Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 30 dicembre 2011
Così si può vincere la lotta all’evasione. - di Bruno Tinti
‘Inefficienza programmata’ e ‘impunità garantita’: questi i due pilastri sui quali si fonda il nostro sistema tributario. E infatti ogni anno mancano all’appello fra i 120 e i 160 miliardi di imposte. Ma basterebbero poche e incisive riforme – detrazione totale delle spese, pubblicità dei redditi, obbligo di dichiarazione di qualsiasi conto bancario, inasprimento delle pene – e per gli evasori la pacchia finirebbe.
C’è gente che, quando si accorge di un problema, si mette alla scrivania, studia ed elabora soluzioni; poi le prova e, se non vanno bene, ne elabora altre fino a quando il problema è risolto. Poi ce n’è altra che, quando c’è un problema, continua come niente fosse e spera che si risolva da solo; oppure, ed è il caso della classe politica italiana, si guarda bene dal risolverlo perché la soluzione comporta misure non gradite ai cittadini con conseguente perdita di consenso. Lo stile di questo tipo di uomo politico è quello del noto principio del fiammifero acceso: lo si passa a un altro il più in fretta possibile per evitare di bruciarsi le dita. Naturalmente alla fine qualcuno si trova in mano il fiammifero pressoché consumato; e qualcosa deve fare per forza.
Ecco, in Italia siamo a questo punto. Dopo anni di aumento del debito pubblico, di corruzione dilagante e conseguente spreco di danaro, di politica fiscale pensata per favorire gli evasori e guadagnarne il consenso elettorale, i soldi sono finiti: siamo pieni di debiti e nessuno ci vuole fare ancora credito. E la classe dirigente del paese si deve sbattere per non dichiarare bancarotta. Ma non fino al punto di bruciarsi le dita; questo no, sia mai che perdiamo le elezioni! Così le misure proposte sono un misto di fantasia e ipocrisia: un po’ di buone idee circondate da recinti; e poi faccia feroce nei confronti di chi danno elettorale non lo può fare: lavoratori dipendenti e pensionati.
Ma, a questo come ci siamo arrivati? E siamo ancora in tempo a fare qualcosa?
Come ci siamo arrivati è presto detto: abbiamo costruito un sistema tributario inefficiente e fondato su princìpi iniqui.
E dire che la regola ispiratrice ce l’avevamo: l’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Che è assolutamente chiaro ma, per dirla proprio senza equivoci, significa che chi più ha più deve dare. Fin dall’inizio si è pensato che il modo per realizzare questo principio fosse quello delle aliquote di imposta: più si guadagna più cresce la percentuale del proprio reddito che si deve consegnare al fisco. In questo modo la misura proporzionale del prelievo fiscale non è uguale per tutti: se su un reddito modesto (15 mila euro all’anno) si paga il 23 per cento (3.450 euro), su uno elevato (150 mila euro all’anno) si paga 16 volte tanto, il 38 per cento (57.670 euro). Non che sia un sistema sbagliato, solo che può funzionare solo in un mondo ideale; il che significa dove non ci siano persone disoneste. Perché è ovvio che, se uno dichiara meno di quello che guadagna, paga meno imposte sfruttando, in senso inverso, il criterio della progressività: meno dichiara, minore è l’aliquota di imposta.
Il problema dunque non è solo immaginare come assicurare l’equa determinazione della «capacità contributiva», per dirla con la Costituzione; è come non farsi prendere in giro. E qui siamo drammaticamente carenti.
Il sistema tributario italiano si fonda su centinaia di leggi emanate nell’arco di oltre 50 anni. I volumi che le raccolgono sono costituiti da circa mille pagine. Nessuno, che non sia un professionista, è in grado di gestire questo farraginoso e complicatissimo sistema. Inoltre la sua stessa complessità permette scappatoie ed elusioni. Un sistema di questo tipo è in grado di funzionare con accettabile rapidità ed efficienza solo nelle situazioni più elementari: reddito da lavoro dipendente e pensioni. Quando si tratta di redditi da lavoro autonomo, da capitale, da impresa, le possibilità di contestazione e di successivo contenzioso aumentano in proporzione alla rilevanza del reddito. Il tempo necessario per arrivare al momento in cui il contribuente è stretto all’angolo e costretto a pagare il dovuto si misura in anni, anche 10, anche 15. Ma raramente l’amministrazione finanziaria riesce a concludere il contenzioso a suo favore: nella maggioranza dei casi il contribuente riesce a pagare meno, assai meno o anche nulla. Questa situazione cagiona un circolo vizioso. La pochezza del gettito induce l’amministrazione a richieste esagerate. I contribuenti hanno buon gioco nell’opporsi e, naturalmente, trovano una sorta di giustificazione morale all’evasione. Il contenzioso aumenta. I recuperi di imposta sono sempre più aleatori e più lontani nel tempo.
Ma tutto ciò non è ancora nulla. Perché, in realtà, l’amministrazione finanziaria semplicemente non è in grado di controllare l’attendibilità delle dichiarazioni dei redditi. Ne consegue che il contenzioso, inefficiente e improduttivo che sia, nemmeno inizia perché gli accertamenti sono pochissimi. La media nazionale delle dichiarazioni oggetto di controllo è pari al 10 per cento. Per valutare in maniera adeguata questo dato, il sistema migliore è quello di riflettere sul suo contrario: il 90 per cento delle dichiarazioni dei redditi non sono controllate. Il contribuente può dichiarare quello che vuole confidando in una praticamente certa impunità. Insomma, è come giocare al Lotto o al Totocalcio con il 90 per cento di probabilità di vincere: una vera pacchia.
E poi ci sono 5 anni di tempo per controllare le dichiarazioni. Se il fisco non controlla, entro il 2015, quelle presentate nel 2010, i giochi sono chiusi, chi ha avuto ha avuto eccetera. Il fisco interpreta questo termine nel senso: «Ah, bene ci sono ancora 5 anni»; poi gli anni passano e ce ne sono «ancora» 4, 3, 2. Risultato: attualmente quella piccola quantità di accertamenti che si fanno inizia comunque nel quarto anno dopo la presentazione della dichiarazione. Con un altro risultato: se anche si scopre un evasore, le annualità precedenti sono salve; il tesoretto messo da parte con l’evasione non glielo tocca più nessuno.
Naturalmente, a godere di questa situazione di favore sono quelli che hanno la concreta possibilità di dichiarare il falso; vale a dire tutti, eccezion fatta per i lavoratori dipendenti e per i pensionati la cui dichiarazione, quando c’è, è vincolata dalle trattenute alla fonte che vengono effettuate dal datore di lavoro in busta paga. Insomma, l’inefficienza del sistema si scarica su queste due categorie di cittadini; tutti gli «altri» evadono alla grande.
Siccome gli «altri» si scocciano moltissimo di questa patente di evasori e negano che tutto ciò sia vero (le associazioni di categoria sono attivissime nel garantire l’assoluta onestà tributaria dei loro aderenti e, giacché ci sono, l’iniquità della pressione fiscale che grava su di loro), l’unica cosa da fare è metterli di fronte all’evidenza; che, in realtà e secondo quanto finora sperimentato, nemmeno è sufficiente poiché, a questo punto, scatta l’ultima difesa: «E va bene, sarà anche vero che i miei colleghi evadono; ma io no, io pago fino all’ultima lira». E, siccome questa palla la raccontano tutti, la sua falsità non merita ulteriori commenti. Ma torniamo ai dati.
Prima di tutto, si tratta di dati provenienti dal ministero delle Finanze; non sono stati elaborati da associazioni di consumatori, sindacati o altri enti interessati ad addossare agli «altri» la responsabilità della massiccia evasione tributaria che affama il nostro paese. Dati ufficiali e indiscutibili.
