mercoledì 8 agosto 2012

Giglio marino o Pancratium maritimum.

10cqkiv


Il Giglio marino, o Pancratium maritimum, è una pianta bulbosa della famiglia delle Amaryllidaceae che cresce spontaneamente sui litorali sabbiosi. Presenta foglie lineari piane e i fiori, che sbocciano in estate, sono bianchi e profumati, disposti ad ombrello lungo l’apice del peduncolo. Il fiore ha una doppia corolla con forma di ombrello. Il Giglio marino vive in riva al mare, dove cresce sulla sabbia delle dune litoranee.
Lo troviamo in abbondanza lungo le coste tirreniche e ioniche, comprese le Isole e sulle coste della Riviera Ligure.
La pianta raggiunge un’altezza di 50-60 centimetri, presenta foglie di colore verde glauco, rivolte a spirale. I fiori sono grandi ed ermafroditi, i petali sono contenuti in un tubo fiorale stretto e di colore verde. All’estremità superiore,s i formano un imbuto con 6 lacinie bianche bordellate di verde.
L’impollinazione avviene tramite gli insetti, mentre i frutti sono delle capsule grandi pochi centimetri che contengono i semi neri. I semi galleggiano in acqua, con questo si spiega la grande diffusione anche via mare. Contengono inoltre la licorina, sostanza velenosa.
Il Giglio di mare può anche essere coltivato. Il terreno deve possedere sufficiente sostanza organica ed essere molto ben drenato. Il bulbo viene impiantato in autunno o a inizio della primavera, con la testa rivolta verso l’alto e ricoperto con non più di 6/8 centimetri di terra.

http://guide.supereva.it/botanica/interventi/2010/02/il-giglio-di-mare-sui-litorali-sabbiosi

Feltri: “Fuori le telefonate del Colle”. E difende Ingroia e Di Pietro.


feltri_interna nuova

Commento del direttore editoriale del Giornale: "Napolitano fa di tutto nel voler nascondere le conversazioni. Se non c'è niente di peccaminoso vale la pena di renderle pubbliche". Sul leader Idv: "Stavolta ha ragione". E sul pm di Palermo: "Promosso e rimosso: lontano dagli occhi, lontano dai glutei".

“Una domanda va posta al capo dello Stato. Per quale motivo non tira fuori le conversazioni telefoniche tra il Quirinale e Mancino e non ne consente la pubblicazione? Se non contengono nulla di peccaminoso, vale la pena di renderle pubbliche, e festa finita”. A scriverlo è Vittorio Feltri in un commento che parte dalla prima pagina del Giornale dal titolo “E ora fuori le telefonate del Colle”. Il ragionamento del direttore editoriale del Giornale è questo: perché, se non c’è niente da nascondere, Giorgio Napolitano fa di tutto “nel voler nascondere a ogni costo, anche quello del ridicolo, i dialoghi tra il suo (defunto) consulente legale, Loris D’Ambrosio, e Mancino”? L’articolo di Feltri ricostruisce l’intera vicenda della presunta trattativa Stato-mafia alla quale, precisa, lui non crede. Feltri supera i dubbi sulla trattativa e supera anche le controversie sul fatto che i pm di Palermo potessero o no intercettare le telefonate tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno. Tuttavia Feltri segnala che “il capo dello Stato, indignato, ricorre contro la Procura. Sostiene che l’istituzione va tutelata. Occorre riservatezza. Giusto. Tuteliamola. Ma perché in analoga circostanza l’istituzione Palazzo Chigi fu, invece, sfregiata?”. 
Il direttore del Giornale arriva a difendere perfino il sostituto procuratore Antonio Ingroia (“Promosso e rimosso: destinazione Guatemala. Lontano dagli occhi, lontano dai glutei”) e il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, reo (per sinistra e destra) di aver attaccato Napolitano: “A Tonino si possono rimproverare tante cose, non questa”. Perché anche chi, dalle file del centrodestra, ha polemizzato dicendo che Di Pietro avrebbe potuto piuttosto agire “contro di lui (Napolitano, ndr) e non soltanto contro il povero Bettino che viceversa ha pagato per tutti, mentre il Pci fu salvato da Mani Pulite”.
“E’ molto antipatico – prosegue Feltri – che Napolitano sia tanto seccato per le intercettazioni (non distrutte) che lo riguardano, e indifferente per quelle relative a Berlusconi, servite ad esporre questi alla berlina. Poco elegante e per nulla corretto sotto il profilo etico-istituzionale”. “Pazienza – conclude il commento – Bisogna abituarsi a tutto, anche all’ostracismo inflitto a Di Pietro, colpevole di aver detto – in ritardo – la verità. Chi tocca il Quirinale non muore, ma è condannato all’isolamento. La sinistra non perdona”. 

