sabato 20 giugno 2020

Panna smontata. - Marco Travaglio

SCRIBACCHINO – www.agerecontra.it
(scribacchini)
Anni fa non so più quale pubblicità degli assorbenti mostrava il prodotto bello gonfio prima della cura e poi pressato a sottiletta dopo la cura. Lo stesso trattamento “tara” andrebbe praticato all’informazione politica, che produce ogni giorno enormi quantità di panna montata destinate regolarmente a finire nel nulla. L’altra sera, a Otto e mezzo, mentre un’ex allieva di Pio Pompa giocava a Risiko con l’ennesima scissione dei 5 Stelle, seguita dalla crisi di governo e dall’ingresso di B. nella maggioranza (col M5S!), quel vecchio volpone di Paolo Mieli liquidava il tutto come “il solito chiacchiericcio che fanno i giornali per divertirsi”. Cioè dava per scontato che i giornali debbano inventarsi storie inverosimili per ammazzare il tempo e la noia. E in effetti questo è il passatempo preferito di molte testate, il che spiega la reputazione sottozero della categoria. Basta collezionare un giornale a caso per un mese e verificare che cosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure di presunte “notizie” sparate con grande rilievo 30 giorni prima: nulla. Per non parlare dei “retroscena”: gustosi anche quand’erano inventati ai tempi della grande politica, ma non ora che è già abbastanza triste e pallosa la scena, figurarsi il retro. L’informazione a somma zero si è vieppiù aggravata da quando Conte, per la gestione della pandemia, si è consolidato come il politico più popolare d’Italia. E il Giornale Unico dell’Ammucchiata, scambiando i desiderata dell’Editore Unico per la realtà, ha deciso che deve sloggiare. Dunque ha preso ad annunciare ogni giorno la caduta del governo. Poi, siccome una balla tira l’altra, ha iniziato a inventare, nell’ordine: i registi della crisi (Renzi, Mattarella, Zingaretti, Franceschini, Di Maio, Di Battista); i nomi del nuovo premier (Draghi, Colao, Cottarelli, Bertolaso, Gualtieri, Franceschini, giù giù fino a Guerini e prossimamente a un girino); e le destinazioni del deposto Giuseppi (sindaco di Roma, senatore a Sassari, presidente della Repubblica, ministro degli Esteri, giudice costituzionale, leader del centrosinistra, capo del M5S, anzi del suo nuovo partito “Cont-te”, forse presentatore del prossimo Saremo). Uno spasso.
Da mesi leggiamo tutto e il contrario di tutto, con la garanzia che nulla mai si avvererà. Conte dittatore con pieni poteri che fa tutto da solo ed esautora il Parlamento a suon di decreti e Dpcm. Anzi no, Conte re travicello, immobilista democristiano e indeciso a tutto, che non sa che pesci pigliare e si affida a centinaia di esperti e decine di task force per rinviare sempre. Anzi no, Conte nomina Colao a capo della task force soltanto perché gliel’hanno imposto Mattarella e il Pd.
Ma poi si diverte a fargli la guerra. Anzi no, Conte è schiavo di Colao. Anzi no, Conte scarica Colao. Conte appiattito sul Pd e scaricato dal M5S. Anzi no, Conte è appiattito sul M5S e scaricato dal Pd. Conte non si fa aiutare da nessuno e non ascolta i veri esperti. Anzi no, Conte si fa aiutare dai veri esperti negli Stati generali, ma è un’inutile passerella che non si farà mai perché il Pd non vuole e Di Maio è geloso. Anzi, forse si fa, ma a settembre. Anzi, si fa subito e non sembra poi tanto inutile, tant’è che lo copia pure Sánchez. Conte finge di dialogare con le opposizioni, ma non vuole neppure vederle. Allora le invita a Villa Pamphilj, ma quelle non ci vanno perché “lo attendiamo in Parlamento”. Allora Conte va in Parlamento, ma Lega e FdI escono dall’aula per non incontrarlo (ora citofonerà a Salvini, poi proverà con un mojito alle ciliegie). E vedrete che Conte cade sulla prescrizione, invece non cade. Conte cade sul Russiagate e il rapporto Barr, anzi non cade. Conte cade sulla sfiducia a Bonafede per il caso Di Matteo-Giletti, anzi non cade. Conte cade sul concorso degli insegnanti, anzi non cade. Conte cade sulla sanatoria dei migranti, anzi non cade. Conte chiede all’Ue gli Eurobond e il Recovery Fund, ma non li avrà mai e cadrà: invece li ottiene e non cade. Ma ora vedrete che cade sul Mes e, se non è il Mes, saranno i decreti Sicurezza.
E, se non saranno i decreti Sicurezza, sarà la scissione dei 5Stelle perché la base grillina è stufa del governo (l’ha detto Paragone: infatti il M5S sale nei sondaggi). E, se non sarà la scissione dei 5Stelle, saranno le sommosse, le rivolte e i forconi d’autunno (precisamente a settembre: l’han detto gli autorevoli Folli, Casini e Dagospia). Ma intanto è sicuro: passata la paura del Covid, Conte crolla nei sondaggi perché non ne azzecca più una. Anzi no, ieri il sondaggio di Diamanti su Repubblica lo dà al 65% di gradimento, un punto sopra aprile in piena Fase1. Però le Fasi 2 e 3 sono un disastro: non andremo in vacanza, la scuola non riapre più, le elezioni regionali non si fanno più, la maturità non si farà per via del plexiglass (anzi, una s sola), gli studenti sono abbandonati a se stessi dalla grillina Azzolina (notoriamente incapace: l’ha detto Sala il capace), le mascherine non si trovano, l’idea di quella pippa di Arcuri di metterle a 50 centesimi è folle, la app Immuni non parte per colpa della grillina Pisano (incapace pure lei: l’ha detto la zia di uno che conosco), insomma l’apocalisse è vicina. Poi la maturità si fa, le vacanze e le elezioni regionali pure, la scuola riapre a metà settembre, le mascherine a 50 cent arrivano, la app Immuni c’è, insomma l’apocalisse è rinviata causa bel tempo. Altre cazzate?

