lunedì 9 marzo 2020

Renzi chi è?


Coronavirus, Renzi: "Il peggio deve ancora arrivare""Mi permetto di suggerire al governo per il futuro di affiancare alla struttura valida che già sta lavorando, personalità che abbiano un'esperienza nella gestione delle crisi. Ci vuole Guido Bertolaso, una personalità che abbia una capacità di lavorare con governi di tutti i colori e che sia anche capace di mettere le mani nella comunicazione istituzionale durante la crisi, che è un tema fondamentale, lo abbiamo visto anche stanotte, e nella gestione dell'emergenza", aggiunge.

Qui l'articolo completo: 

Certi individui, colpevoli di aver distrutto l'economia di un paese, dovrebbero avere l'umiltà di chiedere scusa e ritirarsi in buon ordine avendo anche l'accortezza di restare in silenzio.
Ma, avidi come sono della smania di potere, non si arrendono all'evidenza che li vuole emarginati, e continuano a mettersi sgradevolmente in bella mostra proponendo, inoltre, consigli non richiesti.
Il tizio in questione, ad esempio, tenta di inserire negli organi istituzionali persone a lui fedeli per avere più possibilità di intervento nel governo. Come, del resto, ha già fatto in passato avvalendosi di personaggi poi assurti alle cronache per illeciti di vario tipo.
Ha una forte tendenza alla manipolazione, ed uno scarso rispetto degli altri, che usa a suo piacimento senza preoccuparsi dei danni che provoca con il suo atteggiamento.
Un pessimo individuo da tenere a distanza, come con il coronavirus, con la differenza che mentre dal virus è possibile guarire, dal renzismo no: chi lo prende resta distrutto per sempre.
C.

domenica 8 marzo 2020

L’umanesimo ai tempi del coronavirus. Rileggendo “La peste” di Camus. - Teresa Simeone



“I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina”.[1]
L’incipit di una delle più famose e inquietanti opere della letteratura mondiale di tutti i tempi ci immerge nell’ordinarietà di un luogo che è Orano ma potrebbe tranquillamente essere Codogno o Wuhan o Daegu.

Considerata una metafora di quella spaventosa epidemia che negli anni quaranta dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo, oggi richiama invece un’interpretazione fedelmente letteraria di ciò che descrive, in modo per noi assolutamente imprevedibile, considerando che quando fu scritta, benché già ammonisse sul possibile rinascere del pericolo, non lo ritenesse reale nel suo aspetto biologico-sanitario.
E invece lo stiamo vivendo, in modo drammatico e paradossale, a più di settanta anni dall’uscita del libro.
Nel 2020 l’epidemia, che assume sempre più i contorni di un’emergenza pandemica, ritorna a ricordarci quanto siamo esposti a nuovi e invasivi patogeni e come la loro diffusione sia ancora in grado di modificare radicalmente rapporti, relazioni, vita sociale e culturale, economia e diritti: chi avrebbe mai immaginato che non una singola, limitata città, ma un’intera nazione e poi un continente e infine il mondo globale diventasse un enorme, impensabile lazzaretto? È anche in questa capacità lungimirante e visionaria che si leggono opere come La peste di Albert Camus.

“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo.”[2] Inizia tutto da questo neutro, insignificante ma insolito rinvenimento. I topi diventano due, tre, poi dieci. Si trovano, sporchi di sangue, a centinaia in tutti gli stabili e le vie di Orano. La gente incomincia a essere inquieta ma poi, finalmente, la moria di topi si arresta. “La città – scrive Camus – respirò.”[3] Per poco. Iniziarono a sentirsi male gli esseri umani: il primo fu Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo. I sintomi inizialmente non furono associati a una malattia in particolare. In seguito altre persone accusarono gli stessi malori e Rieux incominciò, da medico esperto, a chiedersi cosa avessero in comune e a cosa potessero ricondursi. Man mano che i numeri dei malati aumentavano e i sintomi si ripetevano – stato di astenia, gangli ingrossati e in suppurazione, febbre – lo scenario si faceva più minaccioso. “La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia.”[4]