Trattativa, Procura Palermo dà parere negativo a stralcio posizione di Mancino.


mancino_interna nuova
Secondo il pm Nino Di Matteo c'è “strettissimo collegamento probatorio” tra le vicende contestate all’ex ministro e quelle contestate agli altri indagati. Sulla istanza dei legali l’ultima parola spetta al gup che il 29 ottobre deciderà la questione durante la celebrazione dell’udienza preliminare.

La procura di Palermo ha espresso parere negativo sulla richiesta dei legali dell’ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato Nicola Mancino di stralciare la sua posizione da quella degli altri indagati nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia. Per i difensori di Mancino, indagato per falsa testimonianza, non ci sarebbe connessione sostanziale tra la sua posizione e quella degli altri 11, tra boss, politici ed esponenti dell’Arma, accusati di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. 
Non la pensa così il pm Nino Di Matteo (su cui il pg della Cassazione ha avviato un’azione disciplinare) che motiva il suo no allo stralcio con lo “strettissimo collegamento probatorio” tra le vicende contestate all’ex ministro e quelle contestate agli altri indagati. Tanto che una separazione comporterebbe un’inutile duplicazione delle acquisizioni probatorie. Sulla istanza dei legali, però, l’ultima parola spetta al gup Piergiorgio Morosini che il 29 ottobre deciderà la questione durante la celebrazione dell’udienza preliminare. 

Grill...



https://www.facebook.com/photo.php?fbid=3918961342624&set=a.2863246750419.2152036.1537246115&type=1&theater

Alessandro Giari.




Il momento ATTTUALE, con la "revisione della spesa", stupidamente detta dai nostri politici spending review (magari non sapendo cosa vuol dire), CON I TAGLI AI SOLITI NOTI E LA SALVAGUARDIA DEI SOLITI PRIVILEGIATI mi fa venire in mente un bel libro di ATHOS BIGONGIALI, tratto da una STORIA VERA accaduta nel lontano 1957.

In quell'anno, alla fabbrica "MOTOFIDES" di MARINA DI PISA, si provvide ALL'E
PURAZIONE DEGLI ISCRITTI AL PARTITO COMUNISTA ITALIANO: furono LICENZIATI TUTTI e furono ASSUNTI "ALTRI" OPERAI che meglio rispondevano ai PRESUPPOSTI INDIVIDUATI dall'IMPERANTE REGIME SCUDOCROCIATO.

Al posto di tante persone ONESTE E OTTIMI LAVORATORI, mettondo sul lastrico le loro famiglie, SI ASSUNSERO ANCHE MOLTI EX FASCISTI rimasti DENTRO TALI e la "Fabbrica" fu "addomesticata"!

SEMBRA COSI' LONTANO quel tempo MA NON E' COSI': basta pensare a MARCHIONNE e le sua FEROCE TIRANNIA CONTRO GLI ISCRITTI ALLA FIOM, alla LEGGE DI IERI sulal revisione della spesa DOVE NON SI TOCCANO AFFATTO i "quartieri" del PRIVILEGIO CHE INCROSTA CENTENARIAMENTE le nostre ISTITUZIONI, prima MONARCHICHE, POI REPUBBLICANE.

