martedì 19 luglio 2011

Se Silvio fosse Murdoch.


Ve lo immaginate Silvio Berlusconi al posto di Rupert Murdoch?


Il magnate australiano della News Corporation si è sottoposto a ore di domande senza sconti da parte della Commissione Cultura, media e sport della Camera dei Comuni, insieme al figlio James. I parlamentari britannici lo hanno incalzato sul caso delle intercettazioni illegali organizzate dalla sua testata News of the World, poi chiusa per lo scandalo. E SkyTg24, televisione italiana di proprietà dello stesso Murdoch, ha trasmesso tutto in diretta, con traduzione simultanea, senza filtri.

Pensate ora alla stessa scena in versione italiana. Silvio Berlusconi siede davanti a una commissione d’inchiesta del Parlamento. Sulle domande da rivolgergli non c’è che l’imbarazzo della scelta. Chi furono i suoi primi finanziatori nascosti dietro alcune società fiduciarie? Che cosa faceva esattamente nella sua residenza di Arcore il mafioso Vittorio Mangano? E – per ricalcare esattamente una domanda rivolta a Murdoch a proposito dei suoi giornalisti coinvolti anni fa nello stesso scandalo – chi ha pagato la difesa legale dei manager della Fininvest poi condannati definitivamente per corruzione alla Guardia di Finanza? Come mai ha ritenuto di dover portare in Parlamento ben due di loro, Salvatore Sciascia e Massimo Maria Berruti?

Al Murdoch italiano, l’ipotetica commissione potrebbe chiedere tante altre cose. Davvero dormiva la notte in cui fu recapitata presso la sua abitazione di Arcore l’intercettazione di Piero Fassino sulla scalata Unipol, ottenuta illegalmente? Come mai arrivò sulla sua scrivania il video compromettente che riguardava il governatore del Lazio Piero Marrazzo? Come spiega che i suoi avversari, politici e non, siano oggetto di campagne diffamatorie da parte delle testate che possiede, per esempio il giudice Raimodo Mesiano o il giornalista Dino Boffo? Non ha mai utilizzato nella lotta politica il materiale di “gossip” fornitole da Alfonso Signorini, direttore della rivista Chi, da lei posseduta?

Il tutto trasmesso in diretta tv su Canale 5, o Italia Uno, o Retequattro. E coperto con distaccata professionalità dal Giornale di Sallusti. Ve lo immaginate? Continuate a immaginarlo.

Silvio Berlusconi davanti alle commissioni parlamentari neppure si presenta. Per esempio al Copasir, l’importante organismo che controlla i servizi segreti, negli ultimi tre anni non hanno mai avuto il piacere di vederlo. Né si ricordano dirette o speciali di Mediaset sui qualcuno dei suoi tanti processi, che suscitano grande curiosità in tutto il mondo. Tranne Cologno Monzese.

Rupert Murdoch è arrivato a Westminster accompagnato dalle indiscrezioni, rilanciate questa mattina dal Wall Street Journal, quotidiano di punta di News Corp, di sue dimissioni annunciate durante l'audizione in parlamento (leggi). L’80enne barone dei media ha preparato un breve testo che spera di leggere prima delle domande dei parlamentari. La giornata è stata aperta dagli interrogatori dell'ex capo di Scotland Yard, sir Paul Stephenson, che ha smentito attacchi al premier per i suoi rapporti con Andy Coulson l'ex direttore del News of the World

TROVATO MORTO IL GIORNALISTA DEL NEWS OF THE WORLD
LA TEMPESTA PUNTA SU CAMERON
"LO SQUALO" SOTTO ACCUSA ANCHE IN AMERICA
BLOG CITATI: MURDOCH SULLA GRATICOLA (E IN DIRETTA SULLA SUA TV)

Mafia e politica, Fini rompe il tabù del terzo grado di giudizio. - di Mario Portanova.