Da questo momento in poi è un crescendo inarrestabile di paure e conferme, fino a pronunciare la terribile, definitiva parola che richiama sciagure del passato ritenute superate: peste. Un demone temuto e respinto nell’oscurità di un periodo, quello trecentesco, che si era replicato certo, qualche secolo dopo, ma che poi era stato arginato e ricacciato indietro dalla scienza. Un flagello di fronte al quale, comunque, si è sempre impreparati, come dinanzi a una guerra, e che induce un misto d’inquietudine e speranza: “Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”[5]Eppure, ci si autoconsola: con le dovute misure, si fermerà. E invece i morti continuano a salire. Le autorità vengono informate ma, per evitare il panico, non si parla di peste. Alla fine non si può non avvisare la popolazione ma che resti tranquilla, invitano: le precauzioni, se applicate correttamente e da tutti, arresteranno il morbo. Nella fase iniziale, oltre la derattizzazione e l’invito alla pulizia, si chiede agli infestati dalle pulci di presentarsi negli ospedali e alle famiglie di autodenunciarsi; poi, con l’aumentare dei casi, le misure si fanno più spietate. “La denuncia obbligatoria e l’isolamento furono mantenuti; le case dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i congiunti sottoposti a una quarantena di sicurezza, i seppellimenti organizzati”[6]Il dispaccio del prefetto diventa definitivo: “Si dichiari lo stato di peste. La città è chiusa”[7].

E da questo momento Camus, con straordinaria percezione e un’esatta progressione dei fatti, ci accompagna nella psicologia dei protagonisti e degli altri attori che fanno da contesto umano a una situazione tragica in cui, accanto alla paura di esser contagiati, si staglia il terrore di essere ostracizzati dai sani come l’angoscia di essere separati dai propri affetti: madri e padri allontanati dai figli con la paura di non rivederli più, mogli e mariti divisi, fratelli e sorelle non più abitanti della stessa casa. La pietà, riflette Rieux, non è più possibile. Neanche per le grida disperate delle mamme nel vedere i bubboni all’inguine delle proprie figlie: “Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.”[8]

E in questo teatro di dolori e di orrori, risaltano le vite di coloro che vi sono rappresentati: figure che, di volta in volta, si mostrano e ci mostrano i mille volti che assumono la paura di non farcela, l’istinto di sopravvivenza, l’angoscia per il lutto degli affetti, la disperazione e la solitudine. E le reazioni diverse di fronte a quelle che, giustamente, Jaspers ha definito situazioni-limite, in cui ci si trova senza maschere e senza protezioni, davanti alla possibilità del “naufragio” e dello scacco. Situazioni estreme, per dirla alla Feyerabend, in cui, però, ciascuno scopre anche il proprio potenziale, nascosto nelle vicende della normalità di tutti i giorni.

Come potremmo reagire noi? ci chiediamo. Noi, in quanto collettività? E io, in quanto individuo?

Come il semplice Michel che muore innocente e inconsapevole, preoccupandosi solo del fatto che il rinvenimento del topo possa essere addebitabile alla sua negligenza?
Come il generoso Rieux, che si aggira tra morbi e pestilenze, dormendo tre ore a notte, senza chiedersi se sia opportuno esporsi in quel modo ma facendo ciò che è giusto in quel momento? Consapevole di poter morire, senza il sorriso della moglie, che si è dovuta allontanare da Orano prima dello scoppiare della calamità e che, infatti, non rivedrà più? Indulgente verso chi, come Rambert, cerca di fuggire da quell’inferno o con Cottard, che senza la peste sarebbe arrestato e che perciò si rifiuta di aiutare a debellarla?
Come i tanti oranesi che, certi che il morbo non li avrebbe toccati (e perché avrebbe dovuto? Perché proprio loro?), si disinteressano fino a quando non ne divengono vittime? Fino a che il cordone sanitario si stringe come i cancelli di una prigione, escludente ed emarginante? Fino a quando, sfiniti dall’isolamento e dall’angoscia, rompono gli obblighi di quarantena e fuggono dalla città? Fino a quando si rassegnano e accettano, infelici e spauriti, il proprio destino? Abituati al coprifuoco, al fetore della morte, ai seppellimenti fatti in fretta e furia, a non poter piangere più i propri cari, a intuire che finiranno nei forni crematori?
Come Castel, intento a cercare un siero che possa aiutare i malati? Non è facile, tutto induce allo scetticismo, ma bisogna lottare e non mettersi in ginocchio. Combattere la peste, a qualsiasi costo, con qualunque mezzo. Impedire che le persone muoiano: questo è ciò che dà senso alle giornate. E infine ci riesce, stanco e snervato, ma sereno.
O come Rambert, il giornalista capitato per lavoro a Orano e lì obbligato a rimanere per la pestilenza? Lotta in tutti i modi per impedire alla peste di soffocarne il desiderio di felicità, nello sforzo disperato di lasciare Orano e ricongiungersi alla sua compagna. Prova tutte le strade, legali e illegali, ma intanto offre il suo aiuto a Rieux, soccorre appestati, dall’alba alla notte. Finalmente riesce a organizzare la fuga: dovrà partire di lì a poche ore ma, quando arriva il momento, non è più così convinto. A Rieux che gli dice, generosamente, tra un’incisione di bubbone e un’altra, che non c’è niente di male a essere felice, Rambert risponde che è vero, ma che “ci può essere vergogna nell’esser felici da soli”.[9] E rimane a Orano.
Forse come Tarrou che, da forestiero, colto, ricco e viveur, continua a pernottare nell’albergo dove alloggia e a prendere appunti, a raccogliere testimonianze, a descrivere le occupazioni dei cittadini, a seguire l’evoluzione della peste e a registrare aneddoti su tutto ciò che vede, con lo stesso spirito curioso e ironico? La figura di Tarrou è una delle più belle del libro: pur potendo evitare coinvolgimenti, offre il proprio aiuto a Rieux e propone di organizzare un gruppo di volontari per assisterlo. Naturalmente ne farà parte anche lui. Al gruppo si aggiunge Grand, l’aspirante scrittore, “insignificante e sbiadito”, che Rieux considera, nella sua purezza di cuore, uno dei veri eroi di questa storia. Eroe per semplicità e autenticità di sentimenti, le uniche qualità che contino, nel delirio dell’irrazionalità e del terrore.