Dl Elezioni, Senato rivota fiducia dopo l’errore. Nessuno vuole la colpa e in presidenza finisce tutti contro tutti. Casellati: “Mia responsabilità, ma c’era Taverna”. Lei: “Svilente fare nomi”. Poi la difesa.

Dl Elezioni, Senato rivota fiducia dopo l’errore. Nessuno vuole la colpa e in presidenza finisce tutti contro tutti. Casellati: “Mia responsabilità, ma c’era Taverna”. Lei: “Svilente fare nomi”. Poi la difesa

Dopo l'annullamento del voto di fiducia per un errore tecnico (il precedente risale al 1989), tensione a Palazzo Madama per la caccia ai responsabili. Intanto il provvedimento che istituisce l'election day per recuperare le consultazioni elettorali rinviate per il covid ha ottenuto nuovamente la fiducia.

Tutti contro tutti in Senato pur di non essere additati come responsabili del pasticcio sul decreto Elezioni. Questa mattina l’Aula è stata costretta a rivotare il provvedimento che istituisce l’election day per recuperare le consultazioni rinviate causa covid: il via libera era arrivato già ieri, salvo poi scoprire, in tarda serata, che per un errore tecnico nel conteggio dei congedi mancava il numero legale in Aula. Tutto da rifare, corsa contro il tempo per evitare che il decreto scada (il termine ultimo per la conversione è oggi) e figuraccia per una situazione che l’ultima volta si era verificata nel 1989. Ma se il voto stamattina avrebbe potuto risolversi con una veloce ripetizione mantenendo un profilo istituzionale e riconoscendo l’incidente, l’Aula di Palazzo Madama si è trasformata in un regolamento di conti tra i membri dell’ufficio di presidenza. A scatenare le reazioni sono state le frasi iniziali della presidente Elisabetta Alberti Casellati: “Mi assumo la responsabilità, ma c’era la senatrice Taverna”. Non ha fatto in tempo a finire la frase che la grillina ha preso la parola dai banchi: “Fare i nomi svilisce le istituzioni”. E a sua volta ha accusato Ignazio La Russa, che lei in primo luogo aveva sostituito alla presidenza. Ecco allora entrare in gioco La Russa e il forzista Maurizio Gasparri che hanno chiesto a gran voce le dimissioni della stessa Taverna. Caos generale, fino al nuovo intervento di Casellati che ha cercato di riportare la situazione nei ranghi: “C’è stato un errore che non può essere imputabile certamente a chi lo ha rappresentato”, ha detto. Intanto sul fronte M5s è partita la difesa della collega, tanto da far scomodare il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “In questo momento, la politica tutta deve abbassare i toni dello scontro e mostrarsi responsabile”, ha detto.