Nell'anniversario della morte di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta, il presidente della Camera richiama i partiti: "Scelgano i candidati con criteri etici e politici, senza aspettare le sentenze". E si riattizzano le polemiche sulla trattativa tra boss e uomini dello Stato

Memoria sì, ma con polemiche. Oggi l’Italia ricorda Paolo Borsellino e gli uomini della scorta, massacrati il 19 luglio di 19 anni fa in via D’Amelio. Le commemorazioni, però, infiammano il dibattito politico.

Nel suo intervento al Palazzo di giustizia di Palermo, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha esortato i partiti “a fare pulizia al proprio interno, eliminando ogni ambigua zona di contiguità con la criminalità e il malaffare”. Per prima cosa, ha continuanto, i partiti devono “evitare di candidare persone sospette di vicinanza con la mafia e a maggior ragione non elevarli a posti di responsabilità”. Poi ha rotto il tabù che da sempre protegge i politici e gli amministratori coinvolti in inchieste per mafia: “Non è necessario aspettare sentenze definitive per prendere le decisioni che servono. Basta applicare principi di responsabilità politica e di etica pubblica”.

Fu proprio Borsellino, parlando agli studenti di una scuola di Bassano del Grappa nel 1989, a porre il problema con estrema chiarezza: “Ci si è nascosti dietr0 lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto”. Invece in tribunale può essere assolto anche un politico colluso, perché magari le prove non sono sufficienti, argomentava il magistrato. “Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”.


Di “collusione e indifferenza rispetto al fenomeno mafioso” ha parlato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo messaggio ad Agnese Borsellino, la vedova del giudice.

Niente candidature né incarichi a persone anche solo “sospette”, dice Fini, e la mente corre al caso diSaverio Romano, da poco nominato ministro dell’Agricoltura, sui cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Forse per questo c’è da registrare un’immediata – e piccata – reazione di Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, partito fondato daMarcello Dell’Utri, che per concorso esterno è condannato addirittura in appello, a sette anni di reclusione.“Proprio il luminoso esempio diFalcone e Borsellino insegna che la lotta alla mafia si può fare anche (e soprattutto) essendo favorevoli a una profonda riforma della giustizia”, afferma Capezzone, “senza mai cadere in una logica di accettazione generalizzata e passiva di tutto ciò che i pentiti dicono (ma discernendo bene), e senza mai prestare il fianco a logiche di giustizialismo o, peggio ancora, di cultura del sospetto”. Alle parole di Fini, Capezzone contrappone “i fatti” prodotti dal governo Berlusconi in tema di lotta alla criminalità organizzata.

L’anniversario di via D’Amelio riaccende anche lo scontro sulle stragi del 92-93, sui depistaggi di Stato e sulla trattativa con la mafia che sarebbe corsa in parallelo con gli ultmi giorni di vita del magistrato siciliano. “Il depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio non si è realizzato soltanto facendo sparire documenti, ma anche grazie anche a falsi pentiti costruiti in laboratorio”, ha detto a un dibattito il procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato. Falsi pentiti che “non si sono presentati da soli, ma sono stati introdotti grazie a esponenti di forze di polizia sui quali ci sono ancora indagini in corso”. E ora “assistiamo alla sagra degli smemorati”, ha aggiunto riferendosi ai vertici politici che solo oggi offrono qualche spiraglio di verità “sulla trattativa tra Stato e mafia che, non potendo passare sulla testa di Borsellino, è passata sul suo cadavere”.

Durissimo, l’intervento del procuratore generale di Caltanissetta, ma non isolato.“C’è il sospetto che qualcuno voglia cancellare tutta l’indagine sulla trattativa”, ha affermato a un convegno il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che fece parte del pool di Giovanni Falcone e Poalo Borsellino. Il riferimento è alle polemiche sorte dopo l’arresto di Massimo Ciancimino, uno dei principali testimoni sui contatti tra boss e uomini dello Stato ai tempi delle stragi e non solo.