Intenso è il dialogo su Dio, sull’impegno del medico, sulle ragioni della disponibilità di Tarrou: Rieux gli chiede perché sia disposto a rischiare, proponendosi come volontario, e Tarrou gli risponde domandandogli, a sua volta, perché mostri tanta devozione se non crede. E il dottore confessa “che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui”.[10] Ciò che conta è guarire le persone e forse è meglio non credere in Dio e lottare “con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.[11] Un Dio, altro tema che ritorna, che si rende responsabile della morte di bambini innocenti, come il figlio di Othon.

Come padre Peneloux, che all’inizio interpreta la peste come un flagello divino per ricondurre i peccatori a Dio e che è interessato a riportare la collettività distratta alla Chiesa? Ma che poi non esita a unirsi al gruppo di volontari e a lavorare instancabilmente tra letti e sudore infetto. A capovolgere posizione perché la religione in tempo di peste non può, non può più essere la stessa. E ne morirà.
Stanchezza, indifferenza, sfinimento, incuria per se stessi: si sta in bilico, in tempo di peste. Anche con la propria coscienza. Col sospetto che chiunque ti possa contagiare. Amici, vicini e parenti. Con la considerazione, amara, che il cuore di tutti si sia indurito, che nessuno più ascolti i gemiti dei malati e che anzi si cammini nei lamenti come se “fossero stati il naturale linguaggio degli uomini.[12]
Ma è una storia che riguarda tutti, come dice Rambert. Un concetto, quello della responsabilità collettiva, che ricorre spesso nella produzione del filosofo francese.

Alla fine, anche la peste degrada, si attenua, perde virulenza. La quarantena è annullata. E la vita riprende a scorrere tra gli oranesi. Il paese è in festa, tutti ballano ma le solitudini restano. Coppie estatiche attestano “col trionfo e con l’ingiustizia della felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo”.[13]

Tutti vogliono pensare che la peste può venire e se ne può andare senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato: ma può essere così? Si può attraversare il male senza esserne toccato?


Anche l’epidemia di coronavirus passerà. Lascerà strascichi, com’è inevitabile. Lascerà vittime, com’è ingiusto che sia. Lascerà anche un senso profondo di amarezza su come si continui a reagire, con i medesimi meccanismi del passato, a eventi di cui già abbiamo vissuto gli esiti infausti. Dovrebbe lasciare anche qualche riflessione su ciò che significa “alterità” come dimensione costitutiva della nostra soggettività, su “ciò che è l’altro per noi” che, mai come adesso, è interrogarsi su “ciò che siamo noi per l’altro”. Dovrebbe aprire uno spiraglio non soltanto sulle responsabilità di chi è contagiato, come se fosse una colpa esserlo, ma sulla sua condizione psicologica e fisica; sul suo timore di poter infettare chi gli è vicino; sul suo vivere la malattia come un’onta quasi intenzionalmente cercata, magari solo per aver incidentalmente transitato in una zona poi rivelatasi pericolosa; sulla violazione della privacy, in nome della sicurezza nazionale, che lo marchia come “untore” e lo espone alla pubblica gogna. Ancora una volta Camus, con la sua sensibilità, ci aiuta a capire.

