martedì 20 dicembre 2011

Pochi magistrati nei tribunali. “Scontiamo ancora il blocco dei concorsi dell’era Castelli”. - di Thomas Mackinson




Il presidente dell'Anm Luca Palamara commenta la situazione disastrosa del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e allarga il discorso a livello nazionale. "Ad oggi - dice - mancano un migliaio di magistrati"
E’ arrivato il momento di rimettere in moto la macchina della Giustizia e nella giusta direzione.Luca Palamara, presidente dell’Anm, fa suo il grido d’allarme che arriva da Santa Maria Capua Vetere, dove la carenza di giudici sta paralizzando l’attività giudiziaria e apre una linea di credito al nuovo governo. Legato a doppio filo, il tema degli organici e delle sedi disagiate si è materializzato il 7 dicembre scorso nel primo incontro tra l’Associazione Nazionale Magistrati e il nuovo ministro della Giustizia, Paola Severino. Si apre, forse, una fase nuova. Segnata dalla richiesta di deporre le armi tra governo e magistratura per mettere mano al sistema. E – perché no – mettere un freno alla pratica di usare i tirocinanti come “tappabuchi” nelle situazioni più esposte.

Il nuovo governo offre davvero una speranza di discontinuità rispetto al passato?

Penso e spero che sia così. Nell’incontro dei primi di dicembre sono stati passati in rassegna diversi problemi del sistema giudiziario e abbiamo presentato le nostre proposte per uscire dallo stallo generale. Perché la situazione di difficoltà che si regista a Santa Maria Capua Vetere si riscontra ormai in molti uffici del Paese, ovviamente a partire dalle sedi disagiate in territori maggiormente esposti alla criminalità

Cosa avete detto al nuovo Guardasigilli?

Abbiamo fatto presenti le difficoltà e abbiamo indicato le nostre proposte come la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’informatizzazione degli uffici, sul sistema carcerario, senza trascurare il profilo interno alla magistratura: l’organizzazione interna degli uffici, l’autoriforma e anche la questione morale.

Ci sono altre situazioni-limite?

Ce ne sono eccome, da Messina a Palermo ma basta il dato sulla carenza di organici: mancano un migliaio di magistrati e tanto basta per far capire la gravità e la fragilità del sistema. Situazioni critiche si registrano a Messina, Palermo dove in organico mancano 74 magistrati tra 46 giudicanti e 28 requirenti ma l’elenco è davvero lungo.

Perché c’è questa situazione, visto che negli ultimi anni si è parlato insistentemente della questione giustizia?

Scontiamo ancora il blocco dei concorsi del periodo 2001-2006 dell’era Castelli. In quel periodo è stata affrontata la riforma del sistema giudiziario e questo ha determinato il blocco perché il sistema di accesso alla magistratura è stato radicalmente modificato. Oggi stiamo scontando quel vuoto.

L’ex ministro Alfano rivendica l’impegno del governo Berlusconi nella riprogrammazione dei concorsi. Addossa poi al Csm la responsabilità di non applicare le norme straordinarie varate per le sedi disagiate al Sud. Cosa ne pensa?

Il blocco degli anni passati non si può recuperare senza un serio sistema di incentivi e senza una revisione delle circoscrizioni giudiziarie. Tutte queste cose le abbiamo rappresentate al nuovo ministro con il quale speriamo di archiviare il recente passato che ha sulla giustizia ha imposto un agenda di temi che poco ha a che fare con l’efficienza, la qualità e l’adeguata copertura del servizio.

Insomma la speranza è che con il Governo dei tecnici ci sia una revisione delle priorità rispetto ai temi dei processi lunghi e brevi e delle intercettazioni…

Mi sembra che il nuovo Ministro abbia condiviso le priorità che gli abbiamo esposto e questo credo sia un buon segnale di discontinuità. Certo, ora tocca passare dalle parole ai fatti.

Si torna a parlare dei “giudici ragazzini” a presidio dei territori più scoperti. E’ una pratica che condividete ancora e sulla quale si può insistere?

Una seria politica di organizzazione del personale di magistratura non può fare conto esclusivamente sui giovani colleghi da utilizzare come “tappabuchi” per le situazioni più difficili. E’ indispensabile una razionale programmazione dei trasferimenti che tenga conto allo stesso modo delle necessità degli uffici e delle aspirazioni dei giovani colleghi. E’ inoltre assolutamente necessario che i Presidenti dei Tribunali presso i quali saranno destinati i Magistrati ordinari in tirocinio (Mot, ndr) indichino immediatamente a quali funzioni gli stessi saranno assegnati, in modo da consentire una scelta consapevole e motivata e una organizzazione più efficace del tirocinio mirato.