SIGNORI MIEI E' IL MOMENTO DI "SCALDARE" LA PLATEA CON LA RIVOLTA O IL 1957 SARA' SOLO UNO "ZUCCHERINO" RISPETTO A QUELLO CHE CAPITERA' A MOLTI DI NOI!!!

Banda larga e fibra ottica, “l’alta velocità” che manca all’Italia. - Eleonora Bianchini

digitale 2 interna nuova

Se il Tav Torino-Lione costa all'Italia tra i 15 e e i 20 miliardi di euro, secondo il Ministero dello Sviluppo ne servono altrettanti (15) per collegare il "100% dei cittadini a 30 Mbps". In Corea e Giappone viaggiano tutti a banda ultralarga, che nel Belpaese copre solo il 10% del territorio. Ma può valere fino al 3% del Pil.

Punti di Pil perduti, risparmi e posti di lavoro mancati. La fibra ottica o banda ultralarga (che viaggia a 100 megabit per secondo – Mbps, velocità superiore rispetto alla banda larga, definita tra i 2 e i 20 Mbps) non significa soltanto connessione a Internet ma prospettive di ricavi e di occupazione, specie in tempi di crisi. La sua diffusione, secondo la Commissaria europea per l’Agenda digitale Neelie Kroes, potrebbe valere un aumento dall’1 all’1,5% del Pil. Ancora più significative le stime elaborate dall’osservatorio “I costi del non fare” di Andrea Gilardoni della Bocconi di Milano, secondo cui la fibra ottica vale ogni anno fino al 2030 il 3% del Pil. Eppure per l’Italia rischia di essere un’occasione persa. Analfabetismo digitale e scarsa conoscenza delle potenzialità di Internet, da parte di aziende e utenti privati, generano il circolo vizioso per cui la banda ultralarga in Italia non decolla. Il costo è assimilabile a quello di una ‘grande opera’. Se il Tav Torino-Lione costa all’Italia tra i 15 e e i 20 miliardi di euro ne servono altrettanti (15) secondo l’Agenda digitale del Ministero dello Sviluppo per collegare il 100% dei cittadini a 30 Mbps e il 50% a 100 Mbps, come prevede l’Agenda digitale Europea. A investire sul piano della ultrabroadband il governo italiano (che ha ricevuto fondi europei per 440 milioni di euro) e i Fondi italiani per le infrastrutture F2i Tlc-Metroweb (partecipato da Cassa Depositi e Prestiti) che ha annunciato un piano da 4,5 miliardi di euro nei prossimi anni per coprire le 30 città maggiori. E poi gli operatori privati: 10 miliardi di euro (di cui 4 già investiti) per le reti di nuova generazione mobile e 500 milioni di Telecom per la banda larga. Il totale potrebbe coprire il costo dei 20 miliardi. Purtroppo però gli operatori, ad eccezione dello Stato, lavorano tra loro in sovrapposizione in zone in cui c’è già mercato, quindi implementano il servizio solo dove sono certi del ritorno degli investimenti.
Ragione per cui il presidente di Telecom Franco Bernabè ha specificato che non ci sarà alcuna accelerazione per la fibra ottica dato che “le indicazioni dell’Unione europea sono soltanto programmatiche”. L’ex monopolista prosegue nel suo piano di portare Internet ultraveloce in 99 città entro il 2014, che nel 2018 diventeranno 250, ma la velocità nelle case degli utenti potrebbe non superare i 50 Mbps. A Telecom si aggiunge il piano di F2i-Metroweb che intende portare la fibra a 100Mbps effettivi in 30 città. La prospettiva più realistica, quindi, è che tra alcuni anni appena il 20% della popolazione viaggerà ultraveloce, mentre solo un terzo delle famiglie italiane arriverà a 50 Mbit. A meno che la domanda di mercato non spinga gli operatori ad accelerare e a impiegare risorse per lo sviluppo della rete ultraveloce.
Eppure negli anni Sessanta, quando venne costruita l’Autostrada del Sole, non c’erano certezze sul ritorno economico. La prima azienda a caldeggiare la sua realizzazione è stata la Fiat, certa che l’infrastruttura avrebbe creato la domanda e aumentato la vendita delle auto. Una proiezione che si è rivelata corretta: gli italiani, viste anche le crescenti possibilità economiche, volevano viaggiare e spostarsi più rapidamente. Una logica valida anche per la fibra ottica: se fosse implementata su scala nazionale, gli utenti sarebbero invogliati a utilizzarla perché offrirebbe servizi migliori incrementando la qualità e la velocità di trasmissione dei dati.