Rieux, il suo alter ego letterario, nel rivelare, alla fine del libro che è lui a scrivere, confessa di aver scelto di testimoniare. Lo ha fatto dalla parte delle vittime, vivendo la loro sofferenza, parlando per tutti. Dicendo, altresì, con gli esempi positivi che ha riportato, che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare. Un’altra prova della vicinanza alla terra di Camus. E del suo essere laico, illuminato, impenitente umanista.

“io mi sento - fa dire da Rieux a Torrou - più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”[14].

NOTE

[1] Albert Camus, La Peste, Bompiani, 2011, pag. 5

[2] Albert Camus, op. cit. pag. 8

[3] Albert Camus, op. cit. pag. 15

[4] Albert Camus, op. cit. pag. 29

[5] Albert Camus, op. cit. pag. 30

[6] Albert Camus, op. cit. pag. 50

[7] Ibidem

[8] Albert Camus, op. cit. pag. 70

[9] Albert Camus, op. cit. pag.161

[10] Albert Camus, op. cit. pag. 97

[11] Albert Camus, op. cit. pag. 99

[12] Albert Camus, op. cit. pag. 86

[13] Albert Camus, op. cit. pag.227
[14] Albert Camus, op. cit. pag.197

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l-umanesimo-ai-tempi-del-coronavirus-rileggendo-la-peste-di-camus/

Lotteria degli scontrini, via a luglio: il 7 agosto la prima estrazione. Ecco come avere il codice.

Lotteria degli scontrini, via a luglio: il 7 agosto la prima estrazione. Ecco come avere il codice

Parte da luglio. Per chi paga in contanti un’estrazione annuale da 1 milione e tre premi mensili da 30mila euro. Senza cash ci sono 10 premi da 100mila euro per i cittadini e da 10mila per i negozianti. Dal 2021 la lotteria classica vedrà sette premi settimanali da 5mila euro, mentre per la cashless sono previsti 15 premi da 25mila euro per i cittadini e altrettanti da 5mila euro per gli esercenti.

Si comincerà a partecipare dal primo luglio e il 7 agosto ci sarà la prima estrazione: è arrivata anche la data in cui si conoscerà il primo vincitore della lotteria degli scontrini, il concorso a premi collegato al nuovo “scontrino elettronico” che è in vigore dal primo gennaio. Dall’inizio di quest’anno infatti i negozianti si devono adeguare alla nuova normativa e da luglio scatteranno le sanzioni (multe da 100 a 500 euro) per chi non avrà i nuovi registratori di cassa collegati all’Agenzia delle Entrate. La lotteria degli scontrini, con l’obiettivo di limitare l’evasione fiscale, promette ai cittadini premi mensili tra 30mila e 100mila euro e un’estrazione annuale di 1 milione per gli acquisti fatti in contanti, che sale a 5 milioni per i pagamenti cashless. Come spiegato da una nota congiunta del ministero dell’Economia, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, Sogei e Agenzia delle Entrate, potranno partecipare tutti i cittadini maggiorenni e residenti in Italia con un acquisto a partire da 1 euro ed esibendo il loro codice lotteria.

Per ottenere il codice basterà inserire il proprio codice fiscale nell’area pubblica del “portale lotteria” disponibile dalle ore 12 del 9 marzo. Una volta generato, si legge sul sito dell’Agenzia delle Entrate, il codice potrà essere stampato su carta o salvato su dispositivo mobile (telefoni cellulari, smartphone, tablet, ecc.) e mostrato all’esercente. Per ogni scontrino elettronico trasmesso all’Agenzia delle Entrate il sistema lotteria genererà un determinato numero di biglietti virtuali. In fase di avvio saranno previste estrazioni mensili con 3 premi al mese pari a 30mila euro ciascuno e una estrazione annuale con un premio pari a 1 milione di euro. Nel caso invece di pagamenti con carte o bancomant, i premi mensili sono da 100mila euro per i cittadini e da 10mila per i negozianti, mentre il premio annuale è da 5 milioni per l’acquirente e da 1 milione per l’esercente.

