagini riguardano in particolare su due appalti per la gestione dell’accoglienza ai migranti del valore di circa 20 milioni di euro. https://corrieredelveneto.corriere.it/padova/cronaca/18_agosto_09/profughi-irregolarita-hub-indagato-vice-prefetto-padova-63702fd8-9ba8-11e8-8ab2-79782f76ba72.shtml?refresh_ce-cp
All'improvviso a decine spariscono. Finiscono nelle mani di persone che chiedono un riscatto alla famiglia o li vendono come schiavi. Onu e diplomatici faticano ad avere accesso ai campi di detenzione.
La tensione accumulata da mesi è esplosa domenica nel sovraffollato centro di detenzione libica di Sharie (o Tarek) al Matar, nei sobborghi di Tripoli, con scontri con le guardie e tre feriti. Le drammatiche testimonianze di alcuni detenuti raccolte da noi in diretta telefonica, le foto dei feriti, gli audio e il video su Facebook postato da Abrham, (ora anche sul nostro canale Youtube, linkato a questo articolo) giovane rifugiato eritreo di Bologna, domenica pomeriggio documentano l’esasperazione e la protesta dei prigionieri per le condizioni da tutti gli osservatori considerate inumane di prigionia e contro trasferimenti in altri centri per paura di essere venduti ai trafficanti di esseri umani.
Paura giustificata dalla sparizione di 20 detenuti nei giorni scorsi e di 65 donne con bambini che i libici giustificano come alleggerimento dell’affollatissima struttura e sulla quale sta compiendo verifiche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Per protesta i prigionieri eritrei, molti in carcere da mesi, parecchi intercettati e sbarcati dalla guardia costiera libica dopo la chiusura delle coste di questi mesi, hanno incendiato due materassi provocando la repressione durissima della polizia libica, la quale ha ferito tre richiedenti asilo, due dei quali hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Negli stanzoni roventi, lerci e stipati come pollai sono stati sparati lacrimogeni e le guardie hanno picchiato i detenuti con i fucili per riportare la calma.
«Sono stati momenti di battaglia tra eritrei e libici – spiega il nostro contatto Solomon, pseudonimo di un prigioniero fuggito dal regime dell’Asmara, nel campo da maggio scorso dopo aver trascorso i precedenti sei mesi nell’altro lager di Gharyan – loro ci ripetono che siamo troppi e che vogliono venderci. Siamo disperati, molti parlano di suicidio. Non vediamo vie di uscita. Non possiamo tornare in Eritrea e l’Europa non ci vuole». La tensione insomma potrebbe portare ad altre rivolte.
I libici sono accusati di rallentare il processo di registrazione dei detenuti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiudendo le porte per ragioni di sicurezza e spostando senza preavviso le persone non ancora iscritte nelle liste Onu dei richiedenti asilo per venderli ai trafficanti.
Ieri funzionari del Palazzo di Vetro sono riusciti a entrare di mattina presto a Tarek al Matar e a proseguire nella difficile registrazione di 200 eritrei. L’intento, spiegano fonti Acnur a Tripoli, è duplice: registrare tutti e offrire ai soggetti più vulnerabili - donne, minori, ammalati che non possono venire rimpatriati per timore di persecuzioni - una evacuazione umanitaria nel centro Onu in Niger per alleggerire il campo e favorire il reinsediamento in Paesi terzi. Ma i posti a disposizione non bastano per i 1.800 dannati di Tarek Al Matar, dove il precedente governo aveva avviato progetti per due milioni per l’emergenza ormai conclusi, come anche nei centri di Tarek Al Sika a Tagiura. Anche l’Onu ammette che le condizioni del campo sono peggiorate.
E il sovraffollamento deriva dal fatto che la Guardia costiera libica ha intercettato finora 13 mila persone. In tutto il 2017 ne aveva intercettati oltre 15mila.
Secondo una fonte libica, sempre ieri a una diplomatica dell’Unione europea sarebbe stato impedito l’accesso al centro di detenzione. La motivazione ufficiale è che non avrebbe presentato richiesta in tempo. Ma si sospetta che in realtà le autorità tripoline vogliano nascondere all’Ue i danni dell’incendio e le violenze sui detenuti.
Secondo dati dell’Acnur, al 31 luglio nel Paese erano stati registrati 54.416 richiedenti asilo e rifugiati, 9.838 solo nel 2018. Ma se le proporzioni sono quelle del campo di Tarek al Matar, solo un terzo è stato identificato, gli altri galleggiano tra violenze, condizioni igienico sanitarie inumane e il rischio di sequestri nel limbo dei centri di detenzione, sia ufficiali che quelli nelle mani delle milizie. Ieri con un tweet eloquente la sezione italiana dell’Oim, organizzazione internazionale delle migrazioni, ha puntualizzato che il suo personale è presente agli sbarchi nei porti libici, ma la gestione dei campi è in carico alle autorità locali.
Le tensioni a Tarek Al Matar sono esplose principalmente per il terrore di venire venduti ai trafficanti, i quali gestiscono sì le partenze sui barconi, ma solo dopo aver torturato i prigionieri per estorcere riscatti alle famiglie, oppure rivenderli come schiavi.
Dal campo abbiamo scritto sabato su Avvenire che erano sparite 20 persone, uno solo dei quali è riuscito a tornare. «Chiamiamolo Fish, mi ha contattato – racconta Abrham, rifugiato eritreo in Italia che raccoglie le grida di aiuto della sua generazione rinchiusa – perché è riuscito a tornare a Tarek al Matar. Sono stati trasferiti in uno stanzone in un luogo sconosciuto senza cibo e senza acqua. Hanno sentito due libici che dicevano che la notizia della loro sparizione era girata in rete e quindi la vendita doveva essere interrotta. Lo hanno riportato indietro, adesso aspetta i suoi compagni».
La circolazione delle notizie via social avrebbe salvato anche gli oltre 200 prigionieri "trasferiti" due settimane fa dal centro di Tarek Al Siqa senza preavviso in un luogo sconosciuto e pressoché privo di sorveglianza dove un trafficante eritreo che collabora con i libici spacciandosi per mediatore culturale li ha contattati invitandoli a seguirlo. Il gruppo, che teme di essere già stato venduto e dove ci sono persone non registrate nelle liste umanitarie, prosegue il braccio di ferro a colpi di messaggi via social urlando nel silenzio della rete il proprio diritto ad essere accolto.
Perché il paradosso, scorrendo le nazionalità censite dall’Onu in Libia, è che molti detenuti sono rifugiati e richiedenti asilo che dovrebbero trovarsi legalmente in Paesi sicuri a chiedere asilo oppure essere liberi di circolare in Libia. Come gli oltre 9mila sudanesi, e i 6mila eritrei e i 3mila somali e gli oltre mille etiopi cui persino Tripoli, che pure non ha firmato la Convenzione di Ginevra, riconosce lo status. Senza contare che un terzo ha meno di 18 anni e dovrebbe essere protetto dai civilissimi Stati europei. Ma nel caos libico si trovano ingabbiati sotto la sorveglianza di miliziani rivestiti con una divisa da poliziotto senza uno straccio di formazione e che considerano i prigioneri migranti illegali e merce da rivendere.