martedì 1 gennaio 2013

L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti. - Sara Nicoli


L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti


Il presidente della Repubblica aveva iniziato il 2012 con tutti gli onori, dopo il "capolavoro politico" che aveva portato il professore a palazzo Chigi, blindandolo con la carica di senatore a vita per tenerlo a distanza dalle lusinghe della politica. Ma, alla fine, non è andata così. Il Capo dello Stato ha dovuto incassare anche la sconfitta politica del mancato cambiamento del Porcellum. Oltre allo smacco personale per le telefonate con Mancino, indagato nell'inchiesta sulla Trattativa.

“Un’altra legislatura perduta” per le riforme istituzionali: “Le aspettative, createsi un anno fa con il governo Monti, erano troppo fiduciose”, il “sussulto di operosità riformatrice” è però stato “frenato da resistenze”. E che resistenze. E’ forse questo il passaggio più amaro dell’ultimo anno di Giorgio Napolitano al Quirinale. Nonostante i molteplici sforzi, la “missione” di cui si era fatto carico all’inizio del suo mandato, quella di imprimere una forte scossa riformatrice all’architettura stessa dello Stato, si è scontrata con un Parlamento governato prima dal conservatorismo e dalle leggi ad personam, poi dall’emergenza economica sul finale di legislatura. Per giunta, quello che era stato salutato come il suo capolavoro politico – costringere Berlusconi alle dimissioni dando l’incarico a Monti senza alcuna sbavatura istituzionale, ma con grande attenzione ai dettagli normativi – gli si è poi rivolta contro, non appena Mario Monti si è svestito dei panni del tecnico per indossare quelli del politico. E, ulteriore smacco, usando come “predellino” l’anno di governo e l’agenda di salvataggio dell’Italia in Europa che Napolitano aveva concorso a scrivere. Un vero tradimento. La “brusca conclusione della legislatura” non ha concesso a Napolitano di governarlo. Tante cose sono sfuggite di mano all’11esimo presidente della Repubblica in questo suo ultimo tratto di cammino sul Colle più alto. Quest’ultimo anno, in particolare, è stato davvero gonfio di mille amarezze, quante neppure Berlusconi, con il suo perdurare a palazzo Chigi all’insegna delle proposte di leggi che lo salvassero dai processi, gli avevano dato nel corso degli anni precedenti. Davvero un “annus horribilis” per re Giorgio. Che adesso, come ultima delusionerispetto ad un percorso che lui stesso si era già disegnato (e che è fallito) dovrà pure dare l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. Se sarà Monti, la sconfitta potrebbe essere ancora più bruciante.
Un boomerang chiamato Mario Monti - “È giunto il momento della prova, il momento del massimo senso di responsabilità. Non è tempo di rivalse faziose né di sterili recriminazioni. È ora di ristabilire un clima di maggiore serenità e reciproco rispetto. Operiamo tutti, nei prossimi mesi, per il bene comune, facendo uscire il paese dalla fase più acuta della crisi finanziaria. Questo, credo, è ciò che l’Italia si augura”. Era il 13 novembre del 2011. Silvio Berlusconi aveva appena lasciato, dimissionario, il Quirinale e a Mario Monti era stato appena conferito l’incarico di formare un nuovo esecutivo tecnico di emergenza nazionale. Napolitano, autore del progetto del cambio della guardia “morbido” a palazzo Chigi è stato acclamato per giorni come “re Giorgio”, colui che aveva chiuso di botto il ventennio berlusconiano senza che alcun trauma visibile potesse scuotere i mercati internazionali assetati di “sangue” nazionale. Un capolavoro d’astuzia, si disse. E anche una conoscenza profonda dei dettami costituzionali, sfruttate in modo forse inconsueto, ma in modo da fargli centrare l’obiettivo previsto.
