sabato 25 agosto 2012

Il Colle, le procure e la Costituzione. - Gustavo Zagrebelsky


EUGENIO Scalfari, col suo scritto di domenica scorsa, mi offre l’occasione di riprendere, sul nostro giornale, alcuni punti del mio articolo “incriminato”, incriminato per avere invitato il Presidente della Repubblica a riconsiderare l’opportunità del conflitto d’attribuzioni sollevato nei confronti di uffici giudiziari di Palermo. Non nego che quello scritto, tanto più per l’autorevolezza di colui da cui proviene, mi ha toccato nel profondo.
Poiché le ragioni sono sì personali, ma anche generali, tali quindi da poter interessare chi abbia seguito la vicenda, ritorno sull’argomento. Con una necessaria, e ovvia, premessa: siamo, come accennato, nel campo dell’opportunità. I giudizi di opportunità sono sempre discutibili, perché dipendono da molte ragioni e uno dà più peso ad alcune e altri ad altre. Se la ragione fosse una sola, saremmo nel campo della necessità che non si discute. Ma l’opportunità è sempre discutibile. Dunque, affrontiamo gli argomenti, in spirito discorsivo. Qui c’è la forza e la ricchezza del nostro giornale.
Dividerò le considerazioni che seguono in una parte generale e una speciale.
La parte generale è quella che più mi mette in difficoltà. A proposito “di eterogenesi dei fini”  -  conseguenze non intenzionali di atti compiuti intenzionalmente  -  nel mio scritto, non vi sarebbe stata nessuna “eterogenesi”, perché le conseguenze  -  la strumentalizzazione in vista di un “attacco” al Capo dello Stato  -  sarebbero state non solo da me previste, ma addirittura volute. L’insinuazione è che io faccia parte d’una operazione orchestrata per “delegittimare” il Capo dello Stato. Mi permetto di dire a Scalfari che ho avvertito come una ferita (e spiegherò perché), tanto più ch’egli aggiunge di sperare che il suo dubbio sia dissipato, temendo che questa speranza “si risolva in una delusione”. Le cose non stanno così. Ho condiviso e condivido molte delle cose dette e fatte dal Capo dello Stato, come egli sa per averne ricevuto testimonianza, con calde parole ch’egli certo ricorderà, in una pubblica occasione svoltasi qualche mese fa a Cuneo. Ma su altre cose ho delle riserve. Che cosa c’è di strano? Una cosa approvi e un’altra disapprovi  -  sì, sì; no, no, il resto è opera del maligno – e lo dici in piena libertà, come si conviene in un Paese libero. Avrei dovuto tacere o dire il contrario?
Sei un ingenuo, perché avresti dovuto sapere che le tue parole sarebbero state strumentalizzate; anzi, sei un falso ingenuo  -  in sostanza, un ipocrita  -  perché lo sapevi benissimo. Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si pensano vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?
C’è per me un “libro di formazione”. Non sembri una citazione fuori luogo o fuori misura. Scritto nel 1923, in circostanze più drammatiche delle attuali, contiene una lezione indimenticabile. È Il tradimento dei chierici di Julien Benda (ripubblicato da Einaudi). Non è una citazione esornativa, “da professore”. È un invito. Tratta degli uomini di pensiero che in quel tempo  -  e in tutti i tempi  -  si astennero dal prendere posizione, tacendo o dicendo cose che andavano contro le loro stesse convinzioni, e questo fecero “per opportunità”. La loro colpa non fu di avere detto cose sbagliate, ma di non avere detto le cose ch’essi stessi ritenevano giuste. Facciamo le debite proporzioni, ma riflettiamo sul corto-circuito che si verifica quando nel campo del pensiero si insinua l’idea che ciò che pensiamo, per opportunità, o anche per “responsabilità”, si possa o debba tacere.
Forse che l’attività intellettuale non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso – la cui esistenza è essenziale alla vita libera della pólis. Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura? Scrivendo queste cose, mi ritornano in mente gli anni ’50. Chi appartiene alla mia e alla precedente generazione, comprende facilmente il riferimento. Se ci sarà l’occasione potremo ritornare su quella storia fatta di contrapposte accuse di “defezione”, che nessuno e, di certo meno che mai Eugenio Scalfari, rimpiange.
Sulla parte speciale credo di muovermi con più facilità. Nel mio scritto, ho sostenuto che questo conflitto, per i suoi caratteri, non ha precedenti. Scalfari dice di no, ma poi spiega: vi sono politici e loro fiancheggiatori che, nel caso in cui la Corte dia ragione al Capo dello Stato, “palpitano” per poter accrescere i loro “attacchi eversivi” all’una e all’altro; nell’improbabile caso contrario, se al Capo dello Stato venisse dato torto, sempre gli stessi gli chiederebbero “immediate e infamanti dimissioni”. Non è questa una situazione eccezionale, drammaticamente difficile? Riflettiamoci seriamente e freddamente. La Corte è un giudice e noi pretendiamo ch’essa giudichi secondo diritto, seguendo “l’etica della convinzione” che le è propria. Ma sappiamo bene che, messa di fronte a un “fiat iustitia, pereat mundus”, nessuna Corte costituzionale indietreggerebbe nell’applicare l’”etica delle conseguenze” che, indubbiamente, interferisce con le ragioni solo giuridiche. Nella specie, il “pereat mundus” è la crisi costituzionale che sia Scalfari sia io paventiamo. Qualunque Corte costituzionale la prenderebbe in considerazione come male supremo da evitare. Per questo dicevo che l’esito del conflitto è scontato. Dire queste cose non è indebita interferenza sulla decisione della Corte, come crede Scalfari, ma è teoria della Costituzione. Leggendo che le Corti hanno il diritto d’essere protette da situazioni siffatte, per poter decidere nella “tranquillità del diritto”, non c’è da essere sconcertato “d’una scorrettezza”, come Scalfari dice d’essere, perché quella espressione viene da lontano, da un dibattito internazionale tra illustri costituzionalisti.
Scalfari, poi, mi fa dire che la Corte non avrebbe i poteri per risolvere il conflitto proposto, perché, dando ragione al Capo dello Stato, introdurrebbe un’innovazione della Costituzione. In verità, non ho detto questo ma che, per quanti danno alla parola “irresponsabilità” un significato più ristretto di “inconoscibilità” o “intoccabilità”  -  per quelli (e ce ne sono) che pensano così – l’accoglimento del ricorso sarebbe un’innovazione della Costituzione. L’interpretazione che facesse coincidere i significati, sia pure a proposito di una piccola, ma cruciale questione, avrebbe effetti di sistema difficilmente controllabili su tutto l’impianto dei poteri costituzionali, così come si è finora concepito. E, se è vero che, nel caso in questione, la Corte si trova in quel cul de sac di cui dice lo stesso Scalfari, la domanda è se non è sommamente inopportuno che ciò avvenga, e in queste circostanze. Poi, è verissimo, che la Corte dispone di tutti gli strumenti tecnici necessari per decidere come vuole (le sentenze additive e interpretative, però, di per sé non c’entrano: riguardano i giudizi sulle leggi, non i conflitti): dai principi, nel nostro caso il principio d’irresponsabilità presidenziale, si possono trarre regole specifiche per decidere i singoli casi, superando anche (ma qui non è il caso di scendere nei dettagli giuridici) contraddizioni o lacune legislative. Ma la questione non è di strumenti tecnici, ma  -  ripeto  -  di prudenza e responsabilità nel chiedere di attivarli.
L’ultima cosa che non ho detto è che il Capo dello Stato avrebbe frapposto “un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità”. Ho detto invece che il ricorso, per effetto delle circostanze che non si controllano, è venuto ad assumere il significato d’un tassello in un disegno critico della magistratura, che finisce per indebolirne l’opera. Il che, guardando ciò che succede, mi pare incontestabile.
Sullo sfondo di tutto ciò, c’è una questione che emerge con chiarezza nelle considerazioni “pertinenti anche se non inerenti” che chiudono l’articolo di Scalfari. Esiste nel nostro Paese uno scontro aperto e, apparentemente, senza mediazioni. Da un lato, coloro che sostengono con convinzione che la magistratura (se non tutta, molte sue parti) esorbiti dai suoi poteri perché persegue il fine di sottomettere la democrazia o la politica al processo penale. Dall’altro, quelli che pensano che non si tratti affatto di questo, ma semplicemente di ampi settori del mondo politico che, avendo costruito le proprie fortune sull’illegalità, temendo l’azione giudiziaria, vogliono limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. I primi parlano di “guerra” dei magistrati contro la politica, di “giustizialismo”, ora di “populismo giuridico”; i secondi, specularmente, di “guerra” dei politici contro la magistratura, di “assalto” alla giustizia. Se davvero stato di guerra ci fosse (ecco la riserva cui accennavo all’inizio), allora anche le idee dovrebbero schierarsi, perché in guerra non solo tacciono le leggi, ma anche suonano le trombe che chiamano i cervelli all’adunata. Ai primi, però, bisognerebbe dire che i secondi non sono affatto tutti “antipolitici”, come vengono definiti con una parola violenta e disonesta, che non fa che creare ostilità contro “i politici” che la pronunciano; ai secondi, occorrerebbe dire che la critica distruttiva della politica non sappiamo dove ci potrebbe portare: ma non certo verso il regno della giustizia (e della democrazia). Coloro che sognano rivalse contro i magistrati dovrebbero chiedersi da dove nasce il risentimento contro “la politica” ch’essi impersonano e dovrebbero vedere che molti loro propositi non sono che altrettanti boomerang che alimentano le fila di chi sta dall’altra parte. Credono davvero che i diversi “riequilibri”, in questo clima di scontro, siano saggi propositi e non conati controproducenti? Il ricorso del Capo dello Stato ha aperto un “conflitto” giuridico ma, inevitabilmente, ha finito per essere inglobato, come suo episodio, in questo “conflitto” politico (astuzia perversa delle parole!). L’invito a ricercare una limpida soluzione della questione nella sede processuale ordinaria e a riconsiderare quindi l’opportunità di quel conflitto, nasce da qui.