La prima estrazione mensile sarà effettuata appunto venerdì 7 agosto, le successive estrazioni mensili avverranno ogni secondo giovedì del mese. A partire dal 2021, inoltre, verranno attivate anche estrazioni settimanali con 7 premi del valore di 5mila euro ciascuno. I premi della lotteria non saranno assoggettati ad alcuna tassazione. L’obiettivo del governo è far sì che la partecipazione al concorso, quindi l’aumento degli scontrini, contribuiasca alla riduzione del gap tra l’Iva potenziale e quella incassata dallo Stato.


sabato 7 marzo 2020

Come il corpo blocca i virus.



I vaccini «addestrano» le cellule a reagire. Quando un agente patogeno - virus o batterio - viene introdotto nel corpo, si moltiplica e attacca le cellule: si parla di infezione. Riconoscendo il microbo come corpo estraneo, il sistema immunitario implementa due strategie di difesa. Prima di tutto c'e' la risposta immunitaria innata I macrofagi sono cellule assassine che inghiottono gli intrusi per distruggerli, i fagociti catturano ed eliminano le tossine. Questa reazione rapida e localizzata puo' arrestare o rallentare l'infezione, ma non sempre basta. Qui entrano in gioco i linfociti, cellule difensive che identificano l'invasore grazie alla sua molecola caratteristica, l'antigene. Ogni linfocita e' programmato per attaccare un particolare virus o batterio. Appena identifica l'antigene, si moltiplica I linfociti B hanno la capacita' di produrre un gran numero di anticorpi. Circolando nel corpo, gli anticorpi si attaccano agli antigeni e li neutralizzano, permettendo ai macrofagi di eliminarli. I linfociti T identificano e distruggono le cellule infette. Il problema e' la reazione immunitaria e' lenta, impiega diversi giorni, dando ai germi il tempo di scatenare una malattia. Fortunatamente, il corpo ricorda i nemici. Dopo un'infezione, gli anticorpi e i linfociti ne custodiscono la memoria e reagiscono se ricompare lo stesso patogeno In questo caso la reazione immunitaria e' molto piu' rapida ed evita che si sviluppi la malattia. I vaccini funzionano sfruttando la memoria del sistema immunitario. La vaccinazione simula un'infezione, allenando il sistema immunitario e facendogli sviluppare le armi di difesa. In pratica si introduce nel corpo un germe morto o inattivo o solo un suo frammento. Il vaccino innesca quindi una reazione immunitaria senza causare la malattia. L'organismo produce linfociti che memorizzano l'invasore e gli anticorpi, in preparazione per qualsiasi attacco futuro. Il potere di anticorpi e linfociti tende a diminuire nel tempo, il che significa che a volte e' necessario ripetere le vaccinazioni. ( Ansa - CorriereTv ).

https://www.youtube.com/watch?v=DcdNBuKTtQc

Blazar da record sotto gli occhi di Lbt.