Il “capolavoro”, soprattutto, consisteva nell’aver “blindato” la figura di Monti con la carica disenatore a vita in modo da tenerlo a distanza dalle lusinghe e dai trabocchetti della politica. E consentirgli di portare a termine il suo compito senza avere l’assillo di doversi misurare con gli elettori e le urne. Poi, però, Monti ha cominciato a mostrare debolezze e altre fragilità. Ha messo a segno alcuni provvedimenti molto discussi come la legge sul lavoro e quella sulle pensionimentre ancora gli “osanna” sulla sua nomina erano messaggi quotidiani al popolo elettore. Napolitano, all’inizio, ha retto il gioco. E la consuetudine con Monti, nonostante qualche piccolo screzio, è proseguita feconda fino al mese scorso, quando la vanità e le pressioni internazionali (quelle del Ppe, soprattutto) hanno reso evidente a Napolitano l’errore commesso. “Mi trovo a dover chiarire – ecco dunque l’ammissione di Napolitano, il 18 novembre scorso – che su di me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò assolvere nel novembre del 2011”. Amarezza vera, dunque. E, forse, neppure la più pesante.
La successione sfumata - Si disse, nel novembre del 2011, che con l’incarico a Monti, Napolitano si fosse anche scelto il suo successore “naturale” alla guida del Paese. Un’ipotesi che Napolitano non ha mai ufficialmente negato. Oggi, dopo la “salita” di Monti in politica, anche quel desiderio (legittimo, almeno nei primi e peggiori momenti della crisi) trova meno concretezza; Monti potrebbe tornare a palazzo Chigi, si diceva. Alla guida di un governo politico, stavolta, ma che comunque sarà classificato come Monti bis. Per il nuovo inquilino del Quirinale, insomma, la partita oggi è più aperta che mai. Chissà se anche questa, tra le tante, è un’amarezza.
Il naufragio annunciato della legge elettorale - Delusioni e sconfitte, dunque. La più feroce delle quali riguarda senz’altro la legge elettorale. Che i partiti non fossero in alcun modo intenzionati a sostituire l’adorato (per loro) Porcellum lo si era capito da tempi immemorabili, prima ancora che la questione esplodesse a Parlamento chiuso per le vacanze estive. E con i due presidenti delle Camere, Fini e Schifani, che in barba ad ogni prudenza andavano annunciando l’apertura straordinaria delle Camere proprio per discutere dell’annosa questione. Su questo punto, Napolitano si è dimostrato nel tempo peggiore di un martello pneumatico. Proprio l’11 agosto scorso, a saracinesche parlamentari abbassate, il Presidente della Repubblica esplose in un richiamo ai partiti di rara forza: “Resto inquieto nel non vedere ancora vicine ad un approdo le discussioni, che procedono verso continui alti e bassi, su una nuova legge elettorale”. E ancora: “Debbo ricordare – si leggeva in una missiva inviata proprio a Fini e Schifani – che su questa materia consultai nel gennaio scorso i rappresentanti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ricevendone indicazioni largamente convergenti anche se non del tutto coincidenti a favore di una nuova legge elettorale”. Tutto è stato vano. Anche se ci ha provato fino all’ultimo, fino al 28 novembre scorso, in pratica fuori tempo massimo: “Rispettate gli impegni – intimò ai partiti – si tratta di una riforma essenziale per la vita democratica”. Non è stato ascoltato.
La trattativa Stato-Mafia - Giorgio Napolitano ha voluto combattere una battaglia personale contro chi aveva solo osato immaginare la possibilità di un suo intervento sui giudici di Palermo per “salvare” l’ex ministro Nicola Mancino, indagato nell’ominima inchiesta della Procura siciliana. E’ stato il Fatto Quotidiano, il 16 giugno del 2012, a svelare, con una intervista al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, l’esistenza di pressioni esercitate da Mancino su Napolitano. Ed è scoppiato l’inferno. Il 20 giugno, al culmine di una campagna a tappeto del Fatto, è emersa con chiarezza la strategia messa in atto dal Colle per coprire Mancino. Napolitano ha dato fuoco alle polveri. Ci si sarebbe aspettati dal Presidente della Repubblica un’operazione opposta, di pura trasparenza. Che, invece, non è arrivata. Anzi. Proprio per ribadire l’insindacabilità di ogni suo atto,il Capo dello Stato ha sollevato un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Un atto di forza nei confronti della Procura di Palermo su cui, alla fine, l’ha avuta vinta, anche se l’intera vicenda resta pesante come un macigno sull’intero mandato istituzionale. Tutto resta ancora da chiarire.