Gli Sgommati - Berlusconi viene accompagnato in una casa di riposo.

On the road - di Luciano Scanzi

No, ragazzi. Non ci siamo.
Mi rivolgo a quei 3 o 4 sindacalisti che hanno reagito in maniera così scomposta e scriteriata di fronte alla possibile abolizione dell’art. 18.
Bonanni,  da lei poi non me l’aspettavo! Sempre così diligente, comprensivo, responsabile; così avanti da essere stato il primo a credere nei patti di stabilità con governi e capellone. Ora, alla sua età e con il suo passato, mi si mette a fare il barricadero?
E dai! Manca così poco.
La prima fase é andata, e siete stati perfetti. Qualche bla bla bla ma poi, al momento giusto, ha prevalso il teorema Casini. Quello dell’approvazione a prescindere. Il Governo dei Miracoli non può e non deve essere messo in discussione. Nessun dubbio su questo. Come succede nelle dittature. Sì lo so che la nostra è una democrazia, era solo per fare un esempio.
Adesso però, senza l’azione bilama della fase 2 rischiamo di lasciarla monca, questa macelleria sociale. E non sarebbe giusto.
Con la riforma delle pensioni abbiamo sobriamente costretto le persone a rimanere al lavoro, che poi quello che avrebbero pagato di tasse e contributi ci faceva anche comodo, e ora mica vorrete davvero che le aziende si tengano sul groppone questi lavativi per tutti questi anni?
Prima prepensionavano, ma ora, intanto che i sessantenni crescono e diventano grandi, che ne fanno?
Tutti a casa! Altro che art. 18. On the road, verso nuove occasioni. Nella loro età migliore e pieni di spirito e cretività.
Cerchiamo di essere positivi e sfruttare le nuove opportunità che ci vengono offerte invece di stare sempre a lamentarsi.
Non rovinate tutto proprio adesso, avete perfino fatto intristire la Fornero. Si è detta dispiaciuta del vostro comportamento.
Come dite? Sì, lo so che è tutta una sceneggiata, un gioco delle parti. Ma lei potrebbe prendervi sul serio. E poi lo sapete che è sensibile.
Ecchecazzo, mica vorrete farla piangere un‘altra volta, questa santa donna?


Commessi da 9mila euro I privilegi della Camera. - di Emanuela Fontana


Intorno agli onorevoli c'è la tribù degli addetti: dai tecnici agli stenografi. Tre volte più numerosi dei deputati, nel 2010 sono costati mezzo miliardo. C'è chi guadagna più di Napolitano.