Risultato immagini per Pso J030947+27 è il blazar

Pso J030947+27 è il blazar a oggi più distante mai osservato. La sua luce che riceviamo ora è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero circa il 7 per cento della sua età attuale, stimata in 13,8 miliardi di anni. La scoperta è stata coordinata da Silvia Belladitta, ricercatrice Inaf a Milano.
Rappresentazione artistica di un blazar (dall’inglese: blazing quasi-stellar object) è una sorgente altamente energetica, variabile e molto compatta associata a un buco nero supermassiccio che si trova al centro di una galassia ospitante. Crediti: M. Weiss/CfA
La sua sigla, piuttosto difficile da ricordare, è Pso J030947.49+271757.31, ma il record che detiene è decisamente chiaro: è infatti il blazar a oggi più distante mai osservato. La sua “luce” che osserviamo oggi è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero circa il 7 per cento della sua età attuale, stimata in 13,8 miliardi di anni. A scoprire Pso J0309+27 – questa la sua sigla abbreviata – è stato un team di ricercatrici e ricercatori guidato da Silvia Belladitta, dottoranda dell’Università dell’Insubria che sta svolgendo il suo lavoro di tesi presso l’Istituto nazionale di astrofisica a Milano, sotto la supervisione di Alberto Moretti e Alessandro Caccianiga. La scoperta, ottenuta grazie alle osservazioni con il Large Binocular Telescope (Lbt), confermate poi anche da alcuni dati del telescopio spaziale Swift, solleva il velo su questi mostri cosmici già attivi all’alba dell’universo e apre la strada per un accurato censimento dei nuclei galattici attivi in quell’epoca così remota, finora inaccessibile.
I cosiddetti radio-loud Agn, ovvero nuclei galattici attivi (Agn) di tipo radio, sono potentissime sorgenti di segnali radio alimentate da buchi neri supermassicci al centro delle galassie, che espellono poderosi getti di materia a velocità prossime a quella della luce. In particolare Pso J0309+27 è un Agn di tipo radio che ha tutte le caratteristiche per appartenere alla sotto-classe dei blazar, cioè quei radio-loud Agn il cui getto è fortuitamente allineato sulla nostra linea di vista.
Inizialmente individuato sulla base della sua emissione radio e ottica, questo oggetto è stato quindi osservato con Lbt, di cui l’Italia con l’Inaf è partner, usando lo spettrografo Mods, in modo da poterne confermare la natura di Agn lontano. «Lo spettro che è apparso davanti ai nostri occhi ha confermato come prima cosa che PSO J0309+27 è effettivamente un Agn, ovvero una galassia il cui nucleo centrale è estremamente luminoso per la presenza, nel suo centro, di un buco nero supermassiccio che si sta alimentando fagocitando il gas e le stelle che lo circondano», dice Belladitta, prima firmataria dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics. «Inoltre, i dati ottenuti a Lbt hanno anche confermato che Pso J0309+27 si trova a un’enorme distanza da noi quantificata da uno spostamento verso il rosso che in gergo tecnico chiamiamo redshift, pari al valore record di 6.1, mai misurato prima per un oggetto simile. A questa distanza stiamo osservando l’universo com’era circa 900 milioni di anni dopo il Big-Bang, meno di un decimo della sua età attuale, che è di 13,8 miliardi di anni».
Silvia Belladitta
Pso J0309+27 è quindi risultato essere, al momento, la sorgente radio persistente più potente nell’Universo primordiale, ovvero entro il primo miliardo di anni dalla sua formazione. Osservazioni condotte con il telescopio Xrt a bordo del satellite Swift – missione a cui l’Inaf ha dato un contributo fondamentale insieme all’Agenzia spaziale italiana – hanno inoltre permesso di stabilire che, anche nei raggi X, Pso J0309+27 è la sorgente più luminosa mai osservata a queste distanze.
Queste proprietà “estreme” hanno permesso ai ricercatori di stabilire che Pso J0309+27 è un blazar, ovvero un Agn con un potente getto di materiale relativistico che punta verso la Terra. Grazie a questo particolare allineamento, l’emissione risulta fortemente amplificata e può quindi  essere osservata fino a grandi distanze. E qui emerge uno dei punti chiave della ricerca:   «Osservare un blazar è estremamente importante», sottolinea Belladitta, «in quanto per ogni sorgente scoperta di questo tipo sappiamo che ne devono esistere un centinaio simili, ma orientati diversamente, e quindi troppo deboli per essere visti direttamente». La scoperta di Pso J0309+27 permette quindi di quantificare per la prima volta il numero di nuclei galattici attivi con potenti getti relativistici presenti nell’universo primordiale.
«Da nuove osservazioni con Lbt, ancora in corso di elaborazione, stimiamo inoltre che il motore centrale che alimenta Pso J0309+27 sia un buco nero con una massa pari a circa un miliardo di volte quella del Sole. Grazie alla nostra scoperta, siamo quindi in grado di affermare che già nel primo miliardo di anni di vita dell’universo esisteva un grande numero di buchi neri molto massicci e in grado di produrre potenti getti relativistici. Questo risultato pone dei vincoli molto stringenti ai modelli teorici che cercano di spiegare l’origine di questi enormi buchi neri presenti nell’universo», conclude Belladitta.
https://www.media.inaf.it/2020/03/06/blazar-da-record/?fbclid=IwAR16p_5bFdPXS2Bb2Idha9Z6XFAdOA3hPGq8xklO2yaOnk_kZMWaBB6j5dY