Un tour di ghetto di Detroit.



Ancora notizie horror da Detroit. Nella città-incubo della crisi, si gettano cadaveri nei fossi e nelle discariche abusive.

http://crisis.blogosfere.it/2012/08/crisi-usa-a-detroit-si-gettano-i-cadaveri-in-strada.html

Super Prozac per i soldati USA. - Marco Cedolin



Il Pentagono sembra essere sempre più preoccupato per l'incremento esponenzialedei casi di suicidio che coinvolgono i militari americani. Il fenomeno sta continuando ad aumentare già da alcuni anni ed a nulla sono valsi finora i vari tentativi di contrastarlo da parte dei medici che hanno studiato il problema, basti pensare che nel solo mese di luglio 2012 si sono tolti la vita ben 26 soldati a stelle e strisce, il doppio di quanti compirono l'insano gesto nel luglio dello scorso anno.
Analizzare le reali cause di questa epidemia non è molto semplice, dal momento che la situazione sembra essere ingenerata da una svariata serie di dinamiche che interagiscono fra loro...dalla "paura del fronte" all'abuso di droghe sintetiche, passando attraverso gli sconvolgimenti mentali conseguenti alle atrocità compiute nei teatri di guerra e le difficoltà incontrate dai "veterani" nel reinserirsi all'interno della società.

Dal momento che intervenire nel merito delle cause, tentando di rimuovere il problema laddove esso s'ingenera, deve essere sembrata ai medici statunitensi un'impresa titanica assolutamente al di fuori della loro portata, si è preferito tentare di mettere una pezza con l'ausilio di qualche adittivo chimico, nella speranza che possa riequilibrare la situazione.

L'Università dell'Indiana ha infatti ricevuto un finanziamento di 3 milioni di dollariper sviluppare un medicinale a base dell'ormone TRH che garantirebbe ottimi e rapidi effetti antidepressivi, ma finora poteva venire esclusivamente somministrato attraverso dolorose punture lombari. Il progetto è quello di realizzare uno spray a base di TRH, introducendo l'ormone all'interno di nanoparticelle che costituiranno un guscio biodegradabile che verrà assorbito dai neuroni olfattivi.

Se il progetto andrà in porto, potrebbe dunque bastare un inalatore per riportare l'allegria fra i soldati USA e indurli a non "rimuginare" sui nemici uccisi, sui bambini straziati e sulle donne stuprate. Fra i popoli violentati e massacrati dall'occupazione americana, "l'allegria" invece continueranno a dispensarla le bombe, i droni ed i fucili dei marines che dopo il trattamento avranno riacquistato la gioia di vivere.

Nuova inchiesta su Dell'Utri. - Lirio Abbate e Paolo Biondani

Marcello Dell Utri

Manovre in parlamento, entrature nel governo, tangenti su un affaire di gas con la Russia. La Procura di Firenze indaga sul potere del senatore. E sul suo braccio destro Massimo De Caro, il consulente di Ornaghi che al telefono evocava interventi di Passera e dossier contro D'Alema.

Una lobby in grado di condizionare parlamentari, imprenditori e burocrati di altissimo livello, interferendo perfino sul governo Monti. Presunto burattinaio, il senatore Marcello Dell'Utri. Braccio operativo, Massimo De Caro, ex «consulente speciale» di due ministri dei Beni culturali, arrestato il 24 maggio con l'accusa di aver rubato centinaia di libri antichi dalla Biblioteca dei Girolamini a Napoli, di cui era diventato direttore tra molte polemiche. Mentre i magistrati partenopei continuano a indagare sui maxi-furti addebitati a De Caro (che dopo il ritrovamento a Verona dei primi 257 preziosi volumi, ora è sospettato di averne trafugati più di 2.200), la Procura di Firenze ha scoperto le carte di un'altra inchiesta. La nuova accusa che accomuna De Caro e Dell'Utri è una presunta corruzione: tangenti per favorire l'espansione in Italia del gruppo Avelar-Renova, un colosso dell'energia controllato da un miliardario russo con base in Svizzera. Seguendo la pista degli affari i carabinieri del Ros hanno intercettato De Caro per mesi, fino all'arresto per i libri rubati. Le telefonate considerate rilevanti svelano la sua rete di relazioni nei ministeri e nello staff di Palazzo Chigi. Un ruolo conquistato grazie al legame con Dell'Utri e i parlamentari più fedeli al senatore, che nel '93-94 fu il creatore del partito-azienda di Berlusconi. 