Roma - Alla Camera sono 1.642, quasi tre per ogni deputato. E da questo numero sono esclusi i collaboratori degli onorevoli, per i quali i parlamentari hanno un contributo a parte (fino a 3.690 euro al mese).
Uno dei commessi a Montecitorio
Uno dei commessi a Montecitorio
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Sono le comparse di Montecitorio, l’ingranaggio sotterraneo della Camera che non si vede, o che s’intravede in qualche seduta movimentata, quando un braccio nero arriva ad agguantare un eletto del popolo che si sta avventando su un altro eletto del popolo. Sono questi i cosiddetti commessi parlamentari, o assistenti, ma l’infinita varietà di mansioni dell’alveare Camera propone ben 19 servizi e 7 uffici della segreteria generale, con incarichi che vanno dall’operatore tecnico al segretario, appunto, che vanta uno stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica ( 28.152 euro lordi mensili). La spesa complessiva di Montecitorio per stipendi e pensioni dei 1.642 nel 2010 ha superato il mezzo miliardo di euro, 508 milioni 225mila euro.
Tutto ruota intorno alla Casta, ma per muovere l’onorevole tribù c’è appunto quest’altra Casta quasi tre volte più numerosa, che a ben guardare costa alle casse pubbliche non meno della dorata schiera dei politici. Il bilancio consuntivo 2010 della Camera dice che per gli stipendi del personale (ascensoristi, commessi seda-risse, stenografi, consiglieri eccetera) la spesa è stata di 256 milioni 128mila euro. Questo significa che il guadagno medio di un dipendente è di 155mila 985 euro lordi l’anno, 6mila euro al mese netti di media. Uno stenografo sfiora i 260mila euro l’anno. Per fare un paragone, le controverse indennità parlamentari si sono fermate a 94 milioni 545mila euro. Non è solo una questione di grandi numeri. Entrare alla Camera, anche nei ruoli meno prestigiosi come appunto quello di commesso con il compito di sorvegliare la seduta di assemblea, implica portare a casa uno stipendio base, alla prima assunzione, di 2.618 euro netti. Dopo 15 anni di lavoro la busta si gonfia: 5.613 euro.
A fine carriera, dopo 35 anni, il supercommesso arriva a guadagnare 9mila 400 euro. La paga di circa cinque operai. E a proposito di fine carriera va segnalato che anche per i dipendenti, fino alla settimana scorsa, sono valse regole, se non favolose come quelle dei deputati, eccezionali rispetto ai comuni lavoratori italiani: gli assunti prima del 2009 potevano andare in pensione anche a 57 anni con 35 di contributi, oppure molto prima se gli anni effettivi di servizio alla Camera erano stati almeno venti. Le nuove norme stabilite dall’ufficio di presidenza lo scorso 14 dicembre impongono anche per l’altra Casta la pensione a 65 anni, con sistema contributivo. In men che non si dica però, nello stesso giorno,l’associazione dei consiglieri della Camera ha recapitato al presidente Fini e ai parlamentari una lettera, non ancora resa nota alla stampa, per rendere consapevole«l’intera rappresentanza parlamentare» che «uno slittamento dell’età di pensionamento» anche «di dieci anni» anche per «i dipendenti prossimi al pensionamento» non rispetterebbe il requisito «dell’equità ». Si segnala quindi che la «burocrazia parlamentare non appare assimilabile a nessuna delle categorie di pubblico impiego». Pur consapevoli della necessità «di fare ogni sforzo per favorire il consolidamento dei conti pubblici »,i consiglieri rivendicano«la dignità e la qualità professionale della burocrazia parlamentare » e il loro «ruolo centrale» nel «sistema democratico».Una qualità professionale che, comunque sia, è pagata benissimo. Un consigliere caposervizio (che gode di un’indennità di ruolo di 1.198 euro mensili) può arrivare a guidare un servizio e avere uno stipendio fino a 23.825 euro lordi al mese, praticamente superiore a quello di un parlamentare.
Le pensioni dei dipendenti valgono oltre 200 milioni di euro. E a questa voce compaiono anche 110mila euro di «assegni integrativi », 145mila euro di contributi socio- sanitari ai pensionati e 390mila euro di oscure «pensioni di grazia », di cui una rapida ricerca storica consente di trovare traccia nei registri finanziari del regno di Napoli ( XVIII-XIX secolo).I contributi previdenziali a carico dell’amministrazione hanno sfiorato nel 2010 i 47 milioni di euro,di cui quasi 11 milioni versati all’Inpdap e 36 milioni di «integrazione al fondo di previdenza del personale».

Il Mistero Buffo secondo Franca Rame. “Io ero al Parlamento: lì nessuno lavora”



L'attrice ed ex senatrice dell'Idv in scena martedì sera a Bologna con il marito Dario Fo: "Se novecento deputati sui mille che sono andassero a casa sarebbe meglio. Anche se poi gli toccherebbe darsi daffare davvero per sopravvivere".


Mistero Buffo fa tappa a Bologna. Lo storico spettacolo teatrale ideato da Dario Fo e Franca Rame, oramai quarantadue anni orsono, va in scena martedì 20 dicembre al Teatro delle Celebrazioni alle ore 21.

Tra premi nobel ed elezioni al senato della repubblica, la più conosciuta coppia di artisti teatrali del novecento riprende in mano il capostipite del teatro di narrazione italiano. Parabole evangeliche e misteri medievali declamati con la lingua universale del grammelot, con la commedia dell’arte che fiancheggia feconda la satira e sbeffeggia ilare l‘ipocrisia del potere.