LA COPERTURA DEL TERRITORIO – Eppure la fibra ottica in Italia è percepita come un lusso, più che come un investimento necessario per lo sviluppo. A oggi copre soltanto il 10% del territorio, mentre in Svizzera arriva al 90%. La Francia ambisce al 37% entro il 2015 e al 100% nel 2025. GiapponeCorea del Sud corrono al 100% sulla banda ultralarga. E l’Australia sta già adottando un piano di conversione a livello nazionale. In altri paesi europei, tra cui la Gran Bretagna, gli operatori privati hanno avviato ambiziosi piani di investimento, legati però ad aree remunerative. Scelte legate anche alla consapevolezza che un reale investimento nella ultrabroadband porterebbe risparmi per la pubblica amministrazione e le famiglie. Sul fronte italiano, Monti è volato nelle scorse settimane in Idaho per incontrare i guru della comunicazione e insieme a Passera, che all’assemblea di Confindustria ha definito “prioritaria” la banda larga, punta sull’urgenza dell’agenda digitale perché “l’innovazione consente di fare molte cose con minori risorse”. Tanto da avere proposto di tenere gli investimenti sulla banda larga fuori dal fiscal compact. Le speranze arrivano anche oltreoceano, visto che secondo il New York Times con Monti “gli italiani stanno vivendo un risveglio digitale a lungo atteso”. 
A CHE PUNTO SIAMO OGGI? – Il decreto Digitalia, che doveva definire obiettivi e stanziamenti per la banda larga, da giugno è stato rimandato a settembre. A parte il ritardo istituzionale, secondo i dati diffusi ad aprile dalla Commissaria europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes, nel nostro paese l’alfabetizzazione digitale è molto arretrata. Oltre il 41% degli italiani, infatti, non è mai entrato in rete, il doppio o il triplo rispetto a Francia (24%), Germania (17%) e Regno Unito (10%). Infratel, però, la società del ministero dello Sviluppo che si occupa di portare i cavi e la connessione in aree dove il mercato non interviene per mancanza di redditività, spiega che al 30 giugno 2012 la diffusione della rete a banda larga (non fibra ottica) in Italia ha raggiunto il 95,2% complessivo della popolazione di cui circa il 3% utilizza connessione via smartphone (3G). Rimane escluso ‘solo’ il 4,8%, senza copertura o servito da tecnologia di bassa capacità come adsl fino a 640 kbs, ovvero “banda stretta”. Secondo questo dato, unito a quello fornito da Infratel, il 36,2% della popolazione avrebbe la possibilità di connettersi, ma preferisce non farlo.
RICAVI MANCATI – Eppure l’analfabetismo digitale sommato alla banda che manca costa al nostro paese tra l’1,5 e il 3% del Pil che potrebbe essere recuperato, ad esempio, con l’adozione di servizi di videocomunicazione avanzati che creano “realtà aumentata” – ovvero una realtà virtuale e tridimensionale applicata dalla chirurgia robotica alla geolocalizzazione – e semplificano sia il processo produttivo sia quello di apprendimento, riducendo anche la necessità della presenza fisica. E poi il cloud computing, ovvero il trasferimento dei dati su dispositivi remoti che rende le prestazioni flessibili e veloci. Senza contare che entro il 2015 il settore Ict darà lavoro in Europa a oltre 700mila persone. Numeri promettenti che delineano un panorama di business e occupazione importante sul quale, però, l’Italia non ha ancora deciso di realizzare un efficace piano di sviluppo. Secondo Confindustria digitale nei prossimi 3 anni, ad esempio, “il contributo della Internet economy al Pil passerà in Italia dal 2,1 al 3,5 %” e nei paesi dell’Unione europea l’impatto sarà ancor maggiore, “con un aumento dal 3,5 al 5,7%”. Inoltre per il suo presidente Stefano Parisi, ”solo il 4% delle imprese italiane effettua vendite direttamente on-line”. Anche se, aggiunge, “le stime indicano che in questi tre anni di crisi le aziende italiane che hanno puntato sul web sono cresciute in termini di fatturato mediamente del 5,7% in più rispetto alle imprese che sono rimaste off-line”. Stime che possono incidere sensibilmente sui bilanci aziendali. Confindustria digitale infatti ha calcolato che “se tutte le imprese italiane aumentassero solo dell’1% il loro fatturato attraverso le vendite on-line verso l’estero, le nostre esportazioni totali aumenterebbero dell’8% pareggiando il saldo import-export