lunedì 9 luglio 2012

Il golpe inglese: neutralizzare l’Italia, da Mattei a Moro.


«Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti». Lo afferma l’editore Chiarelettere presentando “Il golpe inglese”, libro-inchiesta di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella che illumina imbarazzanti retroscena sull’influenza britannica nella storia del Belpaese, fin dalla nascita dello Stato unitario nel 1861. Tra le ombre più inquietanti, la tragica fine di Enrico Mattei e quella di Aldo Moro, personaggi-chiave dell’emancipazione politica italiana. «Dai documenti desecretati, che i due autori hanno consultato negli archivi londinesi di Kew Gardens – continua l’editore – emerge con chiarezza che non è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, ma soprattutto Londra, che non vuol perdere il controllo delle rotte petrolifere e contrasta la politica filoaraba e terzomondista di Mattei, Gronchi, Moro e Fanfani».
Per gli inglesi anche i comunisti italiani erano un’ossessione, tanto da contrastarli con ogni mezzo: persino arruolando schiere di giornalisti, La regina Elisabetta II d'Inghilterraintellettuali e politici destinati a “orientare” l’opinione pubblica e il voto degli italiani. Lo dimostra l’attività di un apposito dipartimento del Foreign Office, che lavorava proprio a questo obiettivo. «Finché si arriva al 1976, l’anno che apre al Pci le porte del governo, e a Londra progettano un golpe. Ma l’ipotesi viene alla fine scartata a favore di un’altra “azione sovversiva”: si scatena così un’ondata terroristica che culmina nell’assassinio di Aldo Moro». Dalla nascita dello Stato unitario in poi, conferma Fasanella dal blog di Beppe Grillo, l’Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. Persino in tragici fatti di sangue, come l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Per Fasanella, la longa manus di Londra è pressoché onnipresente: quando Mussolini e il fascismo presero il potere grazie anche all’appoggio dei conservatori inglesi, poi durante il ventennio «controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime», e infine al momento della caduta poi di Mussolini, «organizzando il colpo di stato del 25 luglio». Determinante l’impronta inglese «durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale», e poi anche nel dopoguerra: «Durante l’intero arco della Guerra Fredda, e anche dopo, c’è lo Winston Churchillzampino inglese», persino «in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell’ultimo ventennio», con l’ingresso nella cosiddetta “seconda repubblica”, il passaggio all’euro e l’era berlusconiana.
«Nel corso dei 150 anni di storia unitaria – afferma Fasanella – gli inglesi hanno costruito delle loro quinte colonne interne, attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana». Per l’autore de “Il golpe inglese”, i britannici «avevano un’influenza enorme nel mondo dell’informazione, nel mondo della cultura e dell’industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre forze armate e gli stessi servizi segreti italiani», e addirittura «nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana». In tutti questi ambienti, secondo Fasanella, «gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna».
Non sono mancate fasi segnate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna: «E’ successo tutte le volte che l’Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall’esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l’Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori». Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale delEnrico Matteisecondo conflitto mondiale, c’erano tre cose che l’Italia non poteva assolutamente fare: dotarsi di un sistema realmente democratico, autogestire la propria sicurezza e dispiegare una propria politica estera autonoma.
Il primo veto, quello sulla “democrazia bloccata”, derivava dalla presenza in Italia del Pci, il partito comunista più forte dell’Occidente. Ma si inglesi, rivela sempre Fasanella, non intendevano lasciare che Roma badasse da sola alla propria sicurezza. E soprattutto, Churchill non tollerava l’idea che l’Italia potesse sviluppare una politica estera indipendente, basata cioè sulla esclusiva tutela dell’interesse nazionale. «Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico», afferma Fasanella, che ricorda: «Quando l’Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi».
Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un’idea nazionale dell’Italia, cioè di un paese allineato con la Nato ma propiettato nel suo ambito naturale, quello del Mediterraneo, spiccano soprattutto due nomi: quelli di Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, e quello di Aldo Moro, l’uomo delle larghe intese col Pci di Berlinguer. Attraverso la sua politica energetica spregiudicata e coraggiosa, l’ex partigiano Mattei contribuì a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, e Moro può essere considerato il suo successore, sul piano Aldo Moropolitico. «Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo», scrive Fasanella. Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e sedici anni dopo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.
America e Inghilterra, continua l’autore de “Il golpe inglese”, non avevano la stessa visione del problema italiano: «Per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso». In passaggi delicati della nostra storia, anche drammatici come quelli a cavallo tra il ‘69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese «progettava con l’aiuto inglese un colpo di stato in Italia», gli americani si opposero. E la stessa cosa, dice ancora Fasanella, gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni ‘70, si pose il problema dell’ingresso del partito comunista nel governo italiano: «Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all’Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l’Inghilterra invece il problema doveva essere risolto Giovanni Fasanellain modo più radicale».
Fu Londra, rivela Fasanella, a tagliare la strada alla sinistra italiana che – al prezzo di continui “strappi” ideologici – stava diventando riformista. Un processo di crescente partecipazione democratica, che andava fermato a tutti i costi, «addirittura attraverso un golpe, che gli inglesi avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero». Poi però cambiarono idea e lasciarono cadere il progetto del colpo di Stato, come confermano gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica. Ma fu solo un cambio tattico, non strategico: «Il governo inglese optò per, parole testuali, l’appoggio a una diversa azione eversiva».
(Il libro: Mario Josè Cereghinon e Giovanni Fasanella, “Il golpe inglese”, editore Chiarelettere, 354 pagine, acquistabile anche on-line dal blog di Beppe Grillo).