Il voto di fiducia ripetuto due volte – È passato per forza di cose in secondo piano il contenuto del decreto Senato che però ha al centro una tematica fondamentale: il recupero delle consultazioni elettorali rinviate a causa della pandemia. Questa mattina l’Aula ha rinnovato la fiducia: se ieri i 149 sì non erano bastati, oggi i sì sono stati 158. Zero i contrari e zero gli astenuti perché i senatori del centrodestra in blocco, come già accaduto ieri, non hanno partecipato al voto per tattica parlamentare, proprio per far venire allo scoperto eventuali défaillance della maggioranza. Ieri, il primo nel pomeriggio a cercare di mettere in difficoltà l’esecutivo era stato il leghista Roberto Calderoli che, proprio vedendo lo scarso numero di senatori in Aula, aveva provato a fare un blitz per rinviare la discussione: sgambetto fallito per soli tre voti di scarto dopo il voto elettronico.

Le accuse incrociate e le scuse in Aula – Se oggi il voto è stato quasi niente di più che una formalità, a tenere banco è stato il regolamento di conti sul a chi bisognerebbe imputare l’errore. La presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha aperto i lavori dicendo di “dolersi” per l’accaduto. “Sono abituata a prendermi le responsabilità. Sono profondamente amareggiata per quanto accaduto, non c’ero io, c’era la presidente Taverna“. Una dichiarazione che è stata interrotta dalle proteste della senatrice M5s che ha, a sua volta, accusato Ignazio La Russa e i colleghi del centrodestra: “L’Ufficio di presidenza è impersonale, fare nomi e cognomi svilisce solo l’istituzione”, ha detto in Aula. “Io ieri presiedevo la seduta in sostituzione del senatore vice presidente La Russa che mi aveva chiesto il cambio sapendo cosa sarebbe successo, ossia la volontà di far mancare il numero legale da parte delle opposizioni, e quindi di minare l’Istituzione stessa. Voglio denunciare il comportamento vergognoso del senatore Gasparri che ieri in televisione andava a raccontare che la presidenza del Senato, nella figura della vice presidente, aveva mistificato il risultato dell’aula. Io ero alla presidenza per far rispettare quest’aula e sostituivo un collega proprio per difendere l’onore del Senato”.
Un intervento che ha spinto il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri a chiedere le dimissioni della stessa Taverna. Infine, è intervenuta la Casellati per cercare di far rientrare lo scontro: “La senatrice ha proclamato un risultato che è venuto fuori dal conteggio, se poi il conteggio si è rivelato sbagliato nulla noi possiamo attribuire alla senatrice Taverna. Nessun tipo di responsabilità l’ho detto tre volte questa mattina, c’è stato purtroppo, e mi dispiace, un errore ma che chiaramente non può essere imputabile alla senatrice Taverna. Come sempre succede ci arriva un foglio con i risultati di un conteggio che non possiamo fare noi, che fanno gli uffici e che vengono riscontrati al computer. C’è stato un errore che non può essere imputabile certamente a chi lo ha rappresentato. Nessuno ha messo in dubbio la sua onorabilità”, ha detto ancora riferendosi alla Taverna, “ho fatto un riferimento preciso ad un errore non imputabile a nessuno, ma esclusivamente ad un sistema informatico”.
Una giustificazione sulla quale è intervenuto anche il senatore M5s Primo Di Nicola: “È sbagliato e ingeneroso”, ha scritto in una nota, “scaricare la responsabilità della situazione di caos che abbiamo vissuto ieri nell’aula del senato sugli uffici. Le dinamiche e la gestione dell’aula sono un problema politico-istituzionale. Anche le strutture interne sono state vittime di disfunzioni di cui non sembrano essere responsabili. L’istituzione Senato va salvaguardata in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli. Anche rispettando le persone che vi lavorano”.