Sono anche dati semplici, di immediata comprensione; cifre: nessuna elucubrazione, opinione, teoria, teorema eccetera; dati prelevati, semplicemente, dalle dichiarazioni dei redditi. Sono dati aggiornati, gli ultimi disponibili. Sono stati ricavati dalle dichiarazioni presentate nel 2010; quelle del 2011 ancora non ci sono. E si riferiscono quindi ai redditi del 2009. Drammaticamente attuali.
Numero dei contribuenti italiani (anno 2009) Lavoratori dipendenti 20.870.919
Pensionati 15.292.361
Totale (pari all’88%) 36.163.280
Altri (pari al 12%) 5.359.777
TOTALE 41.523.057
Chi c’è nella categoria pudicamente denominata «altri»? Non è difficile: se non sono lavoratori dipendenti; e se non sono pensionati; non possono che essere lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti. Insomma il cosiddetto «popolo dell’iva».
Così adesso sappiamo chi sono quelli che pagano le imposte: per l’88 per cento gente a cui gliele prendono alla fonte; nessuna possibilità di mentire, di dichiarare meno, di evadere. E, per il 12 per cento, gente che dichiara il reddito che vuole; tanto, si sa, gli «altri» lo sanno, nel 90 per cento dei casi non li controllerà nessuno. E comunque quanto evaso negli anni precedenti ormai è salvo.
Ma quanto pagano lo sfortunato 88 per cento e il restante 12 per cento (gli «altri»)? Anche questo si sa con precisione.
Gettito fiscale (anno 2010) (in mln di euro)Lavoratori dipendenti 89.500
Pensionati 47.700
Totale (pari al 93%) 137.200
Altri (pari al 7%) 9.200
TOTALE 146.400
Così adesso sappiamo che strade, scuole, ospedali e insomma tutto quello che lo Stato fornisce quotidianamente ai cittadini è pagato, per il 93 per cento, da lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e pensionati. E che gli «altri» ne usufruiscono a sbafo.
Fino a qui, matematica. Adesso un dato stimato; però sempre proveniente dal ministero delle Finanze. L’evasione fiscale sarebbe pari a 120-160 miliardi di euro all’anno. Io non lo so come fanno a calcolare questo dato; però non ho motivi per contestarlo. Dunque prendiamolo per buono. E valutiamolo alla luce di altri dati certi, sempre forniti dal ministero delle Finanze.
Redditi medi annui dichiarati da alcune categorie al lordo delle imposte (anno 2008; in euro)Avvocati 49.100
Dentisti 45.100
Ingegneri 37.400
Architetti 26.300
Consulenti fiscali 24.000
Albergatori 21.000
Psicologi 17.100
Ristoratori e bar 16.400
Gioiellieri e orologiai 15.800
Meccanici 15.400
Tassisti 13.600
Parrucchieri e barbieri 10.400
Cifre ridicole, che si commentano da sole. E che spiegano perché ogni anno lo Stato non incassa da 120 a 160 miliardi di imposte. Se 5 milioni di «altri» fanno, ciascuno (in media), un «nero» di 40 mila euro (che è una stima molto ottimistica), abbiamo un’evasione di 100 miliardi. Perché lo Stato non è mai andato a prenderseli?
Non è difficile da capire: perché 5-6 milioni di persone non voterebbero mai per una maggioranza che, dopo 50 anni di pacchia, gli dice che la festa è finita. E 5-6 milioni di voti significano governo od opposizione. Così si spiegano non solo i «buchi» del sistema che abbiamo già visto ma anche quelli che, spinti dalla «crisi», i nostri attuali padroni avevano pensato di chiudere e che poi non hanno chiuso. Come si dice, valga il vero.
Manovra 2011, versioni preparatorie: «Recupereremo un sacco di soldi dalla lotta all’evasione. Quindi nuove armi, non ci scapperà nessuno. Per prima cosa: obbligo di indicare in dichiarazione qualsiasi rapporto bancario di cui si abbia la disponibilità». Questa era davvero l’atomica, l’arma di distruzione di massa degli evasori. Perché «qualsiasi» rapporto bancario significava non solo i conti italiani (quelli, con un po’ di spirito di iniziativa, il fisco se li poteva trovare da solo); ma anche conti, cassette di sicurezza, depositi valute e titoli, ovunque detenuti, anche alle Cayman o nel Liechtenstein. E «disponibilità» significava che dovevano essere dichiarati anche i rapporti intestati alla vecchia zia, alla segretaria, all’amante, insomma ai soliti prestanome dell’evasore. Nessuno avrebbe potuto evadere una lira; oppure avrebbe dovuto mentire, non dichiarare. Ma, a questo punto, una buona quantità di prigione a pane e acqua avrebbe scoraggiato chiunque; anche perché non sarebbe stato un processo difficile, lungo, dall’esito incerto. «Ho scoperto che hai un conto alle Mauritius; non lo hai dichiarato, ci rivediamo tra 10 anni»; cosa di più semplice? E chi ci avrebbe provato? Nessuno. Appunto, troppo efficace. Nella manovra finanziaria definitiva non se ne è parlato più.
Altra iniziativa tanto intelligente quanto banale: la pubblicità dei redditi. Attenzione: dei redditi, non delle dichiarazioni dei redditi. Niente violazione della privacy. Nessuno avrebbe saputo che detraevo ingenti somme per cure mediche dovute al fatto che mi ero beccato l’Aids; e nemmeno che pagavo cospicui alimenti alla moglie da cui ero separato sicché tutti avrebbero saputo che la signora con cui andavo a fare la spesa era «illegittima». Redditi: cifra complessiva di quanto si guadagna in un anno. Naturalmente gli evasori organizzati e no si sono subito strappati i capelli: «Si vuole incitare alla delazione, vergogna». Sì, vergogna, davvero. Perché va bene «denunciare» un ladro di macchine, un immigrato clandestino, uno che vende cd taroccati; ma «denunciare» un evasore, uno che ruba alla collettività migliaia, decine di migliaia di euro, quello no, non sta bene; quella è «delazione». Un mondo di spie, dominato dalla Stasi, anche questo mi è toccato sentire. Sarebbe stato meglio chiedersi: «Serve? Porrà un freno all’evasione?». Ma nessuno ha posto il problema. Ovviamente. Perché uno che dichiara 15 mila euro all’anno al lordo delle imposte e gira in Ferrari, abita in una villa di lusso e passa le vacanze su uno yacht da 2 milioni di euro è sicuro che lo beccano; qualcuno un po’ incazzato (c’è una dotta disputa tra i filosofi: il sentimento prevalente negli umani è l’amore o l’invidia?) presto o tardi lo trova; e la denuncia (non la delazione), adeguatamente motivata, parte. E il fisco, invece che affidasi agli studi di settore, avrebbe potuto fare accertamenti mirati. Avrebbe potuto, appunto. Perché nella versione definitiva della manovra anche di questo non c’è più traccia.
Finiamola con il «sistema tributario». Fumo negli occhi, inefficienza programmata, impunità garantita.
Che sono le caratteristiche dell’altro pilastro di un efficiente ed equo prelievo fiscale: il sistema penale-tributario. La prigione per chi evade le imposte e vive a sbafo: manda il figlio all’asilo comunale rubando il posto ad altre famiglie, gode di cure mediche che non ha pagato, di scuole cui non ha contribuito, di strade, di polizia, di trasporti, di tante altre cose che non gli toccano perché non ha versato una quota proporzionale del suo reddito per mantenerle. Anche questo secondo sistema è finto: semplice apparenza, grida manzoniane, non succede nulla di concreto.