Ingroia ha ricordato i manifesti comparsi sui muri di Palermo, con la foto di Massimo e la scritta: “Tale padre, tale figlio. Meglio un giorno da Borsellino che cento giorni da Ciancimino”. Una campagna firmata dalla Giovane Italia del Pdl. “Non lo condivido”, ha spiegato Ingroia, “Ciancimino Vito era un mafioso, Ciancimino Massimo no. Ciancimino Vito aveva sposato la cultura dell’omertà: l’ho conosciuto, l’ho interrogato a lungo a Rebibbia, non ammise mai nulla, tanto che nel ’93, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio continuava a dire che Giovanni Falcone aveva ordito un complotto contro di lui per incastrarlo”. La conclusione è sempre la stessa: “Non vorrei che qualcuno si illuda di seppellire tutto ciò che è emerso”.

Neppure la cerimonia ufficiale è rimasta al riparo dallo scontro politico-giudiziario: “Se oggi Paolo Borsellino fosse vivo, combatterebbe per l’indipendenza della magistratura”, ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo Antonino Di Matteo. Che ha evocato una parola sinistra: isolamento. “Dobbiamo vigiliare affinché quelle condizioni di isolamento di alcuni magistrati del periodo delle stragi del ’92 non si ripetano”.

Il presidente del Senato Renato Schifani ha diffuso un lungo comunicato in cui tra l’altro affrema che “onorare la memoria di Borsellino e di quanti appartenenti allo Stato sono stati uccisi per mano mafiosa significa innanzitutto sapere seguire il loro esempio, fare tesoro del loro insegnamento per contribuire nei fatti, con determinazione e tenacia a rendere migliore la nostra terra di Sicilia”.

Lo Schifani in veste istituzionale usa toni ben diversi da quelli utilizzati otto anni fa contro Maria Falcone e Rita Borsellino, sorelle dei magistrati uccisi, che avevano osato risentirsi contro il premierSilvio Berlusconi per la famosa intervista sui “giudici matti” e “antropologicamente diversi dalla razza umana”. Da presidente del gruppo di Forza Italia a palazzo Madama, il 5 settembre 2003 Schifani dettò alle agenzie la seguente dichiarazione: “Sono disgustato e amareggiato. Le signore Maria Falcone e Rita Borsellino con le loro dichiarazioni hanno offeso la memoria dei loro eroici fratelli. Le due signore, entrambe militanti a sinistra, non solo hanno fatto finta di di non aver capito che il presidente Berlusconi si è chiaramente riferito a una strettissima cerchia di magistrati ma, con una disinvoltura che preferisco non commentare, hanno strumentalizzato due eroi civili, che, per fortuna di tutti, sono patrimonio della collettività”.



Milanese scrive alla giunta della Camera “Autorizzate tabulati e apertura cassette”.


Marco Milanese
ha chiesto alla giunta della Camera di autorizzare l’apertura delle sue cassette di sicurezza e la consegna dei suoi tabulati telefonici, così come invocato dal pm Vincenzo Piscitelli che ha chiesto e ottenuto dal giudice il suo arresto per associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di atti. L’ex consigliere del ministro Giulio Tremonti, infatti, ha inviato una lettera chiedendo di “celermente autorizzare” le due ultime richieste pervenute dalla Procura di Napoli. Milanese ha scritto al presidente della Giunta, Pierluigi Castagnetti e ne ha informato il procuratore della repubblica di Napoli, Giovandomenico Lepore.

“Con riferimento ai due decreti, a firma del sostituto procuratore Piscitelli, di sequestro di alcune cassette di sicurezza e di acquisizione dei tabulati telefonici relativi alle utenze telefoniche nella mia disponibilità, con la presente La informo, doverosamente, che questa mattina ho chiesto alla Giunta per le immunità e le prerogative parlamentari della Camera dei Deputati e alla stessa Camera, di voler autorizzare celermente quanto sollecitato dal Suo ufficio”, si legge nel testo. “Ho la certezza, infatti, che le indagini approfondite e senza pregiudizi consentiranno una lettura dei fatti secondo verità, non avendo nulla da temere dalle stesse; auspicando che le investigazioni proseguano con grande celerità ed in ogni direzione, compresa quella diretta a smascherare le vere ragioni della calunnia e delle strumentalizzazioni della mia persona. Rimanendo, come sempre, a disposizione di ogni richiesta di chiarimenti da parte del Suo Ufficio, le porgo distinti saluti”.