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone

Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”

C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.

Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.
Lo scontro tra il Colle e la procura – Da settimane Palazzo San Macuto sta portando avanti un’indagine sulle scarcerazioni di boss mafiosi avvenute durante l’emergenza coronavirus. Ma anche sulla mancata nomina a capo del Dap di Di Matteo da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede nel giugno del 2018. È di questo che ha riferito l’ex pm siciliano: cinque ore di audizione in cui più volte è spuntato sullo sfondo il nome di Palamara, la toga simbolo dello scandalo che imbarazza la magistratura. Ma, a sorpresa, il nome dell’ex presidente dell’Anm è venuto fuori anche quando Di Matteo ha riferito alcuni episodi inediti legati all’inchiesta più delicata della sua carriera: quella sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Un processo importante, finito nel 2018 con pesanti condanne, ma cominciato tra la fibrillazione dei più alti livelli dello Stato. Intercettando l’ex ministro Nicola Mancino, infatti, i pm palermitani si imbatterono per quattro volte nella voce dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Intercettazioni che gli inquirenti non reputarono rilevanti ai fini penali ed è per questo che non le trascrissero e non le depositarono mai agli atti dell’inchiesta, chiusa nel giugno del 2012. Il Colle, però, non gradì. E nel mese di luglio dello stesso anno sollevò un conflitto d’attribuzioni: trascinò cioè la procura di Palermo davanti alla Consulta. Alcuni mesi dopo l’Alta corte diede ragione al capo dello Stato, ordinando la distruzione di quei nastri. Prima, però – stando a quanto ricostruito da Di Matteo – tentò la strada della riconciliazione, in modo abbastanza irrituale.
Il racconto di Di Matteo: “Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – “Se non ricordo male – ha raccontato l’attuale consigliere del Csm all’Antimafia – a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“. Praticamente, come l’ha definita lo stesso magistrato con una battuta, il Quirinale tentò di fare “una trattativa sulla trattativa“. “Io – ha proseguito Di Matteo – pensavo che Antonio scherzasse, sia io sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento – ha continuato l’ex pm – io non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla Trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo“. Ma chi fu a comunicare a Ingroia delle “richieste di contatto” del Quirinale? “Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito, anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me”. Ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato, qualche settimana fa Ingroia ha accennato quella strana proposta durante un’intervista televisiva sul caso nomine nella magistratura: “Palamara – sono le sue parole su La7- era stato indicato dal presidente Napolitano come possibile ambasciatore per cercare di concludere la contrapposizione tra procura di Palermo e Quirinale“.
L’avversione di Palamara per chi indaga sulle stragi – Il periodo al quale fa riferimento Ingroia è da collocarsi alla fine dell’estate del 2012: Palamara stava per terminare il suo mandato da presidente dell’Anm. Nei quattro anni al vertice del sindacato delle toghe non difenderà mai i magistrati di Palermo, finiti sotto attacco proprio mentre indagano sul Patto segreto tra Cosa nostra e pezzi delle Istituzioni. “Quelle – ha ricordato Di Matteo – furono critiche anche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche, critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano“. Anni dopo Palamara non perderà la sua avversione per le indagini sui legami occulti dello Stato. È il 6 maggio del 2019 quando il pm oggi sotto inchiesta a Perugia scrive un messaggio su whatsapp all’amico Cesare Sirignano, ex pm della procura nazionale Antimafia e suo collega in Unicost, la corrente moderata delle toghe di cui Palamara era il leader assoluto: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno? Ti dico che non è grande mossa”. Sirignano replica: “Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Palamara risponde: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Il gruppo stragi è il pool di magistrati creato alla Dna per coordinare il lavoro della varie procure sulle bombe del 1992 e 1993.