DALLA RUSSIA CON DE CARO
 . Tra aprile e maggio 2009 Dell'Utri incassa 409 mila euro sul suo conto al Credito Cooperativo Fiorentino, la banca allora guidata dal coordinatore del Pdl Denis Verdini, poi commissariata dopo l'indagine sulla "cricca" degli appalti. A versargli quei soldi è il bibliofilo De Caro. Sulla carta è il prezzo di una «epistola di Cristoforo Colombo del 1493». Per i giudici di Firenze, però, la giustificazione «è del tutto fittizia»: Dell'Utri non aveva quell'incunabolo, mentre De Caro gli ha girato soldi che aveva a sua volta ricevuto dai russi di Renova, di cui fino al 2009 fu manager (come rivelò "l'Espresso" del 22 dicembre 2010). Dunque quei bonifici, secondo i pm, servivano in realtà a comprare «l'influenza del senatore Dell'Utri sulle amministrazione pubbliche», per assicurare al gigante straniero, che in Italia fattura già un miliardo, nuove concessioni «di rilievo strategico», come i giacimenti di gas lucani a Grottole Ferrandina e Pisticci. Con le prime perquisizioni finora è emerso solo questa accusa, ma l'inchiesta è più ampia. Le intercettazioni documentano altri interventi di De Caro sul crinale tra affari e politica. E il suo cellulare registra le manovre di Dell'Utri e dei «suoi» parlamentari per influire su leggi e fondi pubblici. Per loro, Mario Monti è «un problema». Ma tra i papaveri della burocrazia c'è chi appoggia «l'uomo di Dell'Utri» perfino mentre il senatore è in attesa del verdetto per mafia della Cassazione. 


MI MANDA ROMANO
. Nel marzo-aprile 2012, mentre è consulente ministeriale, De Caro si fa in quattro per favorire un progetto privato: un impianto fotovoltaico a Gela da 110 milioni di euro, «per un terzo coperti da contributi pubblici». L'imprenditore interessato è Paolo Campinoti della Pramac di Firenze, che è in cordata con il solito gruppo Renova del miliardario Viktor Vekselberg. Da Cipro, il colosso russo ha già versato 1,2 milioni a De Caro, che ne ha girati un terzo al senatore. Nel febbraio 2012 De Caro sta gestendo «un nuovo progetto con Saverio Romano», l'ex ministro delle politiche agricole imputato per mafia. Quindi annuncia a Dell'Utri che «lunedì 13 Campinoti mi fa visitare la sua fabbrica a Lugano, al ritorno mi fermo da lei». Il senatore commenta: «Ottimamente». In Svizzera De Caro non va in fabbrica, ma nell'ufficio di un avvocato del colosso russo. Il 23 marzo, al secondo «incontro riservato» a Lugano, partecipa anche un siciliano, Domenico Di Carlo: è il capo della segreteria di Romano e per i magistrati «rappresenta gli interessi dell'ex ministro». Prima e dopo ogni visita in Svizzera, De Caro va a rapporto da Dell'Utri. E per i giudici è molto sospetto che Campinoti voglia cedere ai russi i «costi non industriali e di contorno». «Oneri di compensazione ai comuni? No, ai privati....», ci scherza sopra un faccendiere lucano, che segnala a De Caro le pretese di un politico soprannominato "Ciaffaraffà".


PRESSIONI SU ORNAGHI. Nato a Bari nel 1973, De Caro ha nel curriculum solo un'impresa (liquidata) di libri antichi e il lavoro di lobby per i russi, quando viene nominato, il 13 aprile 2011, «consulente speciale» del ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan. In giugno diventa anche direttore della biblioteca dei Girolamini. E il 15 dicembre viene riconfermato dal nuovo ministro, Lorenzo Ornaghi, ex rettore della Cattolica, che però gli taglia lo stipendio a 40 mila euro l'anno. Dal ministero, De Caro tratta con politici e alti funzionari. Nel gennaio 2012 il senatore Elio Palmizio di "Coesione nazionale" gli annuncia un incontro con Ornaghi: «Mi ha chiamato il ministro, quindi ci vediamo prima noi per mettere giù tutte le cose da fare». All'uscita il parlamentare telefona a De Caro che «è andata bene»: «Abbiamo parlato di un sacco di cose. Con ordine: le deleghe lui non le fa scritte, però ci organizza l'incontro con il direttore generale delle biblioteche... Su Arcus mi ha detto che non c'è problema. Entro metà febbraio è operativo e da lì si parte per chiedere i soldi per le varie cose che ci interessano... Finché non si sblocca Arcus non posso fare un cacchio». Arcus è una società-cassaforte dei Beni culturali: secondo i carabinieri, il senatore pensava ai «suoi interessi». 

IMU ALLA CHIESA. Il 25 febbraio Dell'Utri è all'estero in attesa del verdetto per mafia. Alle dieci di sera De Caro gli chiede la sua approvazione a un «sub-emendamento sull'Imu della Chiesa» presentato dal senatore Salvatore Piscitelli: «Dove c'è un vincolo dei Beni culturali, non si deve pagare l'Imu... Ovviamente la Chiesa è d'accordo. Palmizio ha sentito il ministro Ornaghi che è contentissimo». Dell'Utri è «d'accordissimo»: «E' una cosa di giustizia, sottoscrivo». De Caro aggiunge: «Monti ha tagliato anche le agevolazioni per le dimore storiche, mentre noi con l'emendamento diciamo che deve continuare l'esenzione». Dell'Utri approva, «perché ci interessano le cose della Chiesa». L'unico problema è interno al Pdl: De Caro vorrebbe pubblicizzare «una delle prime cose che ha fatto la nostra corrente del Buongoverno», ma «Letta voleva andare dall'associazione delle dimore storiche a dire: vi ho difeso io». Al che Dell'Utri s'infuria: «E' un pezzo di m...». 