E dopo qualche anno di assenza a fianco del marito, il Mistero Buffo torna ad essere un affare di coppia. Franca Rame sul palco assieme a Dario Fo: “La nostra è una festa – racconta la Rame al Fattoquotidiano.it – abbiamo fatto talmente tanti spettacoli insieme con Dario che non dobbiamo nemmeno più parlarci. Basta uno sguardo in scena e ci si capisce al volo: un colpo di tosse vuol dire qualcosa, quando faccio ciao ciao con la mano vuol dire stringi, quando mi tocco lo stomaco vuol dire “diaframma”. Io ho l’abitudine in scena di dirigere gli attori che lavorano con me. E Dario dice di esserne ben contento”.

Uno spettacolo in continua mutazione, un unicum teatrale…

“Cambiare il testo è una nostra abitudine. Mistero Buffo è un testo pazzesco, una colonna della letteratura italiana, che Dario ha iniziato a scrivere nel 1969. Oggi siamo nel 2011 immaginatevi le volte che lo abbiamo recitato, dicono che sono 5mila repliche, ma forse sono di più. Nel tempo lo si cambia, ci sono alcuni brani completamente nuovi che la gente non conosce, ci sono anche le presentazioni. Dopo tutte queste repliche il testo non potrà mai essere uguale a quello delle origine”.

Tornate a Bologna dopo alcuni anni, intanto la città è cambiata: non sembra più essere quella che era negli anni settanta, quando Mistero Buffo iniziava il suo percorso teatrale. Cosa pensa di questi cambiamenti politici?

Non è più la Bologna gloriosa di quegli anni, questo sì. Leggo i giornali e seguo le polemiche, ma manco da anni da questa città. Certamente  quarant’anni fa la sinistra che c’era, era proprio la sinistra. Adesso, senza offendere nessuno, è una sinistra un po’ rilassata. Non voglio dire male, io sono di sinistra, anche se provengo da quella famiglia non iscritta al Pci”.

Non trova che a Milano, come del resto a Napoli, l’apertura alla società civile ha dato nuova linfa alla sinistra locale?

“I cambiamenti sono evidenti e a poco a poco danno buoni frutti, ma ricordiamoci che questo è un momento brutto per Milano come per Bologna e per Siracusa. Abbiamo questo nuovo presidente del consiglio che mi sembra possa mettere in atto alcuni cambiamenti fondamentali per il nostro futuro a breve. Mi auguro che lo lascino lavorare perché il tempo è pochissimo”.

Lei comunque è ricordata anche per la sua esperienza da senatrice con l’Idv dal 2006 al 2008 e per atti di coraggio come l’idea di abolire privilegi della casta e tagliare costi della politica: che ricordo ha di quel periodo?

“Quello che ho vissuto al Senato è il più brutto periodo della mia vita. Faccio un esempio: in due anni sono stata l’unica a tirar fuori il problema del conflitto d’interessi di Berlusconi, ma la proposta è caduta nel più grande gelo e disinteresse da parte di tutti. E dire che tra parlamentari e senatori siamo attorno alle mille unità”.

Allora da dentro le istituzioni è impossibile cambiare il paese?

“Guardate, se di questi mille parlamentari, novecento andassero a casa sarebbe meglio. Mi dispiace per loro perché gli toccherebbe lavorare, perché lì dentro non si può dire che si lavori. Io in Senato ero presente a tutte le commissioni. Ne avevo otto. Le frequentavo tutte. A quella sull’uranio eravamo presenti io, la senatrice Lidia Menapace (Rifondazione Comunista, n.d.r.) e un senatore leghista. Ugual numero anche nelle altre commissioni. Quindi se avessi lavorato come lavorano in generale i senatori avrei lavorato sette ore alla settimana. Non un numero a caso, l’ho ben calcolato:  sette ore”.

Principali colpevoli di questa debacle culturale e istituzionale?

“Se fate attenzione all’emiciclo sia a sinistra che a destra vedrete che le assenze sono dappertutto. Addirittura alcuni arrivano in ritardo per il voto. Ma vi pare che un parlamentare arrivi in ritardo per votare? Eppure è successo anche nel giorno della caduta di Berlusconi tra le fila dei suoi sostenitori. Fanno solo quello che gli è può comodo, ragionano così”
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‘Dimessi’ dall’azienda e ora senza pensione. Ecco le vittime della manovra.



Sono stati incentivati a lasciare il lavoro, ma ora restano senza reddito. Il superscalone li costringe ad altri 5-6 anni di attività, ma un'entrata a fine mese non ce l'hanno più. Per esempio i 5000 ex dipendenti delle Poste sono finiti nel limbo.