La rimozione dal pool Stragi e la soddisfazione di Palamara – Fino al 26 maggio del 2019 di quel gruppo di pm faceva parte pure Di Matteo: poi Federico Cafiero De Raho (il Federico citato da Sirignano) ha deciso di escluderlo, dopo un’intervista concessa dal pm ad Andrea Purgatori. Secondo il procuratore nazionale antimafia in quell’intervista Di Matteo svela alcuni elementi in quel momento segreti perché ancora al centro dell’indagine sulla strage di Capaci: “Su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi”, ha sostenuto De Raho domenica scorsa, telefonando in diretta alla trasmissione tv di La7 Non è l’Arena. “L’intervista era stata resa prima della riunione, e nella riunione non si era parlato di questo. E poi se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni penso sarebbe stato d’obbligo denunciarmi all’autorità giudiziaria“, ha detto Di Matteo a Palazzo San Macuto. In seguito alla rimozione dal pool stragi, filone d’inchiesta al quale ha dedicato l’intera carriera in magistratura, Di Matteo ha lasciato la procura nazionale antimafia, dopo aver ottenuto l’elezione al Csm da consigliere indipendente. Per chiarire come è andata davvero quella storia c’è una pratica ancora aperta – e top secret – al Csm. Di sicuro c’è solo che il giorno in cui il quotidiano Repubblica scrive prima di tutti della rimozione del pm siciliano, Sirignano informa in diretta Palamara, girandogli il link dell’articolo. Il leader di Unicost risponde: “Grande Federico”. Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno laconico: “Noi siamo seri”. Ma noi chi?
La corrente di Palamara in via Arenula – Faceva parte della stessa corrente di Palamara e Sirignano anche Fulvio Baldi, ex capo di gabinetto di Bonafede, che si è dovuto dimettere dopo che ilfattoquotidiano.it ha svelato le intercettazioni telefoniche in cui il leader di Unicost lo chiamava affettuosamente “Fulvietto“. Non solo: Palamara all’amico Baldi chiedeva anche un aiuto per piazzare altri magistrati amici al ministero della giustizia. In via Arenula Baldi era stato nominato da Bonafede il 20 giugno del 2018, cioè lo stesso giorno in cui il guardasigilli, cercando di convincere di Di Matteo a dare la sua disponibilità per essere nominato direttore generale degli Affari Penali, dice :”Dottore Di Matteo, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase – ha detto l’ex pm siciliano all’Antimafia – assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e né ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“. Il 12 maggio scorso il guardasigilli ha detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
I renziani alla corte di Palamara – Di sicuro quei giorni del giugno del 2018 per Bonafede sono molto convulsi: è arrivato al ministero da due settimane quando – è lunedì 18 giugno – telefona a Di Matteo e gli propone di scegliere tra due incarichi, o il vertice del Dap o gli Affari Penali. Il giorno successivo, prima di ricevere la risposta del magistrato siciliano, sceglie come vertice delle carceri Francesco Basentini, pure lui di Unicost come Baldi e Palamara, pure lui un ex visto che si è dimesso nei primi giorni di maggio dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss. A lavorare col guardasigilli – come vicecapo di gabinetto – c’è anche Leonardo Pucci, già compagno di studi a Firenze di Bonafede, assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce, oltre a Basentini, anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Spina partecipava agli incontri notturni in cui si discuteva del futuro procuratore di Roma. Incontri ai quali – oltre ad alcuni consiglieri del Csm – partecipavano anche due deputati: il magistrato “prestato” alla politica Cosimo Ferri e l’ex sottosegretario Luca Lotti, che della procura di Roma era – ed è – un imputato dell’inchiesta Consip. Entrambi sono renziani di vecchissima data: con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, Lotti è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio, Ferri invece sottosegretario alla giustizia. Il primo è ancora oggi nel Pd, il secondo, invece, ha seguito Renzi in Italia viva.
Il “pensiero affettuoso” di Renzi per Napolitano – Sarà un caso ma è proprio Matteo Renzi la prima persona che lega il nome di Giorgio Napolitano allo scontro tra Bonafede e Di Matteo. Lo fa, in modo apparentemente inspiegabiledurante il suo intervento in Senato nel giorno della bocciatura della mozione di sfiducia al ministro della giustizia: “Visto che in tanti avete citato Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l’augurio di buon lavoro, permettetemi – per aver vissuto una certa pagina di questo Paese – di esprimere un pensiero affettuoso al presidente emerito Giorgio Napolitano. Lui sa perché, voi sapete perché”. Già, perché? Il giorno dopo il leghista Gianluca Cantalamessa lo ha chiesto al guardasigilli. Che ha risposto: “Escludo qualsiasi tipo di pressione, immaginiamo quella dell’ex presidente Napolitano“. Il presidente dell’Antimafia Morra, ora, lo ha chiesto a Di Matteo: “Non posso sapere – ha risposto – perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l’opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me”.

venerdì 19 giugno 2020

Manca il numero legale, si rivota la fiducia al dl elezioni.