Gli avvocati difensori di Milanese hanno ribadito di aver fiducia nel fatto che “ogni profilo delle vicende contestate sarà presto chiarito” ed hanno sottolineato come Milanese sia stato sempre disponibile “ad aderire doverosamente ad ogni richiesta dei magistrati”, sia quando è stato sentito nella veste di indagato, sia quale persona informata. In questo stesso spirito – hanno concluso – si colloca la richiesta alla Camera di dire rapidamente sì alle due ultime richieste della procura di Napoli”.



La chiesa come la Casta, in Grecia monta la rabbia contro le gerarchie ortodosse. - di Lettera22 per il Fatto.


Dalla Rete è nata una petizione per chiedere l'abolizione dei privilegi concessi ai religiosi: a cominciare dallo stipendio dei 9000 preti, pagato dalle casse statali fino all'immenso patrimonio immobiliare, nemmeno sfiorato per uscire dalla crisi economica.

La crisi economica investe anche la Chiesa ortodossa greca. Non tanto perché ne colpisce le rendite e gli assets, ma piuttosto per la rivolta popolare scoppiata, in tempi di austerity e sacrifici, proprio contro i vantaggi fiscali di cui gode la potente Chiesa ortodossa greca (la chiesa nazionale).

Il tam tam che sta investendo i vertici ecclesiastici, considerati dei “ricchi egoisti” è iniziato su Facebook: un pagina creata da alcuni giovani, che chiede “uguaglianza” e “il taglio dei privilegi”, ha raggiunto in poche ore oltre 100mila “amici”. Ne è nata ben presto una petizione per chiedere al governo una legge di iniziativa popolare che elimini tutti i benefici speciali, che rendono di fatto la Chiesa immune dall’impatto della recessione, oggi spettro per 11 milioni di cittadini.

Si parla di un’istituzione che detiene l’1,5% della azioni sella Banca Nazionale della Grecia, che è l’ente privato con maggiori possedimenti terrieri (seconda solo al demanio), che dà lavoro a migliaia di persone ma che, secondo gli osservatori, versa una quota di tasse irrisoria rispetto ai beni detenute.

Va detto che, prima della protesta pubblica, il “balletto Chiesa-stato” è durato alcuni mesi: in un primo tempo l’arcivescovo di Atene Ieronymos II, dopo un colloquio con il ministro delle Finanze ellenico,Evangelos Venizelos, aveva manifestato la disponibilità della Chiesa ortodossa a cedere parte del suo vasto patrimonio immobiliare per aiutare il paese a contrastare la crisi. Sembrava una mossa per condividere i sacrifici della popolazione. Ma, arrivati al punto di mettere in pratica le buone intenzioni, le proprietà della Chiesa ortodossa greca sono state escluse dalla lista dell’Ufficio per la valorizzazione della proprietà dello Stato, l’ente statale incaricato di attuare il programma delle privatizzazioni. Dunque, la Chiesa è uscita indenne dal piano.

Gli stipendi ai circa 9.000 preti attivi (oltre a quelli in pensione) continueranno ad essere pagati dallo Stato (con un esborso di 286 milioni di euro l’anno), mentre la nuova legge fiscale in preparazione dovrà avere il beneplacito ecclesiastico prima di giungere in Parlamento. Ieronymos e il ministro Venizelos hanno poi deciso, con un escamotage, di creare un ente speciale (in partnership stato-chiesa) per vendere parti esigue delle proprietà ecclesiastiche, destinando gli introiti a opere di beneficenza.

L’annuncio dell’esenzione, pur ammorbidita dal progetto futuribile di una limitata alienazione dei beni, per una fantomatica beneficenza (tutta da definire), ha scatenato la rivolta popolare. Che oggi investe le gerarchie e che ha trovato un sponda politica nell’ex ministro delle finanze Yannis Papantoniou.

Va detto che la Chiesa ortodossa in Grecia ha una antica storia di privilegi sul suo status, in un paese dove registra il 90% dei fedeli ed è costituzionalmente la “preferita”, unico gruppo religioso sostenuto finanziariamente dallo stato. E il Partito socialista del Premier George Papandreou, al governo ad Atene, non sembra volerne intaccare seriamente il potere, temendone la capacità di mobilitazione delle coscienze e dunque delle masse.