FALLO PER L'AMBIENTE. Il 15 marzo un funzionario delle Politiche agricole, Giamberto De Vito, segnala a De Caro l'imprenditore italiano C. che «vuole investire centinaia di milioni per le serre in Russia»: «Mi sono permesso di fargli avere la tua lettera d'intenti, che il ministro Catania non ha più portato avanti. Gli ho detto che hai un sacco di entrature». De Caro chiama subito l'imprenditore: «Vediamoci a Roma, ho l'ufficio al ministero dei Beni culturali...». De Caro era stato designato da Galan anche per il direttivo del parco del Gran Sasso, ma la nomina ora spetta ai nuovi ministri. Bisogna sapere se hanno già scelto un altro. Dopo una telefonata a Dell'Utri e un incontro con Romano, che vanta «ottimi rapporti con Catania», De Caro riesce a sapere che «non c'è ancora nulla di firmato»: glielo comunica il capo di gabinetto dell'Ambiente, che non è suo amico. Infatti De Caro gli telefona sotto falso nome: «Sono il dottor Tuzzi». 

PASSERA E LA REGIONE
. Il 27 gennaio De Caro fa il punto su un progetto di Renova in Basilicata: «Oltre al politico nazionale, lì è intervenuto, sul presidente della Regione, il ministro Passera, perché ha ricevuto una telefonata molto minacciosa dall'ambasciatore russo, dicendo che se non avessero dato questa concessione, avrebbe creato problemi tra Italia e Russia». De Caro racconta spesso balle che gli fanno comodo. Certo è che l'oligarca Vekselberg è davvero protetto da Putin. 

D'ALEMA E LA LIBIA
 . In gennaio De Caro tenta di ispirare un dossier contro Massimo D'Alema. Come presunta fonte cita l'amico pugliese Roberto De Sanctis, che lavorò con lui per i russi. «Roberto ha organizzato viaggi in Libia su mandato dell'altro quando era ministro, con aerei privati, per fare contratti con la società del gas libica. Ci sono anche scambi di lettere. Poi l'hanno presa nel sedere perché era calato il gas». Anche queste parole vanno prese con le pinze: l'amico di Dell'Utri può avere interesse a screditare D'Alema. Ma in altri casi De Caro parla direttamente con i politici.


L'AMICO POMICINO. Quando il governo Monti annuncia il taglio degli incentivi al fotovoltaico, l'imprenditore Campinoti cerca «una via politica per tenere Gela fuori dal quinto conto energia». In aprile incontra a Palermo l'ex ministro Paolo Cirino Pomicino, che promette aiuto: «Bisogna salvare il progetto». L'imprenditore si è indebitato per la crisi e il politico di Tangentopoli gli garantisce appoggi anche con le banche. «Sono a Roma, oggi rivedo il gran capo», lo rassicura, senza fare nomi al telefono. 

MARCELLO IN CASSAZIONE
. Il 9 marzo, mentre la Suprema Corte decide, Dell'Utri è all'estero. Quando esce la sentenza, è De Caro a passargli la moglie Miranda, che gli elenca gli amici in festa, da Verdini al senatore Riccardo Villari. Proprio De Caro è l'unico a sapere dov'è Dell'Utri: «Madrid? No, c'è un oceano di mezzo. Brasile? No: parlano spagnolo».


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/nuova-inchiesta-su-dellutri/2186911//2

venerdì 24 agosto 2012

E' Mario Monti la nostra vera emergenza italiana. Serve una Grande Visione per rimettere in sesto il prodotto Italia. - Sergio Di Cori Modigliani