L'Aula di Palazzo Madama (foto archivio) © ANSA

Errore tecnico nel computo dei congedi, torna in Aula alle 9.30.


Il voto di fiducia al Senato sul dl elezioni è stato annullato a causa della mancanza del numero legale dei presenti in Aula. Lo si apprende dai gruppi parlamentari di maggioranza e opposizione che hanno già allertato i loro senatori. Erano presenti in Aula 149 parlamentari, ma l'asticella del numero legale sembra essere quella di 150 presenze. E su questo la presidenza di Palazzo Madama ha fatto le verifiche riscontrando un errore nel computo dei congedi . Un errore definito tecnico che comporterà una nuova votazione alle 9.30. Un precedente simile risale ad una seduta del 1989.


Succede anche questo: paghiamo profumatamente, a peso d'oro, assenteisti cronici.

Mattarella: “Distorsioni gravi nel Csm, ora credibilità”. - A. Masc.

Mattarella: “Distorsioni gravi nel Csm, ora credibilità”

La questione morale in magistratura al centro della cerimonia al Quirinale in ricordo dei magistrati uccisi Giacumbi, Minervini, Galli, Amato, Costa e Livatino. 

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilanciato una dura reprimenda per il caso Palamara e lo scandalo delle nomine del Csm: “Quel che è apparso ulteriormente fornisce la percezione della vastità del fenomeno denunziato” l’anno scorso “e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione” dentro al Csm. Quindi, ha proseguito, vanno messe in discussione le correnti: “Questo è il momento di dimostrare con coraggio di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti”. 
Poi, rivolgendosi “ai giovani magistrati”, parla della “fedeltà alla Costituzione, l’unica alla quale sentirsi vincolati”. Ma il presidente sottolinea che “la stragrande maggioranza dei magistrati è estranea alla ‘modestia etica’ di cui è stato scritto” e che è stata la magistratura a far emergere quei comportamenti “in amaro contrasto” con “l’alto livello” di chi è stato ucciso. Allora, “non si può ignorare il rischio che alcuni attacchi alla magistratura” servano a chi vuole porre “in discussione l’irrinunciabile indipendenza”. 

Mattarella, infine, ribadisce un concetto scritto in una nota del 29 maggio in risposta a Salvini che chiedeva lo scioglimento del Csm: “Serve il rispetto rigoroso della Costituzione. Si odono talvolta esortazioni rivolte al presidente della Repubblica perché assuma questa o quell’altra iniziativa”. Così “si incoraggia una lettura delle funzioni del presidente difforme da quanto previsto con chiarezza dalla Costituzione”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/19/mattarella-distorsioni-gravi-nel-csm-ora-credibilita/5840241/

Tre anni di noie per aver fatto il suo lavoro: Woodcock non ha commesso alcun illecito. - Antonella Mascali

Tre anni di noie per aver fatto il suo lavoro: Woodcock non ha commesso alcun illecito

Tre anni e mezzo sulla graticola. Sullo sfondo, le accuse a mezzo stampa di condurre indagini politiche contro Matteo Renzi, “colpendo” il babbo Tiziano e petali del Giglio magico come Luca Lotti, vedi Consip, l’inchiesta finita da Napoli a Roma. 
Ma per Henry John Woodcock, difeso da Marcello Maddalena, ieri è arrivata l’assoluzione dalla sezione disciplinare del Csm, chiesta anche dall’accusa, dal neo avvocato generale della Cassazione, Luigi Salvato. 
Il pm ha così riavuto il suo “onore” invocato nelle dichiarazioni spontanee. 