Dovevamo arrenderci: lo decise la Cia già al G8 di Genova.



Manovre lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11 Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi, cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il “popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il bagno di sangue noto come G8 di Genova.
E’ la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce black bloc in azionedi qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi, grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei. In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc, fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.
I black bloc  «hanno un nome, ma non un volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente», dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto, sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica, quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel 2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza procedere La violenza della repressioneall’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di devastare impunemente l’intera città».
Il libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che oggi chiede la riapertura delCarlo Giuliani ormai senza vitaprocesso perché sia finalmente accertata la verità?
Allora reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi, appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi. Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto loro, gli inafferrabili black bloc.
Fracassi li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare, conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti. Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si presenta nel luogo indicato, e i black black bloc bloc arrivano con puntualità cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto innocenti.
Se a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi? Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No, c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della Gianni De Gennaroglobalizzazione. Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma no: coi black bloc.
Incolpare il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova «significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber, antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda: era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen, reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il loro modo di agire, ovunque ci siano interessi Franco Fracassi americani da difendere».
Per “G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe, a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc, ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i “neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le azioni di una formazione chiamata Black Bloc».
Ma tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda, ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?», domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa Fabio Minialle operazioni». Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il generale Mini.
Se è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi, Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’ l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi», conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».
(Il libro: Franco Fracassi, “G8 Gate”, dieci anni d’inchiesta: i segreti del G8 di Genova, Alpine Studio editore, 229 pagine, euro 14,90. Info: Alpine Studio).  

Diaz, lo Stato chiede i danni ai poliziotti.


Un’immagine scattata all’esterno della scuola Diaz nel luglio del 2001

Genova - Lo Stato chiede i danni ai super poliziotti della Diaz. Lo fa attraverso la Corte dei conti ligure che già dalla sentenza di condanna in appello aveva aperto un fascicolo ma che, solo adesso di fronte alla pronuncia della Cassazione , ha ufficialmente preso agli atti il fascicolo del processo per la sanguinaria irruzione nella scuola simbolo del G8 di Genova 2001.
I giudici chiederanno il risarcimento del danno di immagine ai condannati e anche ai “picchiatori” i cui reati sono stati prescritti ma le cui responsabilità sono state pienamente riconosciute. Gli emissari della procura regionale della magistratura contabile si sono presentati negli uffici del palazzo di giustizia di Genova all’indomani della Cassazione. In gran segreto: ora un nuovo processo alla polizia entra nel vivo.
La notizia trapela nel giorno in cui decide di rompere il silenzio Gianni De Gennaro , sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti che, nel 2001, era il capo della polizia e che, per i fatti del G8, è stato indagato, processato e assolto. De Gennaro si dice «addolorato per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze», ma aggiunge con una frase destinata a imbarazzare il governo l’«umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello stato democratico nella lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata».


http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/07/09/APJ2j7tC-poliziotti_chiede_stato.shtml#axzz206T6isUQ

Le aziende che ci spiano in Rete. di Giovanna Locatelli




Agenzie private di 'cybersorveglianza'. Anche italiane. Spesso al servizio delle peggiori dittature. Capaci di entrare nei nostri computer e nelle nostre mail. Ecco quali sono. E come lavorano.


Un business in continua crescita. Aziende occidentali che vendono - in piena legalità - i loro prodotti di sorveglianza elettronica ai migliori offerenti: compresi però regimi dittatoriali e sanguinari. Un mercato ambiguo e non regolato, nato con lo scopo di combattere il terrorismo, in cui forti interessi economici e violazione di diritti umani si mescolano inesorabilmente. Le società italiane non fanno eccezione.