Una nuova polemica emerge dalle pieghe della riforma pensionistica. Stavolta riguarda i lavoratori “esodati” che qualcuno, addirittura, definisce “soprannumerari”, figli illegittimi di aziende fallite o che si sono licenziati in previsione della pensione a portata di mano nel 2012 o 2013. E che ora si trovano in una terra di nessuno, fuori dal lavoro e con la riva della pensione che si allontana di colpo aprendo la prospettiva a un vuoto di reddito spaventoso. In seguito alla riforma Monti-Fornero esistono in circolazione alcune decine di migliaia – stima sindacale – di lavoratori che prevedendo una pensione a portata di mano hanno accettato “esodi” volontari da parte di aziende in ristrutturazione oppure si sono licenziati con buonuscite commisurate agli anni mancanti alla pensione. Solo che adesso quest’ultima si è allontanata di 5 o 6 anni grazie al “superscalone Fornero”. I sindacati chiedono che per questi lavoratori valgano le vecchie regole ma non hanno ricevuto alcuna rassicurazione da parte dell’esecutivo che si è detto pronto a esaminare il dossier ma che non ha preso impegni.

IL CASO forse più eclatante riguarda le Poste, dove circa 5000 dipendenti (ma molti lavoratori parlano di 7000 unità) hanno concordato con l’Azienda un esodo incentivato e oggi sono a metà strada. Il sindacato ha chiesto un incontro urgente all’azienda che però non ha dato nessuna risposta. Sulla Rete si possono trovare testimonianze come questa: “Ho maturato ad oggi 39 anni e 2 mesi contributivi. Lavoro in Poste Italiane come dirigente d’ufficio. In aprile mi hanno proposto di farmi accompagnare alla pensione che maturavo a fine 2012. Ho iniziato a lavorare giovane, ho studiato e mi sono laureato mentre lavoravo e pagavo i contributi. Ora con la nuova normativa mi trovo senza stipendio e dovendo pagare i contributi per due anni. Poste dice che il firmato è consensuale e che continuare a lavorare è impossibile. Quindi dal primo gennaio 2012 sono a casa, accompagnato non al meritato riposo dopo quaranta anni di contribuzione, ma al patibolo”.

ECCO UN’ALTRA testimonianza: “Mi ritrovo il 31 gennaio 2012 con 57 anni di età e 35 anni di contributi. Dalla fine di dicembre 2011 entrerò in mobilità per 3 anni (azienda fallita). Alla fine della mobilità avrò 59 anni e 11 mesi con 38 anni di contributi. Se non viene modificata la legge ho due opzioni: la prima pagare i contributi volontari per 4 anni e 3 mesi oppure aspettare altri 6 o 7 anni per la pensione di vecchiaia. In entrambi i casi senza nessun reddito”. A volte le cose sono più complesse: “Sono uscita dalle Poste il 1 di luglio: mi hanno proposto di licenziarmi (dopo 35 anni e 6 mesi di lavoro, a 59 anni) in cambio dell’assunzione part-time di mia figlia. Ho accettato perché avevo la pensione a portata di mano ma ora con la riforma sono diventati 5 anni e mezzo!”.

A PARTE l’atipica procedura che seguono le Poste nelle assunzioni dei familiari, è evidente che la nuova norma provoca un impatto molto pesante su chi resta senza reddito. A essere subissato da queste lettere è soprattutto il Pd che aveva fatto precise promesse sulle pensioni di anzianità – “i 40 anni di contributi non si toccano” – ma che invece ha dovuto e voluto ingoiare diversi rospi e ora deve rendere conto. Ne è consapevole Cesare Damiano che proprio sugli “esodati” ha presentato l’ordine del giorno alla Camera, accolto dal governo, e che ora punta a risolvere questo problema insieme a quello dei lavoratori “precoci”, cioè lavoratori che hanno iniziato a lavorare davvero molto presto e che raggiungono i 42 anni di contributi prima dei 62 anni di età e quindi sono soggetti a “penalizzazione”. Gli occhi sono puntati sul “decreto milleproroghe”, quel provvedimento monstre con cui i vari governi hanno sempre ovviato a tutti gli errori o inadempienze prodotti dalle scadenze stabilite nelle varie leggi e non rispettate. “Il problema dei lavoratori precoci può trovare soluzione nel “milleproroghe – dice a Il Fatto Quotidiano l’ex ministro del Welfare Cesare Damiano (Pd) che assicura la presentazione dell’emendamento per cacellare la penalizzazione – per gli “esodati”, invece, vogliamo un intervento rapido del governo”. Ma Monti e Fornero sono d’accordo? Damiano afferma che la “disponibilità del governo sta nel fatto che ha accolto un ordine del giorno e che ora deve tradurre in una disposizione normativa”. Il ministro Elsa Fornero ha detto che studierà il dossier. Gli strasichi della sua riforma sono molto più difficili da gestire del previsto.