Superquark ai tempi del Big Bang. - Valentina Guglielmo









              Due scienziati dell’Università di York hanno identificato una nuova particella – scoperta nel 2011 e chiamata d-star hexaquark – che potrebbe aver dato origine alla materia oscura nelle prime fasi della vita dell’universo dopo il Big Bang. Un‘ipotesi – spiega a Media Inaf Mikhail Bashkanov, primo autore dello studio pubblicato su Journal of Physics – in grado di rendere conto anche dell’asimmetria materia-antimateria.
Rappresentazione artistica di un esaquark di tipo dibarione. Ci sono due quark costituenti per ciascuna delle tre cariche di colore. Crediti: Linfoxman/Wikimedia Commons
Se l’indagine sulla componente oscura del nostro universo fosse un giallo, si potrebbe dire che il colpevole abbia lasciato numerose e inequivocabili tracce di sé, senza però far trapelare il minimo indizio circa la sua identità. Quale particella si nasconda dietro (o dentro) la ormai pluriprovata esistenza della materia oscura rimane infatti a oggi un mistero.
La materia oscura, così chiamata per la sua caratteristica di non assorbire né emettere radiazione elettromagnetica e interagire con la materia luminosa solo tramite l’interazione gravitazionale, è presente nell’universo in proporzione cinque volte superiore rispetto alla materia barionica ordinaria, quella di cui sono composte tutte le cose che osserviamo e di cui abbiamo esperienza. Lo dicono innumerevoli osservazioni di sorgenti e fenomeni astrofisici, dalla curva di rotazione delle galassie a spirale al lensing gravitazionale. Eppure, nonostante decenni di tentativi, nessuno è ancora riuscito a incastrarla.
Uno studio pubblicato a metà febbraio su Journal of Physics G, condotto da due fisici dell’Università di York (Regno Unito), Mikhail Bashkanov e Daniel Watts, propone un nuovo indiziato alla soluzione del caso: il nome è d-star hexaquark, ed è una particella che costituirebbe la materia oscura trovandosi confinata in uno stato chiamato condensato di Bose-Einstein.
Agli occhi degli addetti ai lavori, è un nome – soprattutto nella sua forma completa: d*(2380) hexaquark – che fa immediatamente intuire la struttura e le proprietà della particella. Si tratta di una particella della classe dei deuteroni (da cui la lettera ‘d’), composta cioè dalla somma di un protone e un neutrone, ciascuno dei quali a sua volta è composto di tre particelle elementari dette ‘quark’ (da cui ‘hexaquark’: 6 quark). Il numero ‘2380’ si riferisce alla massa, espressa in MeV (megaelettronvolt). E la stella ‘*’ indica che essa si trova in uno stato eccitato, ovvero a un livello di massa-energia più elevato.
Mikhail Bashkanov, del Dipartimento di fisica della University of York, primo autore dell’articolo “A new possibility for light-quark dark matter”. Crediti: M. Bashkanov
«Questo stato eccitato», spiega a Media Inaf il primo autore dell’articolo, Mikhail Bashkanov, «rende tali particelle estremamente instabili: il loro tipico tempo di vita nel vuoto infatti è di soli 10-24 secondi, il che significa che se esse vengono prodotte nel vuoto decadono immediatamente. Ma se si crea uno stato della materia che le contenga, come un condensato di Bose-Einstein, l’energia di legame compensa il beneficio energetico che queste particelle avrebbero nel decadere, e si crea un equilibrio stabile».
La possibilità di creare questo stato della materia estremamente favorevole è insita nella natura di queste particelle: i deuteroni infatti rientrano nella categoria dei bosoni, particelle con spin unitario non soggette al principio di esclusione di Pauli, che quindi non si respingono reciprocamente a piccole distanze, e possono anzi collassare insieme. «Possiamo immaginare questo condensato come un frammento di stella di neutroni, in cui la carica dei quark è compensata dagli elettroni. Avremo quindi piccoli agglomerati di materia di dimensione inferiore a un atomo, con carica neutra – che dunque non interagiscono elettromagneticamente – e una dimensione sufficientemente grande da produrre un segnale di tipo gravitazionale». In altre parole, il ritratto del candidato ideale a particella di materia oscura. Un candidato di cui già si hanno tracce sperimentali: la particella d-star hexaquark è stata scoperta nel 2011 da un team di scienziati all’acceleratore di particelle di Juelich, in Germania, facendo collidere fasci di protoni con neutroni, ed è stata in seguito completamente caratterizzata attraverso tutti i suoi possibili canali di decadimento.
«La forza di questa ipotesi», sottolinea Bashkanov, «sta nel fatto che non servono nuove teorie fisiche per spiegare come sia avvenuta la formazione della materia oscura, né come mai essa sia predominante rispetto alla materia barionica. Inoltre, questa teoria risolve naturalmente il problema della asimmetria fra materia ed antimateria».
«Si può infatti immaginare l’universo negli istanti successivi al Big Bang», prosegue Bashkanov, «come una zuppa di quark e anti-quark (la loro anti-particella) i quali, man mano che la temperatura del cosmo diminuiva per effetto della sua stessa espansione, formavano protoni, neutroni e anche il condensato di d-star hexaquark. Dal momento che quest’ultimo stato della materia è energeticamente favorevole, la maggior parte dei quark e antiquark tenderà a esso, e molti meno verranno invece impiegati nella generazione della materia normale. Ecco perché abbiamo cinque volte più materia oscura che materia barionica. Inoltre, materia e antimateria si comportano gravitazionalmente in modo analogo, pertanto se tutta l’antimateria creata condensa in (anti-) materia oscura, non abbiamo più il problema di dover spiegare come mai non la vediamo, l’antimateria».
La domanda a questo punto sorge spontanea: si può scovare, nell’immenso e multiforme laboratorio dell’universo, la presenza di questo condensato di d-star hexaquark? Forse sì. Sembra che i raggi cosmici di elevatissima energia siano in grado di rompere tale condensato, e generare un inequivocabile fascio di fotoni di uguale energia provenienti da una regione spaziale estremamente circoscritta in un intervallo temporale ristretto. La rarità di questo evento e l’energia di interazione necessaria per rompere l’energia di legame del condensato sono ancora sconosciute, e sono oggetto di uno studio sinergico fra laboratorio, teoria e osservazioni astrofisiche.
«La determinazione dell’energia di interazione dei d-star hexaquark fra loro e con la materia barionica consentiranno di stimare le dimensioni fisiche del condensato di Bose-Einstein, il numero di particelle che lo compongono e la temperatura alla quale questo si è formato – ovvero quanti secondi dopo il Big Bang», conclude Bashkanov. «Stiamo attualmente analizzando i dati sulle interazioni presi in laboratorio, con un esperimento condotto all’acceleratore Mami di Magonza – dove i d-star hexaquark sono creati facendo collidere fasci di fotoni su target di deuteroni, per misurarne la forma e la dimensione – e contiamo di avere una risposta entro i prossimi due anni e mezzo».