Dicembre 2008: il debito maturato dallo Stato italiano nei confronti di tre società che lavorano nel settore delle intercettazioni arriva a 140 milioni di euro. Si tratta di Research Control Systems, Area Spa e Sio Spa. Ditte lombarde che gestiscono nella Penisola oltre il 70 per cento del mercato delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Il debitore, lo Stato, era anche il loro unico cliente. 

E' allora che Area spa si guarda intorno e si affaccia al mercato estero, cercando nuovi contratti di lavoro. Nel 2009 vince una gara d'appalto internazionale con la Siria, indetta dal gestore telefonico statale - e principale operatore - Syrian Telecommunication Establishment. Il contratto stipulato riguarda le intercettazioni delle e-mail e del traffico su Internet nel Paese mediorientale. L'accordo vale 13 milioni di euro circa. Per il progetto, altamente invasivo e complesso, si utilizzano hardware e software provenienti da altre tre società occidentali: la californiana Net App Inc., la francese Qosmos SA, e la tedesca Utimaco Safeware. Ognuna delle quali leader, a livello internazionale, nel settore della sorveglianza elettronica.

Nel 2010 gli ingegneri informatici italiani sono al lavoro per la Siria e nel febbraio 2011 arrivano a Damasco gli equipaggiamenti elettronici. Il mese dopo inizia la rivoluzione siriana e il 30 marzo ingegneri e tecnici della società tricolore si trovano a Damasco per far funzionare il sofisticato macchinario. 

Qualcosa però va storto. L'inchiesta giornalistica dell'agenzia americana "Bloomberg" scoperchia gli accordi e rivela tutti i dettagli e i retroscena relativi al progetto. Compresa la presenza degli ingegneri italiani a Damasco durante la repressione di Bashar Al Assad contro i civili. A questo punto le compagnie Qosmos ed Ultimaco fanno un passo indietro, dichiarano di abbandonare il progetto. Nell'ottobre 2011 anche il rapporto tra Area spa e la Siria salta. Dice l'amministratore delegato di Area, Andrea Formenti: "La società è risultata aggiudicatrice di una gara internazionale aperta alle principali aziende del settore in ambito mondiale. Non sono state violate le leggi nazionali ed internazionali. Il contratto seguito all'aggiudicazione è stato formalmente depositato presso le nostre autorità competenti, e la società nell'esecuzione dello stesso ha rispettato le norme vigenti in materia di esportazione". Quando arriva il dietrofront, comunque, alcuni strumenti di sorveglianza si trovano già a Damasco e sono stati parzialmente pagati: "Allo stato attuale il sistema fornito non è completo, non è (e non è mai stato) operativo, e pertanto non può avere in nessun modo contribuito a nessun tipo di azione repressiva", dicono ad Area spa. Poco dopo, l'Unione europea approva misure restrittive per l'esportazione di software di monitoraggio telefonico e on line in Siria. 

Area non è l'unica società italiana ad aver collaborato con i paesi "caldi"del vicino Oriente. La società con sede a Milano Hacking Team era attiva anch'essa in Medio Oriente e Africa durante le rivoluzioni della "primavera araba" e vede in quella Regione un'importante fetta del suo mercato, come emerge dal bilancio dell'azienda chiuso il 31 dicembre 2010. Nel documento si legge: "Dopo la chiusura dell'esercizio sono avvenuti i seguenti elementi rilevanti: è stato completato l'inserimento di un commerciale dedicato per l'area MiddleEast e Africa nel mese di gennaio (2011) e al contempo sono state avviate le attività di ricerca di due sviluppatori e un addetto pre-sales entro il 2011". Questo non significa necessariamente che siano stati intrecciati rapporti con qualche dittatura: ma, se fosse, non è dato saperlo.



Hacking Team produce un Cavallo di Troia molto invasivo, unico nel suo genere nel panorama mondiale, chiamato Remote Control System (Rcs), letteralmente sistema di controllo remoto della Rete. Rcs può controllare tutto il computer di un utente: attivare la telecamera, scattare foto, leggere le e-mail, inviarne di nuove, registrare conversazioni via Skype, visualizzarne la cronologia eccetera: e tutto senza che il legittimo proprietario se ne accorga. Nel bilancio emerge che a partire dal 2011, il Remote Control System è ancora più potente ed è pronto per essere venduto: "Nel corso del 2010 la società si è confermata come player internazionale nello sviluppo e nella commercializzazione di strumenti di monitoraggio a distanza di "devices targets" (computer, mobile devices etc)... La società ha mantenuto costanti i risultati di vendite del prodotto Remote Control System, registrando notevoli risultati in termini di ulteriore sviluppo e completamento dell'offerta dello stesso - risultati che daranno i frutti già a partire dai primi mesi del 2011". David Vincenzetti, l'amministratore delegato della compagnia, ha dichiarato che il suo prodotto è stato regolarmente venduto a 30 clienti in 20 paesi. Quali? Non si sa, sono "informazioni riservate". 

