Pugno duro - Gli sfoghi in Aula, la moria dei portavoce e la scorta ovunque: “l’operazione simpatia” non è ancora esattamente riuscita.
I bookmakers non la quotano ancora, ma lei ci crede. Maria Elisabetta Alberti Casellati intende giocarsela eccome per il soglio quirinalizio e ha fede: Dio, Patria e soprattutto Famiglia, la sua. E chi se ne importa se accusano i suoi gioielli, Ludovica e Alvise, di essersi fatti aiutare nella vita da mammà, prima donna presidente del Senato? Lei si duole per le critiche ma più che altro non si spiega perché non sia ancora un’icona nazionalpopolare, almeno come la Carrà. Per non sbagliare se la piglia con i portavoce che rottama uno via l’altro anche se, poveretti, loro responsabilità per la cattiva stampa proprio non ne hanno. Se non è amata è piuttosto colpa dei voli di Stato che ha usato come taxi durante l’emergenza Covid per far da spola con Padova, sua città natia. O per la storiaccia del vitalizio che le era stato prima negato per gli anni trascorsi al Csm, salvo vederselo, guarda un po’, assegnare quando invece era ascesa allo scranno più alto a Palazzo Madama. Ma non rinuncia a diventare dama di cuori, anche se finora nisba. La sua apparizione al bar dei dipendenti del Senato qualche mese dopo l’elezione, doveva esser gesto di vicinanza alle maestranze: fu la prima e l’ultima, ché non le sono andate giù le critiche per essersi presentata coi bodyguard al seguito, neppure temesse un attentato a Palazzo.
Non le è servito neppure farsi paladina della causa femminile: “Le donne devono essere protagoniste della rinascita dopo esserlo stato della resistenza alla pandemia” ripete da qualche tempo. Epperò le sue parole non tirano l’applauso, neppure tra le colleghe senatrici che mantengono le distanze: alcune mancano persino visita alle cene periodiche che ha organizzato per fare spogliatoio a Palazzo Giustiniani. Perché? Non si fidano e in molte ancora le rinfacciano la difesa del Cav all’epoca di Ruby-nipote-di-Mubarak.
Il fatto è che risultano indigesti i modi da carabiniera che l’hanno consacrata nell’empireo forzista e che replica pure oggi dai banchi della Presidenza. “Non accetto lezioni da nessuno sulla conduzione dell’Aula”, “decido io”, “non accetto strumentalizzazioni” grida spesso brandendo la campanella d’ordinanza ché le intemperanze – e anche meno – la irritano a morte. Ma è un sentimento ricambiato: certe sue acrobazie sulla gestione del calendario dei lavori come per il ddl Zan hanno fatto venire l’orticaria a chi l’accusa di essere rimasta di parte. Come al tempo in cui, partigiana di Silvio, ci dava sotto con le leggi ad personam o picchettava l’ingresso di Palazzo di giustizia a Milano ritenuto il covo dei magistrati ostili a B.
Che resta la sua stella polare e un solido alleato per il futuro. Appena insediata alla guida del Senato il primo pensiero è stato proprio per lui che ne era stato “esiliato” nel 2013, causa condanna per frode fiscale. Lei invece lo ha invitato a cena a Palazzo accogliendolo come un re: “Questa, caro Silvio, resta casa tua”. Magari poter replicare l’invito anche una volta eletta al Colle se, come pare, Berlusconi non troverà nessuno o quasi a perorarne la causa. Matteo Salvini l’ha mollato dopo averlo illuso, Giorgia Meloni non lo può proprio vedere e invece potrebbe digerire lei: Queen Elisabeth presidente della Repubblica potrebbe allettare il centrodestra, ma anche Matteo Renzi che, si sa, ama sparigliare. Casellati lo stima e soprattutto lo ritiene capace di qualunque mandrakata: adoperandosi per lei conquisterebbe il ruolo di primo Queenmaker della storia. Ma soprattutto si farebbe guida di quella rete dei moderati che Denis Verdini, amico di Renzi e suocero di Salvini, aveva tentato di sublimare già nel 2016 con quel partito della Nazione poi mai nato.
Spera, dunque, Casellati nei buoni uffici del leader di Italia Viva, ma anche nel feeling che quest’ultimo ha con l’altro Matteo. Con il quale lei stessa coltiva eccellenti rapporti: è merito suo se l’affaire Metropol del tandem Salvini-Savoini non è mai sbarcato in aula per il dibattito richiesto a gran voce dal Pd nel 2019 e stroncato sul nascere da Sua Presidenza: “Il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici”. Ancor di più è stato gradito il suo interventismo sul citato ddl Zan, prima con l’invito al rinvio (“non si dica che in questa Aula rinunciamo al dialogo per la differenza di una settimana”), poi con una riconvocazione rocambolesca della conferenza dei capigruppo quando era già all’ordine del giorno dell’aula: fatto sta che il disegno di legge alla fine è sparito dai radar. Con tante grazie dalla Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia ostili alle norme sull’omotransfobia. Ma pure da Renzi che sulla necessità di mediare con il centrodestra ha mandato in testa coda il segretario del Pd Enrico Letta.
Ovviamente Casellati s’è fatta anche molti nemici. In tante occasioni dai banchi M5S, Pd e LeU si sono levate proteste all’indirizzo di Sua Presidenza e delle sue decisioni inappellabili. Come quando ha stralciato emendamenti tabù per il centrodestra, tipo la regolamentazione della cannabis light o il trattenimento in servizio oltre l’età di pensione dei magistrati: giammai! Lei rivendica di essere super partes e tira dritto: il physique du rôle per il Colle crede di averlo con annessi carabinieri a due e a quattro ruote che le fanno strada ogni volta che esce da Palazzo. Per ora del Senato, domani chissà.
ILFQ