Per cominciare, tutti i reati tributari si prescrivono in 7 anni e mezzo, che decorrono dalla data della presentazione delle dichiarazioni Irpef (o Irpeg) e Iva. Ma, come si è detto, il Fisco le esamina (quelle che esamina) al quarto anno; e, se ci sono reati, manda la sua segnalazione alla procura della Repubblica. E, a questo punto, c’è la bellezza di 3 anni e mezzo per fare le indagini, processo in tribunale, processo in appello e Cassazione. Tutto si prescrive già in tribunale; quando va bene in appello. Quindi l’evasore in prigione non ci finisce mai: come il suo illustre maestro, Berlusconi, colpevole ma prescritto.
Poi ci sono le soglie di punibilità. È un meccanismo per il quale, se l’evasione non supera un certo livello, non è reato; niente prigione. Fino all’ultima finanziaria queste soglie erano pari a 77 mila euro per la frode fiscale (il caso più grave) e 103 mila euro per la dichiarazione infedele (il caso meno grave). 77 mila e 103 mila euro di imposta: vuol dire che i redditi non dichiarati erano più del doppio. La nostra legge penale tributaria prevedeva dunque che chi non dichiarava da 150 mila a 240 mila euro di reddito non era perseguibile; non era un delinquente, se la vedesse con il fisco ma niente prigione. Capito perché lavoratori dipendenti e pensionati erano un po’ incazzati e, se avessero conosciuto i redditi di queste brave persone, le avrebbero denunciate subito? Scoccia un po’ sapere che c’è qualcuno che non dichiara un reddito superiore di 5 o 6 volte a quello che guadagni tu e nemmeno va in galera. Adesso con la manovra 2011, le soglie sono state abbassate: 33 mila euro (di imposta, reddito non dichiarato 75 mila euro) per la frode fiscale e 50 mila euro (sempre di imposta, reddito non dichiarato 120 mila euro) per la dichiarazione infedele. Della serie: maneggiare con cura, fragile, non esageriamo, anche gli evasori sono figli di Dio.
E, alla fine (veramente no, ma questo è un articolo, non un libro) c’è la chicca: una dichiarazione dei redditi falsa non è semplicemente una dichiarazione dei redditi falsa; no, c’è quella grave (frode fiscale) e quella meno grave (dichiarazione infedele); per la prima si può arrestare e intercettare, per la seconda no; la prima è punita fino a 6 anni con un minimo di 1 anno e 6 mesi, la seconda da 1 a 3 anni; per la frode si può anche andare in prigione davvero, per la dichiarazione infedele c’è sempre la sospensione condizionale o almeno l’affidamento in prova al servizio sociale. E allora, in cosa si differenziano queste due dichiarazioni false? In niente: la frode c’è quando si usano fatture false (dichiaro costi che non ho mai avuto; ho guadagnato 1.000 ma ho speso 500 – falso; reddito 500); la dichiarazione infedele c’è quando uso una contabilità falsa (ho guadagnato 1.000 ma annoto solo 500, niente scontrini, fatture, ricevute; reddito 500). Non cambia niente; uno si inventa costi finti; l’altro nasconde incassi: risultato finale identico. Allora perché? Semplice: perché il secondo reato, la dichiarazione infedele, è quello tipico degli «altri», del popolo dell’iva. Che non fattura, non emette scontrini, non fa parcelle; che fa, in una parola, il «nero». E vorremo mica mandare in prigione gli «altri»? E poi questi non ci votano più. E sono tra i 5 e i 6 milioni. Ma che, scherziamo? Sì, va bene, il reato c’è (se si superano le soglie di punibilità); ma di prigione non se ne parla.
Così l’evasore dorme tra due guanciali: il sistema tributario non lo preoccupa; e quello penale-tributario nemmeno. Se proprio gli va male (ma ci sono sempre i condoni, gli scudi, gli indulti; uno ogni tre anni fino ad ora) paga quello che avrebbe dovuto pagare per un anno, maggiorato di sanzioni tributarie e parcelle (salate) per commercialisti e avvocati. Ma il suo tesoretto «guadagnato» negli anni passati è a posto; e poi lui è pronto a ricominciare.
Se ne esce? No, ma forse sì; se questa classe politica sparisce dalla faccia della terra; e se i cittadini italiani recuperano il senso dello Stato. E, se sì, come? Con progetti nuovi, riforme radicali, non va salvato niente. Un futuro che deve avere le sue basi nel passato: nella Costituzione, nell’articolo 53. «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Sembra semplice, vero? Ma è violato ogni anno da sessant’anni.
Che cosa si intende per «capacità contributiva»? Quello che si guadagna? Il reddito? Guadagno 5 mila euro al mese e devo pagarci le imposte; con qualche deduzione, qualche detrazione, ma, alla fine, pago le imposte su quello che guadagno. E il mio collega, quello che guadagna come me, paga la stessa imposta; con qualche detrazione o qualche deduzione in più o in meno; ma, sostanzialmente la stessa. Ed è qui che sta la violazione costituzionale, l’ingiustizia inaccettabile; e anche la causa prima dell’evasione fiscale. Perché il mio collega vive da solo, deve comprare cibo e medicinali, pagare il riscaldamento e altre esigenze primarie per lui solo. Ma io sono sposato, ho due figli e un’anziana mamma a carico; e debbo comprare le stesse cose per 5 persone. E, alla fine del mese, il mio collega ha messo forse dei soldi da parte o si è comprato una macchina nuova; e io probabilmente ho fatto debiti e, comunque, non ho più un euro. Ma, più o meno, paghiamo la stessa imposta. E questo è ingiusto. Perché il reddito non è la stessa cosa della capacità contributiva. Il dovere di contribuire comincia quando il cittadino ha adempiuto al dovere di vivere, lui e i suoi familiari; quando ha mandato a scuola i figli, quando ha curato i suoi genitori, quando ha mangiato e si è riscaldato. In altre parole, pagherà le imposte su quello che gli resta dopo aver provveduto ai bisogni primari. Eccola la capacità contributiva. Niente a che fare con il reddito, come si vede.
Naturalmente c’è il problema di non farsi prendere in giro: cosa di più facile che raccontare al fisco, che tanto non controlla, di aver speso 1.000 euro per la casa, altre 1.000 per il cibo e chissà quanto per medicine e scuole eccetera? Come si fa ad essere sicuri che i cittadini non mentano? Non è difficile, basta metterli uno contro l’altro, creare un conflitto di interessi, rendere ognuno il controllore dell’altro. Proviamo con un esempio. Debbo rifare il bagno, chiamo l’idraulico. Alla fine: «3.000 euro; ma se paga in contanti 2.400». Tutti pagano in contanti; perché non dovrebbero? L’iva non la scaricano e la spesa non la detraggono. Risparmiano 600 euro e lo Stato vada in malora. L’idraulico, poi, nemmeno dichiarerà quello che ha ricevuto e non ci pagherà le imposte. Una pacchia per tutti. Ma, se potessi detrarre dal mio reddito i 3 mila euro, le cose sarebbero diverse. «Mi dispiace ma per me significa detrazione di imposta, risparmierò esattamente quello che lei vuole guadagnare. In realtà il suo guadagno lei lo farebbe a mie spese. Non se ne parla, voglio la fattura». Ecco come si fa. Si chiama «detrazione totale». Quello che spendo lo detraggo, non ci pagherò le imposte. Certo, lo devo documentare. E quindi mi farò rilasciare dagli altri, quelli che mi vendono beni o servizi, regolare documento, parcella, ricevuta, fattura, scontrino che sia. E loro non potranno fare «nero» e pagheranno su tutto quello che incassano; anche loro, naturalmente, dopo aver detratto le spese per i bisogni primari.
Questo il principio; poi bisogna attuarlo bene. Identificare i beni e servizi primari: certo non posso pretendere di detrarre la spesa sostenuta per l’acquisto di una Porsche. Garantirsi contro la documentazione falsa: non è azzardato supporre che contribuenti abituati a decenni di evasione si dedicheranno con entusiasmo a costruire fatture e scontrini fasulli; e qui si dovrà ricorrere a una buona organizzazione informatica. Prevedere una repressione penale severissima per chi abusa del sistema. Ma si può fare. Anzi è già stato fatto. In molti paesi si fa così: negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda, in Australia, in Cile. E funziona.