di beni e servizi”. Ragione che li ha spinti a proporre “una detassazione parziale dei ricavi delle piccole imprese da e-commerce internazionale e una semplificazione delle procedure per gli acquisti online delle Pmi”. Ma i guadagni non riguardano soltanto il comparto industriale: ”Un uso intensivo di internet può portare risparmi di più di 2mila euro a famiglia”, dai servizi offerti dal web all’home banking che, secondo uno studio pubblicato a marzo della Bcg (Boston Consulting Group) in Francia, Germania e Regno Unito aumentano a 4500 euro per famiglia. Importante anche l’entità del risparmio sulla spesa pubblica, dove “il completo switch off digitale delle pratiche amministrative e dell’acquisto di beni e servizi da parte delle Pubbliche Amministrazioni porterebbe risparmi per 13 miliardi di euro di spesa corrente all’anno”.
GRANDI OPERE E FIBRA OTTICA - Risparmi e possibilità di investimento capillari che tuttavia non sono ancora percepiti come “priorità” per il paese. “La Tav è stata concordata con altri partner, ma quante risorse pubbliche hanno drenato i settori come quello automobilistico, dell’energia, del digitale terrestre? O quanto denaro hanno dovuto pagare i cittadini sulle bollette energetiche dell’ammodernamento dei contatori elettronici, del finanziamento delle rinnovabili, dell’acquisto del decoder digitale in una logica di switch-off forzoso?”, domanda Cristoforo Morandini di Between-Osservatorio Banda Larga che ricorda anche il “gioco di interessi” ben oltre le decisioni della politica nel convogliare una ingente quantità di risorse in un unico settore, “seppur strategico e vitale per lo sviluppo”. Parlando di cifre, “portare realmente la fibra ottica a tutti gli italiani, anche nel più sperduto paesino presenta dei costi proibitivi, costa intorno ai 20 miliardi di euro. Attraverso l’utilizzo di diverse soluzioni tecnologiche e ponendosi l’obiettivo di superamento dei 30 mbps si può effettivamente pensare di raggiungere la meta con meno di 10 miliardi”. Secondo l’Adoc, ad esempio, solo per il passaggio al digitale terrestre gli italiani hanno speso oltre 2,5 miliardi. A soprendere sono i vantaggi dell’implementazione della fibra ottica anche se per realizzarla a livello nazionale, data la difficoltà culturale e delle infrastrutture, si dovrebbe “pensare a un piano decennale”. Già nell’arco di due-tre anni, però, “si possono ottenere ottimi risultati”, a differenza del Tav visto che, secondo un documento dell’Agenzia Nazionale per l’Ambiente francesela “svolta importante” del progetto ci sarà “a partire dal 2030-2035″. L’ostacolo principale infatti non è la conformazione fisica del territorio, prosegue Morandini, ma le “economie di densità”. Ovvero la priorità a impiegare le risorse nelle zone più popolate, dove “è più rapido il ritorno degli investimenti” visto che “75%-80% dei lavori associati alla banda ultra larga sono di tipo civile, vale a dire scavi, ripristini, posa di cavidotti, allestimenti”. 
DIGITAL DIVIDE CULTURALE - Aldilà delle infrastrutture però “non tutti i politici hanno la sensibilità e le competenze per affrontare un tema così complesso”, puntualizza Alfonso Fuggetta, docente del Politecnico di Milano e collaboratore de lavoce.info. E anche nel settore industriale la sensibilità è “a macchia di leopardo, dove le aziende che operano a livello internazionale, sollecitano la necessità di banda, a differenza di chi magari opera esclusivamente in Italia e ha il cliente sotto casa. Ma ci sono zone industriali in aree poco densamente popolate in cui il digital divide è il primo problema”. A concorrere nella realizzazione della banda e del servizio sono lo Stato e gli operatori privati e la questione non si limita a “Monti o Passera, ma agli ultimi dieci anni persi”. La prima a dovere sollecitare la domanda di banda (e velocità) dovrebbe essere “la pubblica amministrazione, ancora troppo legata al cartaceo. E dove, in molti casi, il servizio digitale offerto ai cittadini sembra un lusso, non un investimento”. Eppure “dieci anni fa eravamo all’avanguardia in Europa anche per la diffusione della fibra”. Ora, invece, è tempo di tornare a correre.
infografica banda larga