Anche perchè la Chiesa oggi respinge al mittente le accuse, rimarcando che nel 2010 il Santo Sinodo ha pagato all’erario la ragguardevole cifra di 1,3 milioni di euro. Il punto è che, attualmente, è impossibile controllare e stimare con precisione l’entità dei beni posseduti, in quanto ci si dovrebbe addentrare in un labirinto in cui ogni singola chiesa (che nel mondo ortodosso è autocefala) è responsabile per le tasse che paga. Le immense proprietà terriere, ricordano i leader religiosi, sono eredità del periodo della dominazione ottomana, quando i cittadini preferivano donarle alla Chiesa piuttosto che rischiare l’esproprio da parte di turchi. Ma oggi, mentre il paese soffre per disoccupazione galoppante, calo del potere di acquisto e nuove sacche di povertà, la giustificazione fa acqua. E un altro ex ministro delle Finanze, Sefanos Manos, reclama più trasparenza, invocando “un censimento indipendente delle proprietà ecclesiastiche”, chiedendo che, almeno per pagare i religiosi, si possano utilizzare le rendite relative a quei beni.

Proprio nell’autunno scorso, in messaggio distribuito in tutte le chiese, il sinodo della Chiesa ortodossa greca denunciava “la carenza di leadership e di senso etico” della classe dirigente, che “ha perso la propria indipendenza”. E bacchettava anche “un impoverimento morale della società, attirata solo dalla facile ricchezza e dal benessere”, esortando alla “solidarietà verso i bisognosi”.

Oggi, mentre la rabbia monta, quello che la chiesa potrebbe pagare, in questa fase difficile per la nazione, è un costo politico, di immagine, e di credibilità che potrebbe ferirla al cuore e generare un’emorragia di fedeli.

di Sonny Evangelista




Strage di Bologna, richiesta choc del Pdl “Esercito in piazza per l’anniversario”. - di Antonella Beccaria


Il deputato del centrodestra Garagnani: "C'è pericolo per l'ordine pubblico". Ma i membri del governo non ci saranno comunque. Libero Mancuso: "Il vero problema è psichiatrico". Cevenini: "E' procurato allarme". Merola: "Parole a vanvera". Paolo Bolognesi: "Ci prendono in giro".


Mai si era toccato così il fondo. Un deputato del Pdl che chiede l’esercito a Bologna. E non in un giorno qualsiasi, ma per le commemorazioni del 2 agosto, anno 1980, giorno in cui la città conobbe l’orrore. Non è bastata l’assenza di ogni rappresentante del governo per il trentennale della strage e che quest’anno si ripeterà, cosa di per sé già sconcertante. No, il Pdl va oltre e vuole che in piazza delle Medaglie d’Oro, davanti alla stazione, insieme ai familiari delle vittime, alle autorità e ai cittadini ci sia anche l’esercito.

A chiederlo è Fabio Garagnani, deputato del Pdl, per il quale ci sarebbe un “problema di ordine pubblico” da tenere sotto contro manu militari il prossimo 2 agosto. Di fatto, il parlamentare già da qualche giorno vedeva ipotetiche minacce scaturite da un “clima di permanente ideologizzazione”. Secondo lui lo dimostrerebbero un po’ le monetine lanciare poco tempo fa contro Manes Bernardini, in lizza per il centro destra per la poltrona di sindaco. Accadeva lo scorso 27 giugno, nel pieno delle contestazioni no tav.

E ancor prima – era la primavera scorsa – ci sono state le indagini per atti vandalici e attentati esplosivi contro le sedi bolognesi l’Ibm e l’Eni. Fatti attribuiti al fronte anarchico più radicale e che avevano portato ad arresti di persone che provengono da quell’ambiente. A ruota, durante le contestazioni in Val di Susa, anche esponenti emiliano-romagnoli di quell’ala politica si erano fatti qualche giorno di galera finendo poi ai domiciliari.