Certo, ci va ancora una cosa; e qui siamo in difficoltà. Ci va la riprovazione sociale per l’evasore fiscale. Negli Stati Uniti la ragione per la quale si mette in prigione chi evade le imposte è: «Hanno mentito al popolo americano». E, a parte la galera, negli Usa l’evasore perde lo status sociale: lo cacciano dal Country Club; la moglie non è più invitata alle gare di torta alla frutta; e gli amici non vanno più nel suo giardino il sabato per il barbecue. Nel nostro paese ci si preoccupa per la «delazione» dell’evasione fiscale; e si continua a votare per un presidente del Consiglio che ha dichiarato: «Certo che avevo 64 società offshore; mi servivano per non pagare le tasse». La vedo dura.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/cosi-si-puo-vincere-la-lotta-allevasione/
Wsj: 'Merkel silurò Berlusconi'. Al Colle: 'Euro è a rischio'.
Secondo il Wall Street Journal, la cancelliera avrebbe chiamato Napolitano esprimendo timori.
ROMA - Un'Italia paralizzata di fronte alla crisi, non in grado di affrontare le riforme chieste dalla Banca centrale europea a partire dalle pensioni mettendo a rischio l'euro. In questo scenario - secondo una ricostruzione del Wall Street Journal - la cancelliera tedesca Angela Merkel chiamo' il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo scorso ottobre, dicendosi ''preoccupata'' del fatto che il premier Silvio Berlusconi non riuscisse a fare le riforme necessario: di li' a poco la maggioranza sarebbe venuta meno e il Quirinale sarebbe stato costretto a trovarne un'altra per il bene delle riforme.
In un'inchiesta a puntate sull'anno nero dell'euro, dopo aver affrontato ieri le divisioni europee sulla Grecia, il giornale statunitense oggi punta i riflettori sull'Italia: ''Fin dall'alba della crisi, a fine 2009, i leader d'Europa sapevano che avrebbero dovuto evitare una fuga dai titoli di Stato italiani''. Dopo aver voluto a tutti i costi imporre ai privati perdite sul debito greco, Berlino ha assistito al contagio di economie ben piu' grandi e difficili da sostenere: ''La politica italiana aveva inquietato i mercati ulteriormente, con Berlusconi in lite con il suo ministro dell'Economia Giulio Tremonti'', scrive il Wsj. Ecco allora intervenire l'Eurotower con la sua lettera 'segreta' di agosto mentre - ricostruisce il giornale - ''Trichet e Draghi telefonavano a Berlusconi chiedendogli di onorare le promesse''. Lo stallo politico e il trascinarsi della situazione, con le correzioni di bilancio giudicate insufficienti dai mercati, avrebbero nel giro di pochi mesi portato alla telefonata Berlino-Roma: ''L'incapacita' di Berlusconi di rianimare l'economia italiana ora metteva in pericolo tutta Europa.
Cosi' Merkel si decise a chiamare Napolitano'', scrive il Wsj, apprezzando le misure fatte fino ad allora ma chiedendo ''riforme piu' aggressive'', dicendosi ''preoccupata che Berlusconi non fosse forte abbastanza per farle'' e ringraziando Napolitano per fare quanto in suo potere ''per promuovere le riforme''. Il presidente della Repubblica, secondo Wsj, avrebbe detto che ''non era rassicurante che Berlusconi avesse ricevuto la fiducia del Parlamento con un solo voto di scarto''. Fu cosi', secondo il giornale americano, che Napolitano ''comincio' a verificare il sostegno a un nuovo governo fra i partiti politici se Berlusconi non fosse riuscito a soddisfare l'Europa ne i mercati'': ''la pressione tedesca aiuto' la formazione di un nuovo governo attento alle riforme''.
Al successivo vertice di Cannes Berlusconi si sarebbe sentito dire, secondo il giornale newyorchese, che ''Italia stava per perdere l'accesso ai mercati obbligazionari''. Poche ore dopo, l'8 novembre, Berlusconi avrebbe perso la sua maggioranza aprendo la strada alle dimissioni e al governo Monti.
QUIRINALE SMENTISCE WSJ, DA MERKEL NESSUNA INGERENZA - Il Quirinale smentisce la ricostruzione del WSJ su presunte pressioni da parte di Angela Merkel su Napolitano per dare all'Italia un nuovo governo. Nella telefonata, si legge in una nota, non venne posta "alcuna questione di politica interna italiana, né tanto meno avanzò alcuna richiesta di cambiare il premier". "In riferimento ad alcune indiscrezioni di stampa, internazionale e italiana - si legge nella nota del Quirinale - si precisa che nella telefonata, niente affatto segreta, del 20 ottobre 2011, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Cancelliere della Repubblica federale tedesca, Angela Merkel, non pose alcuna questione di politica interna italiana, né tanto meno avanzò alcuna richiesta di 'cambiare il premier'. La conversazione - viene sottolineato - ebbe per oggetto soltanto le misure prese e da prendere per la riduzione del deficit, in difesa dell'Euro e in materia di riforme strutturali".
CICCHITTO: MERKEL-SARKOZY ERANO CONTRO ITALIA - "Rispetto all'articolo del Wall Steet Journal, in attesa che il Quirinale faccia le precisazioni che ritiene più opportune, ci sembra che non si possa fare a meno di dire due cose: che l'atteggiamento di ostilità della Merkel e di Sarkozy prima che contro Berlusconi, era contro l'Italia - e ciò era evidente indipendentemente dalla veridicità o meno di queste rivelazioni - in seguito ai divergenti interessi fra le varie nazioni che purtroppo ieri e oggi caratterizzano la situazione europea. In secondo luogo, è anche evidente che queste pagine del Wall Street Journal hanno un preciso scopo: quello di contribuire alla destabilizzazione dell'equilibrio europeo visto anche lo scontro di interessi che c'é fra l'area Usa e l'area europea e l'ostilità che da sempre potenti forze statunitensi hanno avuto nei confronti dell'euro" Lo dice il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto. Aggiunge l'esponente del Pdl: "Se l'Italia nel suo complesso, al di là delle differenze fra le opposte posizioni politiche, non acquisisce piena consapevolezza che da tempo ci troviamo a fare i conti con una autentica guerra economica finanziaria fra aree monetarie, e per ciò che riguarda l'euro all'interno dell'Europa, sarà molto difficile difendere gli interessi reali del nostro Paese. Proprio per un assoluto senso di responsabilità per gli interessi dell'Italia, della tenuta dei nostri titoli di stato, dei risparmi degli italiani, il Presidente Berlusconi da novembre ad oggi ha fatto le scelte politiche assai difficili e impegnative che sono davanti a tutti".
GASPARRI: INVENZIONI, NAPOLITANO NON E' RE TRAVICELLO - "Credo che sia un'invenzione del Wall street journal. Del resto Napolitano avrebbe attaccato il telefono in faccia a un capo del governo che gli avesse chiesto una cosa del genere". Così il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri commenta le rivelazioni del Wall Street Journal sulla presunta telefonata della Merkel a Napolitano. "La crisi italiana si è svolta sotto gli occhi di tutti, non posso credere che sia vero. La Germania nel passato ha già interferito pesantemente con le altre nazioni e ha imparato sulla propria pelle che cosa significa; ma la Merkel non è Hitler, e Napolitano non è un re travicello che si fa imporre un governo collaborazionista, come quello di Quisling in Norvegia all'epoca del nazismo".