Il filone trattato ieri è quello di un’intervista, mai autorizzata, a Repubblica nei giorni roventi del caso Consip. Ieri, il collegio Csm composto da Stefano Cavanna, presidente, Paola Braggion, relatrice, Sebastiano Ardita, Loredana Micciché e Ciccio Zaccaro ha assolto Woodcock per “essere risultato il fatto di scarsa rilevanza”, cioè non è stato commesso alcun illecito. Si è trattato di un riesame dopo il rinvio delle sezioni unite della Cassazione, il 27 novembre scorso, che avevano annullato la severa condanna alla censura, il 4 marzo per mancato dovere di riserbo e comportamento “gravemente scorretto” verso l’ex procuratore reggente di Napoli, Nunzio Fragliasso: non gli aveva detto di aver parlato con Liana Milella di Repubblica che, tradendo la fiducia del pm, suo vecchio amico, come lei stessa ha testimoniato, pubblicò un articolo sul caso Consip malgrado avesse dato la sua parola al pm che non avrebbe scritto. 
Sempre il 4 marzo, Woodcock e la collega Celeste Carrano furono assolti, invece, dall’accusa più grave, la violazione dei diritti di difesa nei confronti dell’ex consigliere di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, interrogato a dicembre 2016 come teste, quindi senza un avvocato. 

“La lealtà, la correttezza, la sincerità – ha detto Woodcock ai giudici – è una caratteristica e una qualità che mi riconosco. È un debito che riconosco a chi questi valori mi ha impartito, i miei genitori”. Poiché era stato accusato di scorrettezza verso Fragliasso, ricorda che l’ex reggente, “collega e amico”, quando la Procura di Roma, tra giugno e luglio 2017, lo ha indagato e poi archiviato, “mi confermò la fiducia” e non gli tolse le indagini. Ma Woodcook non serba rancore neppure verso i pm romani: “Lavoriamo gomito a gomito”. Quando fu avviato il procedimento disciplinare e fu aperta pure una pratica per possibile trasferimento dalla Prima commissione presieduta da Luca Palamara, un unico consigliere chiese l’apertura di una pratica a tutela di Woodcock e Carrano, sotto attacco politico: Piergiorgio Morosini. Invece, l’allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini andava persino in tv a parlar male dei pm partenopei senza alcun imbarazzo per il suo ruolo anche di presidente della disciplinare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/19/tre-anni-di-noie-per-aver-fatto-il-suo-lavoro-woodcock-non-ha-commesso-alcun-illecito/5840239/