Esistono i profeti, per chi percorre una via spirituale.
Esistono gli statisti, per chi segue una via politica e cerca punti di riferimento.
Esistono i leader, per chi è in cerca di una guida.
Esistono i Grandi Visionari: artisti, intellettuali, scienziati.
Preziosa categoria, essenziale, determinante. Non esistono (e non sono mai esistite) grandi civiltà sul pianeta che non abbiano prodotto, al proprio interno, i loro geni dotati di ampie visioni, a tracciare la strada. Ogni etnia ha i suoi, e molto spesso la visione è talmente ampia che travalica le frontiere e diventano visioni collettive, e il genio locale assurge a Mito, Icona, Totem. Senza questi Visionari non si va da nessuna parte.
E’ bene saperlo.
Esistono etnie scarse o avare o sfortunate, mettetela come vi pare. Non hanno mai prodotto un loro visionario decente. Nella maggior parte dei casi non sappiamo neppure quale fosse il nome di quell’etnia perché è scomparsa nel nulla, senza lasciare traccia. 2000 anni fa nel territorio attuale del Friuli esisteva una vasta popolazione che si chiamava “popolo dei Tencteri”, all’incirca 50 mila persone, tante per quell’epoca. Non accettarono l’imposizione della Lex romana. In un week end i romani li sterminarono, non sopravvisse nessuno. E come loro tanti altri popoli in tutto il pianeta. Non avevano Visionari.
La più indisciplinata etnia del pianeta, quantomeno dell’Europa, (cioè quella italiana), conflittuale, individualista, confusionaria, inefficiente, riottosa, faziosa, ecc., in teoria sarebbe dovuta scomparire da tempo, travolta dagli eventi, da etnie confinanti più solide, da antagonisti meglio organizzati. Invece ha retto benissimo all’impatto dei tempi. Tant’è vero che 2000 anni fa era il centro del mondo allora conosciuto; ma lo era anche 500 anni fa e 40 anni fa era punto di riferimento come società dinamica in evoluzione. L’Italia è attualmente la nazione più ricca d’Europa, la seconda potenzia industriale (ancora per poco) la prima industria manifatturiera (per altri due mesi) e –fatto ormai accertato- il principale dolore europeo, una spina sul fianco di chicchessia, un popolo composto da una manciata di milioni di facinorosi mitòmani i quali, però, guarda caso, sono in grado di allertare e minacciare la Russia, gli Usa, la Cina, la Germania. Quantomeno i loro interessi. Com’è come non è siamo il grattacapo principale del mondo occidentale.
Ma anche la loro delizia.
Come mai?
Per la quantità di Grandi Visionari.
Un nazista direbbe che è un fatto bio-genetico della “razza pura italiana”. Il fatto è che la razza italiana non esiste. Mi dispiace per i nazisti, è un loro delirio e dei cretini che ci credono. Ci hanno provato i leghisti a sostenere quest’ipotesi fallimentare, poveretti, ancora ci provano.
Secondo gli antropologi americani e svizzeri (che si sono occupati della questione) il fatto deriva da una commistione di eventi fortunati; l’Italia è davvero il Bel Paese, il che induce ad alimentare e aumentare molto velocemente l’ispirazione interiore per la straripante quantità di bellezze naturali e culturali, armoniche e sintoniche, da cui tutti gli italiani sono circondati fin dalla nascita. Inoltre, sostengono questi signori, è sempre stata amministrata da gente corrotta da almeno 1000 anni, e quindi, automaticamente, induce -chi pensa- ad astrarsi, a chiamarsi fuori, a elaborare una propria visione del mondo e delle idee “fuori” dal sistema vigente, dando per scontato che il sistema non farà funzionare nulla, non seguirà nulla, il che spinge verso l’indipendenza autonoma di pensiero.. In 99 casi su cento si diventa matti, si va fuori di testa, si vaneggia, si attuano comportamenti deprecabili. Ma nel centesimo caso si è in grado di vedere talmente al di là, e talmente in profondità, che l’intera umanità finisce per guadagnarci e si evolve grazie a noi. Siamo, quindi, utili. E’ talmente riconosciuto da tutte le scuole antropologiche che nelle università statunitensi hanno coniato il termine IG factor “la variabile del Genio Italiano”.
Se ancora non ci hanno sterminati è perché tutti sanno che siamo in grado di far di tutto, nel bene e nel male, in quanto etnia estrema. C’è un unico modo per distruggere l’Italia, anzi, gli italiani.
Non è con le bombe o i bombardamenti. Se quattro sopravvivono, si rimboccheranno le maniche e poco a poco ricostruiranno: Esistono precedenti (e tanti) negli ultimi 1000 anni.
Con i dittatori se la bevono soltanto all’inizio e per un po’, poi si stufano. Un popolo cinico non crederà mai a un dittatore più di tanto. Non funziona neanche questo.
Forse bisogna vivere all’estero per comprendere, a distanza, la nostra grandezza.
Secondo gli antropologi statunitensi, un elemento fondamentale del genio italiano consiste nella “capacità alare del pensiero collettivo che consente la produzione duttile di idee”.
La duttilità e la flessibilità –in termini bio-darwiniani equivale a “capacità di adattamento”- è, a detta di tutti gli scienziati sociali, l’arma in più dell’etnia italiana.
Un esempio valido per tutti, che scoprii per caso quando uscì un film famoso di Hollywood dove, l’evento, è stato censurato e poi manipolato a fini nazionalistici. Ricorderete il film (forse soltanto alcuni lo hanno visto) si chiamava “Apollo 13”, era del 1995, con Tom Hanks, sulla missione Apollo con un’avaria a bordo, da cui il celebre logo-mantra-brand “Houston, we’ve got a problem” assurto, nel linguaggio quotidiano statunitense, a termine consueto colloquiale. Mi informai. Venni a sapere che nel centro Nasa spaziale americano dove lavorano migliaia e migliaia di scienziati provenienti da tutto il mondo, uno specifico e piccolissimo segmento “operazioni di assoluta inattesa emergenza in volo” era affidato (dalla missione Apollo in poi)  a due ingegneri astrofisici italiani, considerati i migliori al mondo nel trattare, affrontare e risolvere i problemi dell’emergenza tecnica. Proprio grazie all’avventura dell’Apollo, risolta in un modo folle. Gli americani sono disciplinati, rigorosi, seguono il “by the book” (il libretto delle istruzioni) applicano regole, codici, software. I tecnici, per loro, sono