lunedì 19 dicembre 2011

Ecco come comprare gioielli in nero. Viaggio nell'Italia che non fa scontrini. - di Antonio Crispino





Dal 6 dicembre 2011è vietato qualsiasi trasferimento in contanti superiore a 999,99 euro. Ma sono in tanti ad accettare gli escamotage. Da Nord a Sud: Napoli, Milano, Roma, la storia è sempre la stessa.


MILANO - L'anello che voglio regalare alla mia fidanzata costa 8200 euro. Il gioielliere strabuzza gli occhi quando glielo indico. Non gli pare vero. Da quasi un anno è lì in vetrina a prendere polvere. Nessuno fino ad allora gli aveva chiesto nemmeno di vederlo. La crisi! Anzi, per invogliarmi a comprarlo mi fa uno sconto del 10%, si vuole proprio rovinare. E se non dovesse andare bene? «Veniamo fino a casa e lo cambiamo». E per il pagamento? Si può fare in contanti? Sa, per ragioni fiscali... «Ma certo, per noi non c'è nessunissimo problema, è proprio l'ultimo dei pensieri. Se vuole può anche dividerli in due tranche... Ma anche tre, quattro, cinque... Insomma, come le fa più comodo, per noi è indifferente». 

Tanto indifferente non dovrebbe essere viste le nuove norme antievasione fiscale varate dal governo Monti. Dal 6 dicembre 2011è vietato qualsiasi trasferimento in contanti superiore a 999,99 euro. Tutto, sopra questa cifra, deve essere tracciabile. Dovrebbe. Trovare gioiellieri che applicano la regola è davvero dura. Si deve entrare negli store delle grandi griffe del lusso per sentirsi dire un «No, non possiamo accettare contanti». 

Nonostante una sanzione pecuniaria che può arrivare fino al 40% dell'importo pagato, sono in tanti ad accettare gli escamotage. E chi pensa al solito furbetto si sbaglia. Da Nord a Sud l'Italia è unita. Napoli, Milano, Roma. La storia è sempre la stessa. Abbiamo simulato l'acquisto di un anello. Costo: dai 1300 agli 8200 euro. Possiamo pagare in contanti? «Certo, nessun problema» ci hanno risposto nella maggioranza dei negozi. A Roma entriamo in una gioielleria che si trova proprio di fronte palazzo Chigi. Più che un gioielliere sembra un consulente dell'evasione. «Può pagare in contanti e se non vuole figurare possiamo dividere l'importo in più parti così risulta un prezzo inferiore ai mille euro. Faremo in modo che non dovrà spiegare come ha speso questi soldi». Ci spostiamo nel cuore dello shopping capitolino: via Condotti. Qui l'attenzione dovrebbe essere altissima. Invece accettano il pagamento in contanti di 5800 euro. Non fa eccezione il centro di Milano: corso Buenos Aires. «Vanno bene i contanti ma lo scontrino fiscale non posso farglielo. Se per lei non è un problema...». La proposta è chiara: l'acquisto in nero di un anello da 5200 euro. Niente carta di credito, niente scontrino e per il Fisco non esistiamo, né lui né noi. Poco più avanti entriamo in un'altra gioielleria che accetta contanti per il pagamento di un solitario da 8200 euro. Eppure le nuove disposizioni le conoscono tutti. «Ah si, si... Questo è il discorso dei mille euro... lo scontrino... come l'hai comprato... etc... - ci dice un gioielliere napoletano -. Ne parlavo poco fa con un mio amico finanziere e pure lui mi diceva che hanno rotto con tutti questi controlli. Vogliono sapere tutto. Non si lavora più». Che l'Italia sia il Paese dell'evasione fiscale lo sanno anche i turisti, come ci spiega una vecchia negoziante romana. Da due anni a questa parte nel suo negozio entrano solo cinesi e russi. «Si presentano in negozio con le valigie piene di soldi, pagano sempre in contanti, tutto in nero... Ha capito che voglio dire?».