Gli Incompiuti. - Marco Travaglio

Confindustria: cinque nomi in pole per la presidenza - Giornale di ...
L’altro giorno, dopo le ultime performance del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, un amico mi ha girato il video (disponibile sul web) di una conferenza di Mino Martinazzoli, che descriveva la nostra classe imprenditorial-manageriale con un apologo: quello del capo-azienda che regala al suo direttore del personale, un nerd efficientista bocconiano con master a Londra, un biglietto per il concerto dell’Incompiuta di Schubert. L’indomani il giovanotto gli consegna una relazione della serata in 5 punti 
“1. Durante considerevoli periodi di tempo i 4 oboe non fanno nulla. Si dovrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro tra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi d’impiego. 
2. I 12 violini suonano le medesime note. Quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto. 
3. Non serve a nulla che gli ottoni ripetano suoni già eseguiti dagli archi. 
4. Se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di almeno un quarto. 
5. Se Schubert avesse tenuto conto di queste mie osservazioni, avrebbe terminato la sinfonia…”. 
Conclusione di Martinazzoli: “Io vorrei vivere in un mondo nel quale si possa continuare a sentire l’Incompiuta di Schubert così com’è”.
Ora, chi legge il Fatto e Millennium sa bene che Bonomi sta alla vera impresa come il sottoscritto all’astrofisica: questo ragioniere di Crema con un corso di economia a San Diego, in 51 anni di vita è riuscito a investire in attività produttive la miseria di 31mila euro. Ma è interessante che gl’imprenditori veri si facciano rappresentare da lui. Peggio per loro, si dirà. Sì, se non fosse che il rag. Bonomi, specializzato nell’italica arte del prendi i soldi e piangi, se la tira come un Pirelli o un Del Vecchio, insegna ciò che si dovrebbe fare, scuote il capino implume perché Conte aiuta anche chi ha bisogno, e auspica la caduta del governo per metterne su uno di larghe imprese, manco fosse Tejero. Ieri Salvatore Cannavò ha ricordato le precedenti lezioni dei numeri 1 confindustriali e la loro miseranda fine. Avevano tutte, come quelle di Bonomi, la consistenza di un oroscopo di Branko e l’attendibilità di una profezia del divino Otelma, tant’è che si pensò di ribattezzare Viale dell’Astronomia in Viale dell’Astrologia. La Marcegaglia, che se la rideva quando B. la chiamava “velina”, annunciò il Regno di Saturno se si fossero tagliate le pensioni. Monti & Fornero provvidero, coi risultati a tutti noti. Poi Squinzi ripartì con la tarantella: sgravi fiscali, soldi a pioggia, licenziamenti più facili e mai una sillaba sull’evasione, in cambio di mirabolanti “investimenti”. Che, certificò l’Ue nel 2018, erano addirittura diminuiti.
Sempre e comunque “nettamente sotto la media europea”. Invece i licenziamenti facili e i soldi pubblici arrivarono, grazie al Jobs Act e altre boiate dell’Innominabile, spalmato su Confindustria come la Nutella sul pane e ricambiato da Boccia con un tifo da stadio al Sì nel referendum del 2016. L’Ufficio studi di Confindustria pareva la direzione strategica delle Br, per il livello di terrorismo contro chi avesse osato votare No: giù il Pil del 4%, crollo degli investimenti del 20%, meno 600 mila posti di lavoro (non uno di più né di meno); mancava solo l’invasione delle cavallette. Poi vinse il No e tutti i parametri migliorarono. Boccia riprese a profetare sventure col nuovo governo giallo-verde in caso di blocco del Tav Torino-Lione: inventò “rivolte del Nord”, sbandierò un fantomatico “partito del Pil”, vaneggiò di “40mila nuovi posti di lavoro” (quando persino le carte dei Sì Tav non vanno oltre i 400), mandò avanti improbabili madamine fra gli applausi dei giornaloni e ovviamente di Salvini. Ora persino la Corte dei Conti dell’Ue ha certificato che quell’opera è inutile, costosa, inquinante ed eterna (non sarà pronta neppure nel 2030, cioè non si farà mai).
Quando il povero Boccia aveva consumato anche l’ultimo centimetro quadrato di lingua e di faccia, è arrivato Bonomi. Che s’è subito distinto come la parodia di Cetto La Qualunque (“questa politica fa più danni del Covid”), poi ha tuonato contro gli aiuti ai ceti più deboli (lui li chiama “sussidi a pioggia”, a meno che non vadano ai ricchi), infine ha annunciato che il grande piano per la ricostruzione dell’Italia l’avrebbe scritto con le sue manine e donato al governo. L’altroieri, accolto con rulli di tamburi, trombette e tromboni come il salvatore della Patria agli Stati generali, ha cagato la perla: “Rivogliamo i soldi delle accise sull’energia”. Ammazza che ideona. Il SuperPiano di SuperBonomi ha avuto grande audience su tutti i giornaloni, tranne uno: il suo, cioè il Sole 24 Ore, purtroppo in sciopero per il taglio degli stipendi del 25% e l’annuncio della cassa integrazione con la scusa del Covid (in realtà per una lunga malagestione: 340 milioni di perdite in dieci anni, taroccando pure le copie vendute e gli abbonamenti). Il che ci ha ricordato, ove mai non fossero bastate le performance dei nostri prenditor&magnager su Telecom, Parmalat, Cirio, Merloni-Indesit, case di moda, Sai-Ligresti, Ilva, Mps e altre banche decotte, che ne sarebbe dell’Italia se fosse gestita come Confindustria gestisce la roba sua. Eppure queste Cassandre con le tasche degli altri continuano a predicare la “cultura della crescita”, come se ne sapessero qualcosa. E, quel che è più comico, nessuno li ha ancora presi a pesci in faccia.