La commercializzazione di questi potenti strumenti di sorveglianza elettronica è un rischio concreto per tanti cittadini che oggi si trovano a lottare sia contro i tiranni sia contro i loro alleati informatici occidentali. Ma la responsabilità, secondo Eric King di Privacy Internacional, è dell'Occidente: "Sono soprattutto le agenzie americane interessate a comprare questi equipaggiamenti. Ma i regimi repressivi rappresentano un secondo mercato, molto pericoloso, anche se non quello principale. Le compagnie sono state finanziate principalmente dall'America e dall'Europa per il rafforzamento e il perseguimento dei loro obiettivi. A questo punto parte della responsabilità è proprio la loro. E' l'Occidente che ha creato la necessità impellente di utilizzare gli strumenti in questione e sono loro che contribuiscono, con finanziamenti da capogiro, ad accrescere questo business".




http://espresso.repubblica.it/dettaglio/le-aziende-che-ci-spiano-in-rete/2180639

"L'Amaca" di Michele Serra.



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Passa il favore.




Questo sono io, e queste sono tre persone a cui darò il mio aiuto, ma deve essere qualcosa di importante, una cosa che non possono fare da sole, perciò io la faccio per loro e loro la fanno per altre tre persone.

Trevor McKinney presenta alla lavagna la sua idea "passa il favore", Un sogno per domani (Pay It Forward)



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Diaz, De Gennaro: “Le sentenze vanno rispettate anche quando assolvono”.


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Le sentenze vanno rispettate sia quando condannano sia quando assolvono. Anche Gianni De Gennaro interviene, ora che le acque sembrano essersi calmate, nel dibattito seguito allapronuncia della Cassazione su quanto accadde alla caserma Diaz di Genova durante il G8 del2001. Pronuncia che di fatto ha decapitato la Polizia di Stato e che da alcune parti aveva fatto parlare anche di De Gennaro, capo della polizia all’epoca dei fatti. De Gennaro, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti, affida il suo pensiero a una nota diffusa da Palazzo Chigi. “Le sentenze della magistratura – si legge – devono essere rispettate ed eseguite, sia quando condannano, sia quando assolvono”. Il riferimento, naturalmente, è a se stesso.
“In seguito alle decisioni per i gravi fatti di Genova – spiega il comunicato – le competenti autorità hanno puntualmente adempiuto a tale dovere, operando con tempestività ed efficacia”. “Per quanto mi riguarda – sottolinea De Gennaro – ho sempre ispirato la mia condotta e le mie decisioni ai principi della Costituzione e dello Stato di diritto e continuerò a farlo con la stessa convinzione nell’assolvimento delle responsabilità che mi sono state affidate in questa fase”.
Nella sua nota, De Gennaro aggiunge che “resta comunque nel mio animo un profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze ed un sentimento di affetto e di umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello Stato democratico nella lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata”.
Durissima la reazione di Vittorio Agnoletto, guida del Genoa Social Forum del 2001: “Nelle parole dell’ex capo della polizia non c’è nemmeno l’ombra delle scuse che, se pur solo formalmente, ha chiesto il suo successore Manganelli”. “De Gennaro – aggiunge – con arroganza rivendica ogni cosa e, sfottendo i giudici, osa addirittura affermare che tutto si è svolto secondo la Costituzione, lui che a Genova nel 2001 era il capo della polizia e quindi il responsabile della gestione dell’ordine pubblico”. “Nemmeno una critica – sottolinea Agnoletto – verso i dirigenti di polizia condannati per reati estremamente gravi, ai quali va anzi la sua solidarietà. La stessa solidarietà in nome della quale per undici anni i vertici della polizia hanno cercato di impedire l’azione dei pubblici ministeri e di bloccare i processi. Per tutti gli altri resta solo un generico dolore; nemmeno un accenno alle vittime della violenza provocata dai suoi sottoposti”. “In qualunque altro Paese europeo De Gennaro sarebbe stato sospeso dall’incarico già nel 2001; è inaccettabile – conclude Agnoletto – che resti al governo nel silenzio colpevole di tutto il parlamento”.