Movimento 5 stelle, un anno di successi. Ma il 2012 rischia di essere un salto nel buio. - di Giulia Zaccariello
L'eventuale candidatura in Parlamento non entusiasma tutti. Anzi. C'è che dice apertamente che sarebbe il caso di non farlo. E poi c'è da chiarire il ruolo di Grillo. Insomma, da gennaio potrebbe presentarsi un bivio. Cruciale.
Per alcuni un salto nel buio. Per altri larealizzazione di un sogno. Il Movimento cinque stelle si prepara a diventare grande, a passare dalle aule dei consigli comunali e regionali a quelle del Parlamento, tra lo scetticismo di alcuni e l’entusiasmo di altri. Dopo i successi alle ultime amministrative, il 2012 potrebbe essere l’anno della consacrazione politica. Un punto di non ritorno che fa paura agli avversari, ma anche agli stessi protagonisti, attivisti ed eletti. Perché sulla via che conduce a Roma tutto diventa più complicato: bisogna definire le posizioni su diversi temi d’interesse nazionale, chiarire le regole organizzative, il ruolo di Beppe Grillo, l’influenza dell’uomo ombra del Movimento Gian Roberto Casaleggio, e soprattutto capire come scegliere le persone giuste per evitare di assomigliare a “quegli altri”, i partiti tradizionali. Una serie di mosse che va fatta senza apparati e solide strutture alle spalle. Insomma, non proprio un gioco da ragazzi.
Dalle prime liste civiche di strada ne è stata fatta parecchia e piuttosto in fretta: 28 mila voti nel 2008, 390 mila nel 2010 (l’1,7%), consiglieri più che raddoppiati e oltre 100 mila iscritti nel 2011. Un balzo in avanti che preoccupa più di un avversario, a partire dal Partito democratico che più volte ha puntato il dito contro i seguaci di Grillo, accusandoli di essere la carta vincente del centrodestra.
L’ipotesi di una candidatura alle elezioni parlamentari era nell’aria da tempo, ma l’ufficializzazione è arrivata da Grillo meno di due mesi fa. L’11 novembre, con un governo Berlusconi ormai agonizzante, è lui stesso ad annunciare sul suo blog che il momento è propizio per provare ad approdare a Montecitorio. “Il MoVimento 5 Stelle parteciperà alle prossime elezioni politiche, che si terranno con tutta probabilità nel 2013, con la votazione diretta dei candidati da parte degli iscritti sul portale”. I sondaggi gli danno ragione. L’istituto Ipsos, che a fine dicembre ha analizzato le intenzioni di voto, dà il Movimento in crescita al 4,4%. E non è escluso che la cifra possa salire. I detrattori la chiamano demagogia e antipolitica, ma resta il fatto che gli eletti del Movimento in questi mesi hanno fatto della discussione in rete e della partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni in materie come acqua pubblica e costi della politica i loro punti di forza, gettando le radici di un consenso che domani potrebbe tradursi in un trionfo elettorale.
Crocevia di questo percorso è Bologna, la città che 2007 radunò oltre 50mila persone per il V-Day di Beppe Grillo. Partì da lì l’avventura politica di un Movimento di semplici cittadini, che ben presto avrebbe trovato nella “rossa Emilia” un successo senza precedenti. L’ultimo in ordine cronologico quello di Massimo Bugani, eletto consigliere di Bologna. “Da fuori ci vedono come vincenti, e c’è il rischio di attrarre persone che hanno come unico scopo quello di far carriera politica”. Trentatré anni, fotografo e prossimo al matrimonio, rientra tra coloro che immaginano il futuro del Movimento come un percorso a ostacoli. Per lui uno dei nodi più grossi da risolvere rimane la selezione dei candidati. “Fortunatamente non si è andati al voto anticipato e abbiamo ancora un anno per prepararci. Ma non sarà facile. Bisogna riuscire a mantenere vivo quello spirito che finora ha animato la nostra politica nei territori”. Quindi nessun leader e nessuna gerarchia: “Le liste dovranno essere composte da persone sconosciute”. Proprio come era lui qualche mese fa, prima di quelle amministrative che gli hanno fatto superare il 9%: “Essere inesperti non vuol dire essere incapaci. Se si viene meno a questo principio è finita”.
La definizione dei filtri per gli aspiranti parlamentari preoccupa non solo Bugani. È senza dubbio uno degli argomenti che più agita il dibattito interno e uno dei primi scogli da superare. Eppure alcuni criteri esistono già e sono quelli ribaditi da Beppe Grillo in un comunicato pubblicato a novembre sul suo blog: i candidati devono essere incensurati, non iscritti a partiti, non devono aver svolto due mandati e non devono essere in carica come consiglieri. L’idea è quella di organizzare delle primarie online, ossia votazioni sul portale del Movimento riservate ai soli iscritti.
Le frizioni sorgono però di fronte alle diverse interpretazioni. Ad esempio, c’è chi preferisce tradurre i due mandati nel limite dei 10 anni complessivi (aprendo quindi la strada anche a chi si è dimesso dopo pochi mesi) e chi invece non ammette deroghe di alcun tipo. La discussione dunque è complicata, e se di certo è esagerato parlare di correnti o di spaccature, le poche regole dettate da Grillo potrebbero non essere sufficienti a mettere d’accordo un movimento che ormai raduna migliaia di attivisti in tutta Italia. Serpeggia tra le file la paura che, di fronte alla difficoltà di arrivare a una posizione comune, si possa cedere a metodi da “vecchia politica”, estromettendo la base dalle decisioni.
“L’importante è che le persone siano adeguate al compito, per evitare di delegittimare l’intero Movimento. Sulle procedure poi si può discutere. Oggi non c’è ancora un vero e proprio metodo per l’individuazione”. Giovanni Favia, classe 1981, è consigliere della regione dell’Emilia Romagna. Temuto e talvolta odiato dagli avversari (in aula qualcuno lo ha definito “lingua biforcuta”) è stato il recordman di voti del Movimento: 3,3 % alle comunali per Bologna e 7% tondi alle regionali del 2010. “E oggi i sondaggi ci danno al 12% in Emilia Romagna. È ovvio che cominciamo a far paura. Riuscire a entrare in Parlamento vorrebbe dire riuscire a sconvolgere il Paese. Significherebbe fare la rivoluzione, anche se quelli già eletti, nel loro piccolo, provano a farla ogni giorno”. Ma nonostante il successo elettorale e mediatico e l’esperienza maturata nelle aule dei consigli, Favia assicura di essere fuori dai giochi: “Nel futuro mi vedo solo come un imprenditore agricolo”.
Non fa mistero delle proprie ambizioni invece Roberto Fico, ex sfidante di De Magistris per la poltrona di sindaco di Napoli: “Mi piacerebbe sedere a Roma come mi sarebbe piaciuto entrare in Consiglio comunale”. Trentasei anni, nel 2005 fondatore del primo meetup della sua città, candidato alle regionali e poi alle comunali, gli piace definire il Movimento “una sorta di Nouvelle vague” che cambierà la società. “La sua vittoria l’ha già ottenuta. Il processo è innescato, dobbiamo solo dargli il tempo di fare il suo percorso”.
Il Movimento però potrebbe incontrare altri ostacoli una volta chiamato a decidere su questioni di più ampio respiro rispetto a quelle affrontate fino ad oggi. Politica economica, del lavoro, laicità e leggi sull’immigrazione sono tutti campi che escono dalle sfere d’azione tracciate dal programma seguito finora, concentrato più che altro su problemi legati all’ambiente (energie rinnovabili, mobilità sostenibile), alla trasparenza e al controllo delle attività di governo. Anche chi non sembra intimorito ammette la necessità di una discussione per trovare punti d’incontro. “Noi tutti percepiamo che c’è un livello di discussione più importante di quello locale – commenta Davide Bono, consigliere regionale in Piemonte – su alcuni argomenti non ci sono dubbi, su altri si arriverà a una posizione comune grazie al dibattito in rete”.