Persecuzione. - Antonio Padellaro



È bene dirlo con la massima chiarezza che le notizie sull’azione disciplinare avviata dal Pg della Cassazione contro i vertici della Procura di Palermo ci parlano ormai di una vera e propria strategia persecutoria scatenata da alcuni organi dello Stato contro altri organi dello Stato preposti alla ricerca della verità nella lotta ai poteri criminali. Che poi questa strategia finisca per scardinare e delegittimare gli uffici giudiziari siciliani è pura constatazione che nasce dall’osservazione dei fatti.
Prima la campagna forsennata condotta (con l’ausilio di giornaloni e giornalacci compiacenti) contro il pm Antonio Ingroia, colpevole di avere sfidato chi tenta dall’alto di imbavagliare l’indagine sulla trattativa fra pezzi delle istituzioni e mafia a rivendicare la “ragion di Stato” e festosamente accompagnato in Guatemala dopo essere stato lasciato solo “in una stanza buia”.
Poi la pratica aperta presso il Csm per il trasferimento d’ufficio di Roberto Scarpinato, Pg a Caltanissetta, reo di aver ricordato, pochi giorni fa, nel ventennale della strage di via D’Amelio, l’impegno di Paolo Borsellino per ripristinare la credibilità dello Stato minata da quanti, pur ricoprendo cariche pubbliche, conducevano (e magari ancora conducono) vite improntate a quello che egli definì “il puzzo del compromesso morale che si contrappone al fresco profumo della libertà”.
Tocca ora al pur prudentissimo capo della Procura palermitana Francesco Messineo e al sostituto Nino Di Matteo assaggiare la frusta del sinedrio degli scribi e dei farisei, posti a guardia di una inesistente sacralità del Quirinale e del suo inquilino. Sembra infatti che a Di Matteo venga rimproverata l’intervista a Repubblica in cui parlava delle intercettazioni indirette di Giorgio Napolitano a colloquio con Nicola Mancino (notizia peraltro già rivelata da Panorama); Messineo invece dovrebbe discolparsi per una sorta di omessa vigilanza sul suo pm.
Un clima cupo, insomma, a cui hanno già dato una vigorosa risposta i 320 magistrati firmatari dell’appello in favore di Scarpinato. E a cui sicuramente, con la Procura di Palermo sotto attacco trasversale, si uniranno altre voci. A cominciare dalla nostra.