persone altamente competenti e qualificate in grado di applicare “il manuale” alla perfezione, come si dice in gergo italiano, per l’appunto da manuale. Quando arrivò la comunicazione dallo spazio, a Houston si riunirono tutti i cervelloni consultando tutti i loro libretti. Sgomento e tragedia: non c’era scritta la soluzione. Coinvolsero tutto il personale qualificato immediatamente. I due italiani presenti (in linea gerarchica contavano poco) esperti in “diodi e conduttori di elettricità” chiesero di poter parlare con la navicella. Perché no, dato che non c’era scampo? Uno dei due aveva notato che il secondo astronauta masticava compulsivamente chewing gum. Informò il capo missione che lo guardò esterrefatto spiegando che se quell’astronauta si era portato, di nascosto, la gomma da masticare, allora era fatta. L’astronauta confermò. I due tecnici italiani, parlando con loro per radio, gli spiegarono di cavarsi di bocca la gomma, come e dove andarla ad appiccicare tra due cavetti perché la gomma arabica in assenza di gravità diventa un ottimo saldatore e conduttore di energia elettrica. Lo fecero. Funzionò. La notte, intervistato, questo tecnico italiano spiegò che lo faceva sempre da piccolo quando giocava con il suo trenino Rivarossi e certe volte la locomotiva si inceppava perché c’era un filo pelato; aveva scoperto che con la bubble gum funzionava. Gli scienziati americani ammisero che non sarebbe venuto in mente a nessuno di loro neppure in cento anni. Molti pensarono che fosse una favoletta, altri ci cedettero. Tant’è che da allora, il rispetto per la “duttilità” italiana è centuplicato. Certo, bisognava sapere con esattezza millimetrica dove andare ad appiccicare la gomma (erano esperti settoriali) ma bisognava, soprattutto, essere in grado di dimenticare il libretto d’istruzioni che, i due, confessarono più tardi di non aver mai neppure letto. Ma erano abituati, tra di loro, ad esercitarsi per trovare idee strampalate e ingegnose per risolvere problemi di emergenza in volo. Era il loro gioco preferito.
Siamo esperti riconosciuti in emergenza.
Risolvere le emergenze ed essere in grado di inventarsi soluzioni, fa parte della nostra tradizione culturale.
Ricordo qualche anno fa, credo che fosse il 2007 o giù di lì, quando vivevo ancora in California. Andai all’edicola a comprare il quotidiano “Los Angeles Times”, circa un milione e mezzo di copie al giorno. A caratteri cubitali (in prima pagina, fatto inusuale) c’era scritto “Galileo Galilei was right!”. All’interno una decina di pagine dedicate all’evento in seguito alla notizia che da Pasadena, dal Jet Propulsion Laboratory, era arrivata ufficialmente: la sonda Voyager, dopo anni di volo, era finalmente arrivata ed entrata dentro l’atmosfera del pianeta Giove e l’immissione in orbita funzionava. Aveva cominciato a trasmettere dati. Di Giove si sapeva che aveva le quattro lune (o pianetini), tutti i potenti telescopi elettronici lo confermavano, chiamati da Galileo –che li aveva scoperti-  “pianeti medicei” in onore dei Medici che finanziavano le sue ricerche. Ma c’era anche un unico, piccolo piccolo, ma pur sempre un’ombra, “errore” attribuito a Galileo, che tra gli scienziati statunitensi gode di assoluta devozione e reverenza. Galileo aveva stabilito che c’erano quattro pianetini-lune e poi altri 14 astri. Il bello è che lo aveva stabilito osservando il tutto con un telescopio da lui inventato piuttosto rozzo. Il grande genio pisano, scocciato dagli scettici (la serie di allora dei dammi il link) si era sentito costretto a inventare il telescopio per provare ciò che lui vedeva e sapeva, grazie ai suoi calcoli. Per lui, avere o non avere il telescopio era uguale. L’intera costruzione del suo sistema di pensiero si basava su un concetto che lui definì “la matematizzazione dell’universo”. Si poteva “vedere” e capire l’intera struttura dell’universo dalla sua nascita e quindi “captare” la strada del futuro per tutti gli esseri umani, standosene nella propria stanzetta a fare i conti. Certo, il genio (e l’abilità tecnica) consisteva nel sapere che conti fare e come farli. Lui lo spiegò. Gli scienziati moderni, invece, sostenevano che erano soltanto 13 gli astri. La sonda Voyager mostrò con immagini fotografiche l’intera mappatura stellare del pianeta Giove, impossibile da vedere anche con i più sofisticati telescopi; corrispondeva pienamente ai calcoli astrofisici di Galileo. Quando uscì la notizia c’era un braccio di ferro tra la California e il governo Bush per i tagli alla ricerca scientifica e questo evento della Voyager venne usato per portare avanti la battaglia per avere finanziamenti. Galileo Galilei, in quegli anni in Usa, divenne l’emblema e il simbolo della lotta dalla parte della cultura e della ricerca scientifica. Uno dei tanti articoli titolava “Se noi non siamo in grado di fare come i Medici nel XVII secolo, non produrremo mai più un altro Galileo. E un altro Galileo è ciò di cui oggi gli Usa hanno bisogno, molto di più della guerra in Iraq”. C’era di che essere orgogliosi, in quanto italiani.
Galileo Galilei era italiano.
E dopo di lui, nei secoli, tanti e tanti ancora. In tutti i campi.
E’ così che si stende l’etnia italiana: distruggendo l’humus che produce genialità creativa.
La si distrugge impedendo il dispiego dinamico che dà sfogo alla nostra proverbiale duttilità e flessibilità: la capacità di sapersi inventare il mercato.
Se volete impossessarvi dell’Italia e distruggere gli italiani, come etnia, non ci riuscirete con le bombe. Alla fine degli anni’70 la furia distruttiva dell’autonomia operaia legata alle brigate rosse, nella città di Roma, venne sconfitta e battuta dal genio politico creativo di Renato Nicolini che “inventò” la cosiddetta “Estate Romana”: restituì la città ai cittadini. La gente, invece di andare a sfasciare le vetrine optò per andare insieme a vedere un film alla Basilica di Massenzio e assaporare –alcuni per la prima volta nella loro vita- le bellezze dell’arte architettonica italiana. Ritornarono a socializzarsi, venne voglia di acculturarsi di nuovo, si inventarono nuovi mercati, si creò nuova ricchezza collettiva.