E prima di approdare a Montecitorio bisognerà anche capire quale sarà il ruolo del comico genovese, e, punto ancora più delicato, il peso di Gian Roberto Casaleggio, esperto di social media, e tra i fondatori della Casaleggio associati, mente della comunicazione online di Grillo. È stato lui a far cambiare idea a Grillo sull’utilità della rete (come dimenticare i computer presi a colpi di ascia alla fine degli spettacoli). Ed è la sua azienda, nata nel 2004 a Milano, a curare le strategie comunicative e le pubblicazioni del comico. Un sodalizio, quello tra Grillo e Casaleggio, nato nei primi anni 2000, che nel tempo si è fatto via via sempre più stretto. Fino all’ultima fatica editoriale realizzata a quattro mani: un libro sulla forza della rete contro i partiti intitolato “Siamo in guerra”. “Si è raccontato di tutto intorno a lui. La realtà è che nessuno di noi ha mai dovuto rispondere di qualcosa a Casaleggio” vuole precisare il napoletano Fico.
Il comico, seppur a modo suo, ha già fatto adombrare un possibile abbandono (“Se questo movimento va in Parlamento, io devo espatriare. Faccio la fine di Pannella, mi diranno di tutto” erano state le sue parole in un’intervista di qualche settimana fa a La7) e nel Movimento c’è chi assicura che non sia più disposto a sopportare la pressione di questi ultimi anni. Resta da capire se il Movimento si rivelerà una realtà in grado di camminare con le proprie gambe, e pronta a sopportare l’eventuale ritiro dalla scena mediatica e politica del suo ispiratore.
Dalle prime liste civiche di strada ne è stata fatta parecchia e piuttosto in fretta: 28 mila voti nel 2008, 390 mila nel 2010 (l’1,7%), consiglieri più che raddoppiati e oltre 100 mila iscritti nel 2011. Un balzo in avanti che preoccupa più di un avversario, a partire dal Partito democratico che più volte ha puntato il dito contro i seguaci di Grillo, accusandoli di essere la carta vincente del centrodestra.
L’ipotesi di una candidatura alle elezioni parlamentari era nell’aria da tempo, ma l’ufficializzazione è arrivata da Grillo meno di due mesi fa. L’11 novembre, con un governo Berlusconi ormai agonizzante, è lui stesso ad annunciare sul suo blog che il momento è propizio per provare ad approdare a Montecitorio. “Il MoVimento 5 Stelle parteciperà alle prossime elezioni politiche, che si terranno con tutta probabilità nel 2013, con la votazione diretta dei candidati da parte degli iscritti sul portale”. I sondaggi gli danno ragione. L’istituto Ipsos, che a fine dicembre ha analizzato le intenzioni di voto, dà il Movimento in crescita al 4,4%. E non è escluso che la cifra possa salire. I detrattori la chiamano demagogia e antipolitica, ma resta il fatto che gli eletti del Movimento in questi mesi hanno fatto della discussione in rete e della partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni in materie come acqua pubblica e costi della politica i loro punti di forza, gettando le radici di un consenso che domani potrebbe tradursi in un trionfo elettorale.
Crocevia di questo percorso è Bologna, la città che 2007 radunò oltre 50mila persone per il V-Day di Beppe Grillo. Partì da lì l’avventura politica di un Movimento di semplici cittadini, che ben presto avrebbe trovato nella “rossa Emilia” un successo senza precedenti. L’ultimo in ordine cronologico quello di Massimo Bugani, eletto consigliere di Bologna. “Da fuori ci vedono come vincenti, e c’è il rischio di attrarre persone che hanno come unico scopo quello di far carriera politica”. Trentatré anni, fotografo e prossimo al matrimonio, rientra tra coloro che immaginano il futuro del Movimento come un percorso a ostacoli. Per lui uno dei nodi più grossi da risolvere rimane la selezione dei candidati. “Fortunatamente non si è andati al voto anticipato e abbiamo ancora un anno per prepararci. Ma non sarà facile. Bisogna riuscire a mantenere vivo quello spirito che finora ha animato la nostra politica nei territori”. Quindi nessun leader e nessuna gerarchia: “Le liste dovranno essere composte da persone sconosciute”. Proprio come era lui qualche mese fa, prima di quelle amministrative che gli hanno fatto superare il 9%: “Essere inesperti non vuol dire essere incapaci. Se si viene meno a questo principio è finita”.
La definizione dei filtri per gli aspiranti parlamentari preoccupa non solo Bugani. È senza dubbio uno degli argomenti che più agita il dibattito interno e uno dei primi scogli da superare. Eppure alcuni criteri esistono già e sono quelli ribaditi da Beppe Grillo in un comunicato pubblicato a novembre sul suo blog: i candidati devono essere incensurati, non iscritti a partiti, non devono aver svolto due mandati e non devono essere in carica come consiglieri. L’idea è quella di organizzare delle primarie online, ossia votazioni sul portale del Movimento riservate ai soli iscritti.
Le frizioni sorgono però di fronte alle diverse interpretazioni. Ad esempio, c’è chi preferisce tradurre i due mandati nel limite dei 10 anni complessivi (aprendo quindi la strada anche a chi si è dimesso dopo pochi mesi) e chi invece non ammette deroghe di alcun tipo. La discussione dunque è complicata, e se di certo è esagerato parlare di correnti o di spaccature, le poche regole dettate da Grillo potrebbero non essere sufficienti a mettere d’accordo un movimento che ormai raduna migliaia di attivisti in tutta Italia. Serpeggia tra le file la paura che, di fronte alla difficoltà di arrivare a una posizione comune, si possa cedere a metodi da “vecchia politica”, estromettendo la base dalle decisioni.
“L’importante è che le persone siano adeguate al compito, per evitare di delegittimare l’intero Movimento. Sulle procedure poi si può discutere. Oggi non c’è ancora un vero e proprio metodo per l’individuazione”. Giovanni Favia, classe 1981, è consigliere della regione dell’Emilia Romagna. Temuto e talvolta odiato dagli avversari (in aula qualcuno lo ha definito “lingua biforcuta”) è stato il recordman di voti del Movimento: 3,3 % alle comunali per Bologna e 7% tondi alle regionali del 2010. “E oggi i sondaggi ci danno al 12% in Emilia Romagna. È ovvio che cominciamo a far paura. Riuscire a entrare in Parlamento vorrebbe dire riuscire a sconvolgere il Paese. Significherebbe fare la rivoluzione, anche se quelli già eletti, nel loro piccolo, provano a farla ogni giorno”. Ma nonostante il successo elettorale e mediatico e l’esperienza maturata nelle aule dei consigli, Favia assicura di essere fuori dai giochi: “Nel futuro mi vedo solo come un imprenditore agricolo”.
Non fa mistero delle proprie ambizioni invece Roberto Fico, ex sfidante di De Magistris per la poltrona di sindaco di Napoli: “Mi piacerebbe sedere a Roma come mi sarebbe piaciuto entrare in Consiglio comunale”. Trentasei anni, nel 2005 fondatore del primo meetup della sua città, candidato alle regionali e poi alle comunali, gli piace definire il Movimento “una sorta di Nouvelle vague” che cambierà la società. “La sua vittoria l’ha già ottenuta. Il processo è innescato, dobbiamo solo dargli il tempo di fare il suo percorso”.
Il Movimento però potrebbe incontrare altri ostacoli una volta chiamato a decidere su questioni di più ampio respiro rispetto a quelle affrontate fino ad oggi. Politica economica, del lavoro, laicità e leggi sull’immigrazione sono tutti campi che escono dalle sfere d’azione tracciate dal programma seguito finora, concentrato più che altro su problemi legati all’ambiente (energie rinnovabili, mobilità sostenibile), alla trasparenza e al controllo delle attività di governo. Anche chi non sembra intimorito ammette la necessità di una discussione per trovare punti d’incontro. “Noi tutti percepiamo che c’è un livello di discussione più importante di quello locale – commenta Davide Bono, consigliere regionale in Piemonte – su alcuni argomenti non ci sono dubbi, su altri si arriverà a una posizione comune grazie al dibattito in rete”.