Garagnani, tra tutti questi eventi, vede un filo che li collega e che, in base alle dichiarazioni che ha rilasciato, non risparmierebbero nemmeno le cerimonie (ufficiali, dato che vedono la partecipazione del sindaco di Bologna, Virginio Merola, e di altri rappresentanti delle istituzioni) per una strage che fece 85 vittime e oltre 200 feriti. E poi torna su un leit motiv più tradizionale, nell’ottica polemiche pre-manifestazioni: per lui, sono “interpretazioni strumentali di comodo che hanno sin qui caratterizzato la suddetta ricorrenza” le sentenze che hanno condannato esecutori e depistatori. E che attribuiscono la responsabilità materiale all’estrema destra e i tentativi di sviare le indagini aservizi segreti militari e P2.

Di qui, l’invito al governo, se mai dovesse partecipare all’evento (eventualità ormai piuttosto improbabile, come raccontato dal Fatto Quotidiano pochi giorni fa), di portare “informazioni utili sulle piste percorse da terroristi di varia matrice”. In altre parole, la sollecitazione di Garagnani è di riportare l’attenzione sulle cosiddette “piste alternative”, che di volta in volta tirano in ballo i terroristi palestinesi, Carlos Lo Sciacallo (alias Ilich Ramírez Sánchez, leader Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina all’ergastolo in Francia) o i libici, come è tornato a fare Carlo Giovanardi, nella sua “verità” su Ustica riesuma la smentita tesi della bomba a bordo del Dc 9 dell’Itavia nella catastrofe del 27 giugno 1980.

Nessuna di queste piste, allo stato attuale, ha mai raccolto elementi utili per arrivare ad incriminazioni. Proprio da qui parte Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione, nel replicare al deputato Pdl. “Ci sono sentenze passate in giudicato che hanno tenuto di fronte ad attacchi come quelli di Garagnani”, dice Bolognesi. “Dunque le strade sono due: o Garagnani porta prove tali per cui quelle sentenze vengano smentite oppure sta dando fiato a problemi che con la strage non c’entrano nulla”.

E il presidente dell’associazione vittime rincara la dose: “Questo governo o suoi rappresentanti non hanno alcun diritto a fare affermazioni del genere perché non sono credibili. Lo scorso 9 maggio, giorno di commemorazione di tutte le vittime del terrorismo, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi aveva detto di aprire gli armadi della vergogna sugli anni di piombo, ma non mi risulta che i magistrati bolognesi siano stati sommersi di carte. Inoltre – e ancora più grave – a oggi non è ancora stata applicata la legge 206 del 2004 sulle pensioni di invalidità ai feriti del terrorismo. E questo nonostante le rassicurazioni di Berlusconi e di Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio. Dunque questa maggioranza ha preso in giro senza ritegno le vittime”.

Caustico anche il commento di Libero Mancuso, il magistrato che indagò sulla strage alla stazione rappresentando la pubblica accusa nel processo di primo grado e che è stato assessore nella giunta di Sergio Cofferati diventando poi un esponente di Sel. “Qui non si tratta di un problema di ordine pubblico”, afferma, “ma di un problema di ordine psichiatrico. Affermare che il 2 agosto serve l’esercito per strada è un’affermazione che non merita alcun commento”.

Per Maurizio Cevenini, consigliere comunale e regionale, “le manifestazioni che commemorano la strage hanno sempre visto una grande partecipazione pubblica e le contestazioni si sono sempre limitate ai fischi in piazza contro i referenti del governo. Quei fischi li ho sempre condannati, ma non sono in alcun modo un segno di violenza. Parlare di esercito e di pericoli non meglio definiti è di cattivo gusto, ma soprattutto è un procurato allarme. Che rifletta, lo schieramento di centro destra, sui fatti del 2 agosto 1980, dato che il governo qualche porta ancora chiusa la dovrebbe aprire”.

Una risposta secca anche da parte del sindaco, Virginio Merola. “Garagnani ha perso un’occasioneper stare zitto perché sono parole a vanvera”, ha dichiarato in serata. “Spero che quelle frasi sconsiderate non vengano tenute in considerazione da nessuno”
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