Riuscirete ad avere il paese in pugno se lo ingessate, se lo bloccate, se gli mettete un ostacolo dietro l’altro. E’ ciò che hanno fatto i partiti, in modo tale da presentarsi poi come unica medicina necessaria e sufficiente per poter aggirare o saltare l’ostacolo.
“Grazie a noi trovate lavoro; se non vi rivolgete a noi non vi assumono; se non vi fate segnalare, presentare, raccomandare da noi, nessuno baderà mai alle vostre idee, perché le vostre idee non valgono nulla, valiamo noi che siamo il tramite tra le vostre sciocche ambizioni e la possibilità di poterle realizzare. Noi siamo i custodi dei vostri sogni”. E così facendo, la gente, poco a poco, ha smesso di sognare.
E il popolo italiano quando sale, la notte, sulla torre di Pisa, non si mette a guardare le stelle sperando di vedere ciò che altri non avevano mai visto prima, ma spera soltanto che appaia il faccione bonario di Bersani o Alfano o Casini che mi daranno un posto fisso garantito dove poter marcire per il resto dell’esistenza.
Imbrigliate gli italiani e bloccate la loro creatività, la loro continua ansia di ricerca e di inventiva elegante, e avrete la nazione in pugno.
E’ ciò che hanno fatto ed è ciò che sta facendo Mario Monti, l’anti-italiano per eccellenza.
Auto-eletto a statista, sta imponendo un linguaggio finanziario extra-italiano per invadere anche subliminarmente la coscienza e l’inconscio collettivo della nazione. “Spending Review” è un termine orrendo, denso di minacce, di incognite, che per qualsivoglia italiano non suscita alcuna eco inconscia, quindi non incita a pensare. “Bilancio di spesa”, o “Revisione di Spesa” o “Controllo della Spesa” invece, è un termine più pericoloso, perché fa scattare automaticamente domande sensate, naturali, banali, reali, del tipo: “qual è il rapporto tra costo e beneficio?”. In Germania e in Francia usano termini nella loro lingua, altrimenti il popolo li sbranerebbe.
Perchè devo usare il termine “governance” invece di “gestione”?
Perché l’uso della parola inglese incute timore, reverenza, e non fa scattare nessuna sinapsi nel cervello; il nostro inconscio creativo e operativo si smuove in italiano. Mentre invece se si usa il termine “gestione” c’è molta gente che pensa subito in termini operativi e può capire che coloro “che ci gestiscono” non stanno facendo il bene del paese, stanno portando l’Italia indietro, non procurano alcun profitto all’azienda Italia, perché “non sono capaci di gestire”. Davanti a “governance” -.che è un termine finanziario- si traballa, scattano i sensi di di colpa e i complessi di inferiorità del provincialismo italiano e vi fa sentire piccoli piccoli. E’ ciò che vogliono. Che vi sentiate tutti piccoli piccoli.
Il ministro Passera ha lanciato (lui l’ha definita “la svolta rivoluzionaria che determinerà la crescita e l’occupazione dei giovani”) la sua idea innovativa di “un allargamento di start up tale da consentire il raggiungimento di target pre-definiti”.
Che cosa vuole dire?
Questo è un linguaggio da colonizzatori. Abbiamo gli stranieri invasori in casa.
Per quale motivo un giovane venticinquenne italiano, ad Asti o Benevento, che vuole dar vita a una impresa nata da una sua buona idea originale deve sapere che cosa vuol dire “start up”? Oppure “target”? La risposta è molto semplice: lo dice il software della pubblicità. Così si spingono gli italiani verso una realtà virtuale e li si allontana da quella reale. Si introduce il concetto che “la lingua italiana non fa mercato” o meglio “La Cultura non produce marketing”. E’ quello che vogliono, è quello che stanno facendo.
Stanno cercando di far abituare gli italiani a incorporare l’idea che se non si usano termini finanziari e pubblicitari coniati e diffusi dalle oligarchie finanziarie anglo-americane, non si può lavorare né vivere.
Hanno introdotto neologismi robotici pericolosi come “stato dell’arte” traducendo malamente e sguaiatamente l’originale americano (in inglese vuol dire “massima evoluzione tecnologica in quello specifico settore di mercato” e basta, cioè tutta un’altra cosa) sostituendolo a “stato attuale della situazione” per introdurre l’equivalenza inconscia che fa scattare delle sinapsi nel cervello per cui si identifica, in italiano “lo status quo” e “lo stallo” alla “realtà tangibile” facendo credere che si tratta di “creatività artistica”. E la truppa mediatica ha abboccato. Non è vero niente. Non è così. Usano questi termini per imbrigliare il cervello a tanta brava gente che loro disprezzano. Ma se usate invece il termine “stato attuale della situazione” allora il vostro cervello, anche se dotato di pochi strumenti culturali, penserà e vi farà capire che “in Italia non sta accadendo nulla, non sta succedendo nulla”. Anche un deficiente tocca con mano che è tutto fermo: non c’è lavoro, non girano soldi, non c’è mercato, non ci sono finanziamenti, se non per coloro che disciplinatamente accettano la malleveria dei partiti; avete anche la scelta: a destra il PDL, a sinistra il PD e al centro l’Udc.
Così si sfianca un’etnia e si assoggetta una nazione.
Funziona meglio delle bombe.
Si chiama “programmazione neuro-linguistica”, è la base della dominanza.
E’ la struttura portante di ogni dittatura.
Mario Monti è l’unico premier europeo che alle conferenze stampa e nei convegni internazionali parla una lingua che non corrisponde a quella della nazione che rappresenta. Lui lo può fare perché non è stato eletto. Infatti non è italiano. Lui rappresenta gli interessi della finanza oligarchica anglo-araba-statunitense e deve sempre ricordare a tutti che rimane fedele a loro che vengono prima dell’identità della nazione e della nostra etnia. Se Angela Merkel andasse in Inghilterra e accanto a Cameron, davanti ai giornalisti, parlasse inglese, verrebbe sfiduciata immediatamente dal parlamento; a Hollande penso che gli sparerebbero (i suoi).
Il messaggio che Mario Monti veicola è quello di considerare priva di valore la lingua italiana, una lingua che lui ha stabilito “non essere una lingua colta” perché lui non è il frutto di una cultura nazionale, è un impiegato di multinazionali estere. In vacanze non va a Portofino, a Ravello, a Venezia, nel Mugello, a Macugnaga, a Taormina, a San Benedetto del Tronto, a Positano o in altri 10.000 posti meravigliosi che esistono in Italia. Lui no. Va a Saint Moritz in uno specifico quartiere selezionato dove vanno soltanto banchieri e finanzieri internazionali. Sono le uniche persone che frequenta.
E per il potere, il “simbolico” è sempre fondamentale. E’ il loro nutrimento basico.
Il segnale che vuol dare è chiaro: “non sono un italiano, quando voglio rilassarmi con gli amici, sto con la finanza, le banche e l’oligarchia che conta, ma fuori dall’Italia”.
Ascoltatelo con attenzione e vi accorgerete che parla come un software; è incapace di selezionare sintagmi e strutture grammaticali in lingua italiana senza introdurre locuzioni anglofone e terminologie avulse dal lessico nazionale.
Non parla mai di noi. Non parla mai a noi.
Si parlano soltanto tra di loro.
Chi conosce questo blog sa quanto sia sempre stato (e sia tuttora) iper-critico nei confronti della nostra etnia italiana. Riconfermo il tutto, ma ci aggiungo anche la grande memoria storica dell’ingegno, creatività e talento imprenditoriale, scientifico e artistico che ci ha sempre contraddistinti, con immensa invidia da parte di tutti. Quello è il nostro tesoro.
Perdurando questo stato di cose, l’Italia finirà fuori da tutto.
Perché avrà perso gli italiani.
Perché agli italiani hanno sottratto il Senso della propria identità.
E’ quella che bisogna recuperare per ritrovare la vitalità, l’inventiva, la curiosità, la voglia di fare: basta sottrarsi alle suggestioni malevole e interessate di chi vuole seguitare a ingessare una nazione.
E’ necessario ricostruire una classe intellettuale pensante in grado di fornire ai giovani strumenti operativi utili. Dobbiamo cominciare a muoverci, in fretta. Innescare dinamiche di cambiamento comportamentale. Scuotersi dal torpore. Iniziare da settembre a vedersi, spostarsi, andare, venire, contattare, confrontarsi, dibattere, scambiarsi idee, formule, dovunque e comunque, senza più farsi terrorizzare dalle cifre, gli spread e aliquote che saranno sempre fuorvianti. Perché false. Non rappresentano le persone.
Dobbiamo recuperare il gusto della narrativa esperienziale individuale e poi farla collettiva.
E così cambieremo la sceneggiatura del film della nostra vita italiana.
Per ritrovare il gusto e la voglia di salire sulla torre di Pisa a guardare il firmamento con o senza cannocchiale; osservare le stelle per capire dove stanno e come si muovono e che cosa hanno da insegnarci.
L’alternativa non è il baratro del default. Nell’inevitabile confusione, nel caso si dovesse verificare, il genio italiano riuscirebbe a prevalere, a manifestarsi, a Essere. Molto meglio dell’immobilità attuale, della paralisi stagnante, dell’ingessatura deprimente.
Paralizzati dallo sgomento, da italiani si diventa italioti.
E’ ciò che vogliono: che gli italiani salgano sulla torre di Pisa e osservino le stelle pregando loro che convincano la cugina di mamma a telefonare alla moglie di quel deputato che conosce per riuscire ad ottenere quello straccio di posto che vi pure schifo.
Vi vogliono convincere a tutti che è l’unica alternativa esistenziale praticabile.
Non è vero.
In ogni italiano aleggia la sapienza di Galileo, la musicalità di Rossini, la conoscenza psicologica umana di Pirandello, l’ardore imprenditoriale di Olivetti, i sublimi squarci sulla tela di Fontana. Ci sono. Sono reali. Esistono. Non vogliono che si manifestino.
Dobbiamo andarceli a cercare, fintantoché non li avremo trovati.
Cominciando, innanzitutto, da noi stesi.
Se non altro per una questione di orgoglio nazionale.
E’ un’ottima medicina per guarire l’identità.
Molto meglio del piagnisteo di regime e le loro orrende minacce sulla non esistenza del futuro. Non date retta al premier. Non è una profezia, la sua.
E’ soltanto la bieca minaccia di uno squallido ragioniere privo di argomentazioni solide, il quale vive nel quotidiano terrore di non riuscire a farla franca ed essere smascherato.
E l’unico maniera per sottrarsi al potere delle minacce consiste nel non farsi spaventare.
Il governo vi minaccia, tutto qui.
Basta fare bleah, e la paura passa.
Il futuro esiste se noi vogliamo che esista. E’ il potere dell’auto-profezia.
Mario Monti, invece, vi vuole depressi e avviliti e pieni di paura.
Non dategli retta.
Non fatevi spaventare, e poi, rimettetevi con calma e devozione a fare il disegno che stavate facendo prima che questa massa di tecnici interrompesse il vostro viaggio. E quando dico tecnici, voglio dire anche e soprattutto Berlusconi, lui è sempre stato solo e soltanto un “abile tecnico pubblicitario” e niente di più. Mario Monti è un suo prodotto.
Il “prodotto Italia” è ben altra cosa e non può essere lasciato nelle mani dei tecnici.
Perché siamo in emergenza e dobbiamo organizzarci per conto nostro.
Ci vogliono i Grandi Visionari.
Galileo Galilei docet.
Buon week end a tutti.