E prima di approdare a Montecitorio bisognerà anche capire quale sarà il ruolo del comico genovese, e, punto ancora più delicato, il peso di Gian Roberto Casaleggio, esperto di social media, e tra i fondatori della Casaleggio associati, mente della comunicazione online di Grillo. È stato lui a far cambiare idea a Grillo sull’utilità della rete (come dimenticare i computer presi a colpi di ascia alla fine degli spettacoli). Ed è la sua azienda, nata nel 2004 a Milano, a curare le strategie comunicative e le pubblicazioni del comico. Un sodalizio, quello tra Grillo e Casaleggio, nato nei primi anni 2000, che nel tempo si è fatto via via sempre più stretto. Fino all’ultima fatica editoriale realizzata a quattro mani: un libro sulla forza della rete contro i partiti intitolato “Siamo in guerra”. “Si è raccontato di tutto intorno a lui. La realtà è che nessuno di noi ha mai dovuto rispondere di qualcosa a Casaleggio” vuole precisare il napoletano Fico.
Il comico, seppur a modo suo, ha già fatto adombrare un possibile abbandono (“Se questo movimento va in Parlamento, io devo espatriare. Faccio la fine di Pannella, mi diranno di tutto” erano state le sue parole in un’intervista di qualche settimana fa a La7) e nel Movimento c’è chi assicura che non sia più disposto a sopportare la pressione di questi ultimi anni. Resta da capire se il Movimento si rivelerà una realtà in grado di camminare con le proprie gambe, e pronta a sopportare l’eventuale ritiro dalla scena mediatica e politica del suo ispiratore.
Nullatenenti in Porsche e commercianti in jet Il “bestiario” 2011 dell’evasione fiscale. - di Thomas Mackinson
Dall'universitario esentato dalla retta, ma sempre a bordo di un'auto di lusso, allo chef milionario con ristorante senza licenza. Dallo scultore del toro di Wall Street al campione di ciclismo alla pornostar. Fino ai soliti noti.
Le norme sulla privacy bancaria del governo Monti (forse) daranno un’ulteriore arma nelle mani della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate per combattere il fenomeno e stanare nuovi campioni dello sport nazionale. Nel frattempo, chi è rimasto fermo a Valentino Rossi & co troverà ottimi spunti per aggiornare il file grazie al 2011, anno straordinario di italiche evasioni. Che non può prescindere da Silvio Berlusconi, il quale da capo del governo invocava il carcere per gli evasori oltre i 3 milioni di euro e da contribuente ha cercato di evitare le accuse di frode fiscale per 16 (milioni). Non stupisce allora che tra i governati, anche quest’anno, si sia registrato un campionario eccellente di evasori seriali, smaccati nell’impunità al limite dell’immaginabile.
Tra i seriali organizzati del 2011 hanno tenuto banco per mesi le ‘liste’ di clienti di contabili e commercialisti scoperti quasi per caso dai militari delle Fiamme Gialle. Storie di curatori di beni molto solerti nel dirottare le ricchezze verso paradisi fiscali e filiali svizzere, la ‘lista Pessina‘ e la ‘lista Falciani‘. La prima è relativa ai clienti di un avvocato svizzero che tra i 500 clienti e presunti evasori annovera anche la cantante Marcella Bella cui è stata contestata un’evasione fiscale da 2,5 milioni. La seconda, scoperta a ottobre, ha ben 7mila nominativi e ha portato all’accertamento di redditi non dichiarati per 570 milioni di euro e un’Iva evasa di 2,6. Ma più di tutto sorprende il campionario dei capitani coraggiosi dell’evasione, di quelli che per proprio conto e quasi per caso si sono dimenticati di essere ricchi sfondati. Se da dicembre si risale l’anno e si passano al setaccio le cronache, viene fuori davvero di tutto, uno spaccato sconvolgente del fenomeno con tutte le declinazioni possibili, le categorie professionali, economiche, umane. Roba da farci un dizionario, anzi, un “bestiario” come si usava nel basso Medioevo. Ci sono i campioni come Davide Rebellin, accusato di avere una residenza fittizia nel Principato di Monaco utile a distrarre dal Fisco 2,5 milioni e i campioncini del calcio, pagati in nero a 15mila euro al mese. Ci sono amministratori e politici di qualsiasi livello di governo. E ancora industriali, professionisti, ristoratori di fama internazionale e perfino pornostar. Un’evasione generalizzata e senza senza età. Ci sono gli anziani con l’hobby dell’aereo di lusso che non atterra mai sul 730 e gli studenti universitari che chiedevano rette diminuite per fasce di reddito da fame ma all’ateneo andavano in Porsche.
COSI’ FAN TUTTI: IL BESTIARIO DEGLI EVASORI 2011
L’ultimo caso eccellente del 2011 (forse) è quello del mediatore finanziario di 44 anni radiato dalla Banca d’Italia eppure attivissimo. Per il fisco era nullatenente, ma nella vita girava con Porsche (due a disposizione) e moto sportive e viveva tra una tenuta di lusso con piscina, palestra e spa a Ragusa e un super appartamento nel centro di Milano da 50mila euro l’anno di affitto. Optional, un motoscafo Ferretti 72 da un milione di euro con annesso personale di bordo, tutto ovviamente intestato a società di comodo. E’ stato pizzicato tre giorni prima di Natale dalla Guardia di finanza di Monza con la quale ora ha una pendenza da 2 milioni di euro. Tanto avrebbe eluso e tanto avrebbe portato in Svizzera attraverso complesse operazioni finanziarie alla luce nel del sole, nel senso che simulavano investimenti nel settore delle energie rinnovabili che non sono mai esistite.
Nella top ten delle evasioni eclatanti ancora spicca la vicenda della coppia di 65enni di Verona che dichiarava poco più di un pacchetto di sigarette ma nascondeva una fortuna da 200 milioni di euro. Mica soldi sudati, come rivendicano gli imprenditori-evasori, quelli che per lenire la colpa la buttano in politica. Quei soldi sono frutto della vendita di un terreno grande come 200 campi da calcio sul litorale tre Eraclea e Jesolo divenuto improvvisamente edificabile. I frutti dorati della terra sono stati quindi le plusvalenze della vendita, opportunamente occultate al fisco attraverso il meccanismo delle scatole societarie. L’ultima portava il tesoro in caldi paradisi fiscali. Dagli accertamenti, è risultato che l’uomo era evasore totale del 1997 al 2008 mentre nel 2009 e 2010 aveva dichiarato 4 e 5 euro. Un pacchetto di sigarette, appunto.
In realtà, dietro alla vicenda c’è un piccolo romanzo di formazione criminale, che vede un ex commerciante di bestiame, Giovanni Montresor, diventare un possidente, tenutario e facoltoso imprenditore tra terreni, centri commerciali e hotel di lusso sul litorale. Sarebbe stato il primo contribuente del Comune di Bussolengo se non avesse avuto il vizietto di occultare le sue ricchezze al fisco. Del resto, da quanto si è appreso, avrebbe mondato il peccato per altre vie, provvedendo in proprio a restaurare il tetto della chiesa del Cristo Risorto. Un benefattore, insomma. E come lui devono essere tanti se il Nord-Est detiene il primato nazionale del recupero dell’evasione che la Cgia di Mestre segnala in 232 milioni in dieci anni su una base di 350 evasori fiscali. Insomma non sarà un caso se proprio nel Vicentino, ad Arzignano, si è arrivati a proporre un “monumento all’evasore” davanti al Duomo con tanto di imprenditore incatenato dal Fisco persecutore (ci ha messo una pezza la Questura vietandolo).