Taglia-incolla Dna usato per la prima volta nel corpo umano.

La Crispr-Cas applicata per la prima volta in vivo nelle cellule della retina (fonte: P. Motta/Università Sapienza di Roma/SPL) © Ansa
La Crispr-Cas applicata per la prima volta in vivo nelle cellule della retina (fonte: P. Motta/Università Sapienza di Roma/SPL)

Per correggere le cellule malate nell'occhio e non in provetta.

La tecnica che taglia e incolla il Dna, la Crispr-Cas, è stata applicata per la prima volta all'interno del corpo umano, per modificare (in vivo e non in provetta) le cellule di una persona colpita da una rara forma di cecità ereditaria incurabile. Il trattamento verrà a breve testato su altri 17 pazienti nell'ambito della sperimentazione 'Brilliance', condotta all'Università dell'Oregon in collaborazione con l'azienda farmaceutica Allergan e la compagnia biotech Editas Medicine.
La terapia sperimentale consiste nell'iniettare nell'occhio un innocuo virus 'fattorino', che nel suo genoma trasporta tutto il necessario per produrre in loco le forbici molecolari ultra-precise della Crispr. L'obiettivo è farle entrare in azione nelle cellule della retina sensibili alla luce (fotorecettori), per correggere la mutazione del gene CEP290 che provoca una rara forma di distrofia chiamata amaurosi congenita di Leber (Acl).
Finora la terapia genica tradizionale prevedeva l'inserimento nella cellula malata di una copia corretta del gene, procedura impossibile nell'amaurosi congenita di Leber perché il gene CEP290 è troppo grande per poter essere veicolato da un vettore virale. In passato un'altra tecnica di editing (quella della nucleasi a dita di zinco) era stata applicata direttamente nel corpo umano, per inserire una copia corretta del gene malato in un paziente colpito da una malattia metabolica (la sindrome di Hunter), ma l'intervento non aveva determinato alcun miglioramento dei sintomi.
L'idea di provare la Crispr nel corpo del paziente, e non sulle sue cellule coltivate in provetta per essere poi reinfuse, rappresenta un notevole cambio di passo nel campo dell'editing genetico. Come spiega sul sito di Nature l'esperto Fyodor Urnov, dell'Università della California a Barkeley, è come paragonare “un volo spaziale a un normale volo in aereo: le sfide tecniche, e i rischi per la sicurezza, sono molto più grandi".