Fisco, i capitali occulti dei nababbi valgono più del Pil di Usa e Germania. - Mauro Del Corno


yacht di lusso interna nuova

Più ricco sei, meno tasse paghi: lo scrive il rapporto "Tax Justice Network", scritto da giuristi ed economisti. In tutto la cifra tolta al fisco arriva fino a 32mila miliardi di dollari. Questo grazie alle banche d'affari di tutto il mondo. E l'Italia non fornisce neanche i suoi dati. L'economista Henry al Fattoquotidiano.it: "Cifre talmente ingenti da falsare persino le statistiche sul livello di diseguaglianza tra i paesi".

Più ricco sei, meno tasse paghi. Piaccia o no, ci si indigni o si faccia finta di niente, nel mondo globalizzato dove le grandi banche d’affari possono fare tutto quello che vogliono funziona esattamente così. A scriverlo a chiarissime lettere è il recente rapporto di Tax Justice Network, gruppo di esperti giuristi ed economisti che si battono per una maggiore giustizia sociale e che denunciano come i nababbi di tutto il mondo abbiano sinora occultato al fisco tra i 21mila e i 32mila miliardi di dollari. Una cifra che equivale al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme e che sarebbe ancora più spropositata se l’indagine non si limitasse alle ricchezze finanziarie ma prendesse in considerazione anche yacht, collezioni d’arte, ville, appartamenti o quant’altro.
Spaventa anche il ritmo con cui questa montagna “invisibile” di denaro continua ad alzarsi, dal 2005 ad oggi l’incremento è stato infatti del 16% l’ anno. I fortunati detentori di queste sterminate ricchezze sono in tutto 10 milioni ma all’interno di questa comunità di miliardari esiste una super elite composta da appena 91mila persone (lo 0,001% della popolazione globale) a cui è riconducibile un terzo dell’intero tesoro, vale a dire circa 10mila miliardi di dollari. Ne fanno parte miliardari del software e delle nuove tecnologieimmobiliaristi cinesi e sceicchi ma anche soggetti con cui ufficialmente nessuno vorrebbe avere a che fare come grossi narcotrafficanti messicani o sanguinari dittatori africani.
I dati sono frutto delle ricerche di James S. Henry che incrociando un’infinita serie di cifre del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite e della Banca dei regolamenti internazionali è riuscito a tratteggiare la mappa del tesoro. Un passato da capo economista di McKinsey (società di consulenza manageriale) e poi una nuova vita come autore di articoli e libri di denuncia sulle malefatte della grande finanza internazionale (da ultimo il libro inchiesta “The blood bankers”) , Henry spiega al Fattoquotidiano.it: “Quelle nascoste nei paradisi fiscali sono cifre talmente ingenti da falsare persino le statistiche sul livello di diseguaglianza nei diversi paesi”. I dati ufficiali dicono ad esempio che negli Usa l’1% più ricco della popolazione possiede il 35% della ricchezza nazionale. Questo calcolo non tiene però conto di una bella fetta di quei 20/30mila miliardi spariti nel “buco nero” dei paradisi fiscali”. “Negli ultimi anni – continua Henry – gli economisti hanno quasi ignorato il problema della diseguaglianza all’interno dei singoli paesi concentrandosi piuttosto su quello della povertà assoluta. Hanno dimenticato quanto importanti e negative possano essere le conseguenze che un’ estrema polarizzazione della ricchezza produce in termini di coesione sociale ma anche di crescita economica”. “Tradizionalmente infatti – conclude Henry – ad un elevato livello di diseguaglianza si accompagna sempre un basso livello complessivo di consumi”.
Ci si può “divertire” ad immaginare quello che si potrebbe fare se questi 20mila miliardi ed oltre fossero regolarmente dichiarati e tassati. Valga un esempio su tutti: ipotizzando un rendimento del 3% annuo di questi capitali e una tassazione del 20% (come quella che si applica oggi in Italia alle rendite finanziarie) si otterrebbe un gettito tra i 120 e i 190 miliardi di dollari l’anno. Significa quasi il doppio dei fondi stanziati annualmente da tutti i paesi Ocse per l’assistenza alle nazioni in via di sviluppo.
Dietro questa gigantesca truffa globale ci sono praticamente tutti i più grandi gruppi bancari occidentali definiti nel rapporto “attori chiave per sostenere il sistema globale dell’ingiustizia fiscale”. Le due banche in assoluto più attive nell’agevolare la fuga dalle tasse dei loro facoltosi clienti sono le svizzere Ubs, che attraverso le sue filiali ha trasferito nei paradisi off shore 1.700 miliardi di dollari (in pratica come “insabbiare” l’intero Pil italiano) e Credit Suisse che si è “limitata” a 933 miliardi. Terzo gradino del podio, con 840 miliardi di dollari, per la statunitense e immancabile Goldman Sachs. Proprio a questa banca d’affari il presidente del Consiglio Mario Monti che si dichiara “in guerra contro l’evasione fiscale” ha recentemente affidato la valutazione di asset e partecipazioni dello Stato in vista di una loro possibile cessione. Nella top ten compaiono anche Bank of America (643 miliardi), HSBC (390 mld), Deutsche Bank (367 mld), Bnp Paribas (338 mld), Wells Fargo (300 mld) e Jp Morgan (284 mld). In molti casi, ricorda il rapporto, si tratta di banche che hanno ricevuto sostanziosi aiuti pubblici durante la crisi del 2008 e senza i quali sarebbero molto probabilmente fallite.
Come fa notare James S. Henry “quello del private banking internazionale è un settore estremamente profittevole che negli ultimi 30 anni è letteralmente esploso grazie alla globalizzazione e alla scomparsa di qualsiasi barriera alla circolazione di capitali”. Funziona così: “Le grandi banche d’affari vanno a caccia di soggetti con patrimoni dai 2 milioni di dollari in su ed offrono loro una sorta di pacchetto completo di servizi che comprende anche il trasferimento di asset in paesi dal regime fiscale estremamente favorevole”. Di solito “tra la banca e clienti di questo tipo si instaura un rapporto di grande fiducia. La banca offre garanzie in termini di ritorno dell’investimento e il cliente da all’istituto carta bianca nelle modalità di gestione”.
Henry racconta di aver ripetutamente chiesto alla Banca dei regolamenti internazionali (una sorta di banca centrale delle banche centrali) i dati e le cifre relative ai singoli paesi ma di aver sempre ricevuto in cambio un cortese ma intransigente rifiuto. Italia compresa. In compenso la Bri ha promesso che renderà accessibili queste cifre dopo il 2014.
Si può provare ad azzardare un calcolo di massima ipotizzando che i capitali di origine italiana abbiano un incidenza pari a quella che il Pil italiano ha sul Pil globale (2,5%). In tal caso si tratterebbe di una cifra oscillante tra i 500 e i 750 miliardi di dollari da cui il nostro fisco non otterrà però neppure un euro. Di fronte a questo trionfo di individualismo a danno della collettività vale forse la pena ricordare le parole di uno degli uomini più ricchi del mondo. Il finanziere statunitense Warren Buffet che ancora nel 1995 affermò “personalmente credo che la società sia responsabile di una percentuale molto rilevante di quello che ho guadagnato. Se mi cacciaste nel mezzo del Bangladesh, del Perù o di qualche altro posto, scoprireste quanto può produrre questo talento nel terreno sbagliato. Dopo trent’anni starei ancora lottando”.