Prima di leggere questo articolo, andate a pagina 13 e leggetevi quelli di Gomez e Robecchi sulla bombastica analisi della Corte dei Conti sul mega-bidone degli F-35, i cacciabombardieri americani che nel 2009 il governo di centrodestra e la finta opposizione Pd deliberarono di acquistare in 131 esemplari (poi ridotti a 90) dalla Lockheed Martin per la modica cifra di 15 miliardi: più o meno il costo di un anno di reddito minimo per chi non ha nulla. Ora i giudici contabili hanno scoperto quello che noi poveri tapini e financo un bel pezzo del Parlamento già sapevano: il programma F-35 è in ritardo di almeno 5 anni per “molteplici problematiche tecniche”; i costi sono “praticamente raddoppiati”; i 6500 nuovi posti di lavoro annunciati sono appena 1600; ritirarsi ora vorrebbe dire perdere gli “ingenti investimenti” di 4 miliardi già stanziati, ma anche risparmiare i restanti 10. Robecchi si domanda: “Chi è stato?” (ma la S andrebbe maiuscola). Per i più curiosi, torniamo indietro all’estate del 2013. In Egitto l’esercito arresta il presidente democraticamente eletto Morsi e migliaia di Fratelli musulmani e insedia il generale-dittatore Al-Sisi: scalpore in tutto il mondo. Intanto in Italia i generali con l’appoggio del rieletto presidente Giorgio Napolitano mettono in mora il Parlamento: silenzio di tomba. Il 29 giugno Camera e Senato approvano una mozione Sel-5Stelle che impegna il governo Letta (Pd+Pdl+Centro) a sospendere per sei mesi, in attesa dei risultati di un’“indagine conoscitiva”, i nuovi acquisti di F-35. Per motivi sia economici sia tecnici. Quel progetto di cooperazione tecnologico-militare coinvolge 9 Paesi, di cui già 5 si sono sfilati in varie forme: Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Australia e Turchia. Secondo non i pacifisti, ma gli esperti del Pentagono, gli F-35 presentano vari difetti di fabbricazione: tipo che, se colpiti da un fulmine, rischiano di esplodere in volo.
Anche il Pd – pur fra mille maldipancia – vota con M5S e Sel per vincolare il governo “a non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito, ai sensi della legge 244/2012”. Ma la sola idea che il Parlamento torni a esistere e a dire qualcosa senza il permesso dei superiori fa saltare la mosca al naso di re Giorgio. I giornali lo descrivono “molto irritato” per la lesa maestà delle Camere nei confronti suoi e dei padroni americani. Così il 3 luglio Napolitano riunisce il Consiglio supremo di difesa, di cui s’erano perse le tracce dalla notte dei tempi. Poi dirama un supermonito categorico e impegnativo per tutti.
Eccolo: “La facoltà del Parlamento (riconosciuta dalla legge 244/2012, nda) non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Cioè: nel 2012 il Parlamento approva una legge, la 244, promulgata da Napolitano, per raccomandare tagli alle spese militari e stabilire che quelle “straordinarie” passino sempre dalle Camere, e pure quelle ordinarie che completino “programmi pluriennali finanziati nei precedenti esercizi con leggi speciali”; e per dare alle Camere l’ultima parola sulle spese militari alla luce del quadro internazionale e delle disponibilità finanziarie dello Stato, per evitare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Proprio il caso degli F-35. Ma Napolitano fa dire a quella legge il contrario di quel che dice, usandola per esautorare le Camere. Ce ne sarebbe abbastanza per un conflitto di attribuzioni fra Parlamento e Quirinale contro questo golpetto senza carri armati, ma con i generali. Ma i presidenti Boldrini e Grasso, solitamente così loquaci e suscettibili, dormono e non fanno un plissé.
Il ministro Franceschini ringrazia fantozzianamente il sovrano per il “giusto richiamo alla separazione dei poteri”. Solennissima sciocchezza: il Consiglio supremo di difesa non è un potere dello Stato, ma – come osserva Stefano Rodotà – “un organo di informazione e consulenza del presidente della Repubblica e indirettamente del governo”, dunque “non solo queste prerogative non si estendono al Parlamento, ma di certo non può essere il Consiglio a imporre veti alle Camere. Proprio non gli compete. Il Parlamento è stato ancora una volta esautorato”.
Intervistato dal Fatto, anche Gustavo Zagrebelsky stigmatizza l’entrata a gamba tesa del Colle: “Chissà chi sono i consulenti giuridici che hanno avallato le affermazioni del Consiglio supremo di difesa, che svuotano i compiti del Parlamento in materia di sicurezza e politica estera. Un regresso di due secoli, a quando tali questioni erano prerogativa régia… La natura del Consiglio supremo di difesa è stata definita nel 1988 da una relazione della Commissione presieduta da un grande giurista, Livio Paladin, istituita dal presidente Cossiga per fare chiarezza su un organo ambiguo (ministri, generali, presidente della Repubblica). Fu chiarito allora che si tratta di un organo di consulenza e informazione del presidente, senza poteri di direttiva.
D’altra parte, chi stabilisce se certi provvedimenti e decisioni sono solo tecnici e operativi, e non hanno carattere politico? I sistemi d’arma, l’uso di certi mezzi o di altri non sono questioni politiche? Chi decide? Il Parlamento, in un regime parlamentare. Forse che si sia entrati in un altro regime?”. Parole che cadono nel vuoto. Il Parlamento rincula, il governo preleva un’altra manciata di miliardi dalle nostre tasche per comprare dalla Lockheed altri bidoni volanti, e ora si scopre che era tutta una patacca. Casomai volesse recuperare qualche spicciolo, la Corte dei Conti può spedire il conto a casa Napolitano, Roma, via dei Serpenti.
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