STUDENTI E PENSIONATI: L’EVASIONE SENZA ETA’
L’età dell’evasione non ha età. A ottobre un 71enne di Bassano del Grappa che fino al giorno prima risultava povero in canna è risultato felice possessore di un aereo di lusso. Si era pensato a un colpo di testa, una passione senile, ma le indagini hanno accertato che il velivolo era solo uno dei 16 ultraleggeri in dotazione che facevano parte di un giro di contrabbando di aeromobili, tra San Marino e Fidenza, che coinvolgeva 31 persone.
Non che i “giovani” siano da meno. Come quello studente dell’Università di Padova così povero da ottenere l’esenzione dalle rette universitarie, ma non abbastanza da rinunciare alla Porsche per andare a lezione. A denunciarlo agli 007 del fisco sono stati proprio i compagni di corso, forse irritati da quell’evasione fatta sulle spalle di chi di soldi per studiare non ne ha davvero. A Treviso un ventenne senza neppure la dichiarazione dei redditi è risultato evasore totale per 6 milioni di euro. Emetteva fatture false.
Poi ci sono insospettabili campioni nazionali, meno famosi dei calciatori ma in qualche modo ambasciatori del made in Italy che nel mondo esportano vizi nostrani e italiche virtù. Sul New York Times si può ancora leggere una recensione a cinque stelle del ristorante “Laguna da Toni” di Torcello, un locale caratteristico della laguna veneta ricavato in un capanno di pescatori e felicemente frequentato da clienti di tutto il mondo. Mentre i giornalisti americani davano giustamente notizia dei manicaretti del titolare 66enne trevigiano, la Dgf di Mestre ne portava altre: il locale impalmato sulle colonne più celebri dell’informazione americana era completamente al nero, compresa la cuoca. Non aveva neppure le licenze. Particolare che avrebbe permesso al ristoratore di mettere da parte mezzo milione di euro senza fare i conti col Fisco.
Chiude la girandola la pornostar Jessica Rizzo che insieme al marito Marco Toto e ad altri (l’ex presidente del Pescara calcio e dirigente dell’Under 21, Vincenzo Marinelli, la consigliera provinciale dell’Idv Antonella Allegrino, che si autosospese dal partito, e il consulente tributario pescarese, Luca Del Federico) avrebbe messo in piedi un’evasione per 16 milioni di euro di capitali occultati tramite il sistema dei trust all’estero.
giovedì 29 dicembre 2011
La Favola di Democrazia. - DI GIANPAOLO MARCUCCI
C'era una volta una città chiamata Democrazia. All'interno delle sue mura tutti i cittadini avevano l'illusione di poter contare. “Siete a Democrazia, la migliore città che esista, il popolo è sovrano e ognuno col proprio voto può partecipare attivamente alla vita politica della città.” Queste parole erano scritte su tutti i muri e in tutte le case.
A Democrazia vivevano due categorie di persone: i governanti e i governati. I governanti erano un gruppo ristretto di uomini che si occupava di gestire la città, i governati erano invece numerosissimi e passavano le loro giornate a lavorare e a distrarsi davanti a bizzarre scatole scintillanti. Una tacita regola da tutti conosciuta e seguita voleva che i governati, troppo impegnati per potersi occupare delle cose di tutti, delegassero i governanti a svolgere le attività di governo. Tale meccanismo rendeva tutti contenti, i governanti che erano molto ricchi e i governati che seppur poveri non dovevano occuparsi delle noiose attività politiche. Sotto tale sistema, per anni Democrazia godette di ottima salute. Mano a mano che il tempo passava, tuttavia, i governanti si accorsero che nessuno chiedeva notizie riguardo al loro operato.Ogni cinque anni infatti i cittadini si limitavano a scegliere chi doveva governarli, senza poi curarsi di cosa essi decidessero di fare. Così riuniti in assemblea, con fare cortese, cominciarono a stipulare degli accordi tra loro e decretarono che i privilegi di cui essi stessi dovevano godere, sarebbero dovuti essere decisamente maggiori rispetto a quelli già previsti; a pagare questo aumento, dovevano naturalmente essere i governati in quanto esenti dall'occuparsi delle decisioni politiche. I Governati dovettero così lavorare di più per poter pagare nuove tasse. In cambio ottennero più ore di luce all'interno delle loro scatole. Ogni anno a Democrazia i privilegi dei governanti aumentavano e insieme ad essi le ore di lavoro dei governati.L'incremento era tuttavia così graduale che nessuno se ne accorse, e tutto sembrò sempre andare per il meglio.
Un bel giorno però, alle porte di Democrazia, bussò un misterioso cavaliere bianco. Nessuno aveva mai visto tale figura in vita sua, poteva essere pericoloso, ma i governanti, troppo impegnati a godere dei privilegi concessisi, non si curarono dell'accaduto e il cavaliere entrò senza difficoltà. All'inizio i cittadini di Democrazia guardavano con sospetto tale individuo. Lo osservavano solo da lontano, ne erano spaventati; in fondo, era un cavaliere misterioso. Ma un pomeriggio, in occasione della più importante festa della città, quando tutti i cittadini erano raccolti nella grande piazza per cantare l'inno a Democrazia, questi fece il suo ingresso sul palco. Stette fermo per un attimo tra lo stupore della folla, poi scese da cavallo, si voltò verso il pubblico incuriosito e disse: "Cittadini di Democrazia, il mio nome è Rete, sono un cavaliere e sono qui per farvi capire che vi stanno ingannando! Vi dicono che contate, ma in realtà non siete più che polli d'allevamento! I governanti se ne stanno nei loro palazzi ad ingozzarsi mentre voi sgobbate tutto il giorno e l'unica cosa che potete fare è far finta di scegliere ogni 5 anni il vostro Re!
Vi fanno credere che non siete in grado di occuparvi della politica, vi tolgono il tempo e la voglia e vi spingono a delegare qualcuno che lo faccia al posto vostro! E chi lo dice che questo qualcuno lo farà onestamente? Che farà i vostri interessi e non solo i suoi? Nessuno, e come se non bastasse, una volta delegato, non potrete nemmeno lamentarvi se le cose non vanno, perché l'avete scelto voi! Se si vuole cambiare qualcosa bisogna guardare al meccanismo, non al singolo ingranaggio. La delega è uno strumento insidioso, tanto comodo quanto dannoso. Per aspirare ad una città che sia più equa e trasparente, che permetta davvero a tutti di dire la propria, di contare, di proporre, bisogna cambiare approccio! Spegnete quelle scatole scintillanti e cominciate ad occuparvi direttamente di quello che accade fuori dalla vostra finestra, in prima persona, perché se non lo fate voi, non lo farà nessun altro. "
Appena il cavaliere finì di parlare i governanti si guardarono tra di loro e consci d'esser stati smascherati, provarono impauriti ad ordinare l'arresto del cavaliere. Ormai però qualcosa era accaduto, negli occhi e nei cuori dei cittadini era scattata una molla da troppo tempo incastrata negli ingranaggi della convenzione. Il cavaliere aveva risvegliato Democrazia! Tutto d'un colpo i governati si resero conto che i governanti erano uomini uguali a loro, senza niente di più, e che per anni li avevano sfruttati per godere di una vita agiata. Così fecero un cordone umano intorno al cavaliere e lo portarono al sicuro. Subito dopo si riunirono in assemblea, tutti quanti, per la prima volta, e decisero di togliere tutti i privilegi e tutti i poteri ai governanti.Seguendo Rete, eletto promotore della rivoluzione, decretarono che da quel momento ogni cittadino avrebbe contato come uno, che non ci sarebbero più stati governanti e governati e che ogni forma di delega sarebbe stata bandita.
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