Il silenzio su Ilva e esodati - Nel frastuono delle polemiche sulla trattativa Stato-Mafia, Napolitano ha omesso di fare pressione su due casi che restano ferite aperte nella vita sociale del Paese. Il capitolo “esodati” e l’altro, senz’altro scottante, dell’Ilva di Taranto. Ebbene, sul primo fronte, trattandosi di un macroscopico errore di calcolo (solo?) commesso dal governo Monti, Napolitano si è limitato a dire che la questione “restava da chiarire” all’interno delle “ineludibili riforme” avviate dal governo. Frasi pronunciate il primo maggio del 2012 (la festa del Lavoro, una beffa?) e oggettivamente troppo sintetiche per essere considerate una vera e propria presa di posizione. Un’emergenza trattata, forse, con troppa leggerezza, al pari della questione Ilva, liquidata il 29 novembre scorso come troppo complicata per mandare messaggi”
La battaglia contro “l’antipolitica” - Il termine, coniato un po’ a casaccio per classificare un fenomeno politico di rottura con il sistema esistente, è stato brandito da Napolitano come una clava per colpire un solo personaggio: Grillo. L’invito al Paese è stato quello a tenere duro, “senza abbandonarsi a una cieca sfiducia nei partiti – ecco l’arringa del Presidente del 25 aprile – come se nessun rinnovamento fosse possibile, e senza finire per dar fiato a qualche demagogo di turno”. In quell’occasione, Napolitano prese in prestito un pezzo di storia: “Vedete, la campagna contro i partiti, tutti in blocco, contro i partiti come tali, cominciò prestissimo dopo che essi rinacquero con la caduta del fascismo: e il demagogo di turno fu allora il fondatore del movimento dell’Uomo Qualunque, un movimento che divenne naturalmente anch’esso un partito, e poi in breve tempo sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il Paese”. Quindi, il monito: “Ci si fermi a ricordare e a riflettere – disse – prima di scagliarsi contro la politica; rifiutare i partiti in quanto tali, dove mai può portare?”. Il dove non è ancora messo in evidenza, ma di certo Grillo ha rappresentato l’ennesimo schiaffo alla liturgia politica e sociale del Capo dello Stato. Rimarrà di certo negli annali la battuta che Napolitano regalò alle cronache dopo l’affermazione politica del Movimento 5 Stelle alle elezioni Regionali: “Non vedo il boom di cinque stelle”. L’ex comico se ne risentì. “Sono rimasto a bocca aperta, spalancata, come un’otaria – ecco la risposta – ho le mascelle che mi fanno ancora male. Là dove non hanno osato neppure i gasparri e i bersani ha volato (basso) Napolitano”. Grillo sfoderò la Costituzione ricordando che “il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (articolo 87 della Costituzione), dunque “rappresenta anche il MoVimento 5 Stelle e anche, dopo queste elezioni, i suoi circa 250 consiglieri comunali e regionali scelti dai cittadini. Il boom del M5S non si vede, ma si sente. Boom, boom, Napolitano!”. Se anche questo non è uno schiaffo…
E che dire della nomina di Saverio Romano a Ministro, anche se con riserva?

Pierferdinando Casini: «I nostri candidati passeranno l'esame Bondi».



Su Twitter, Pierferdinando Casini commenta così la situazione, che prevede una lista comune al Senato e liste separate alla Camera, con Mario Monti che si arrogherà il diritto di dire la sua sui candidati grazie al selezionatore, il commissario alle liste Enrico Bondi
Il leader dell’Udc è sicuro, insomma, che, oltre all’appoggio all’Agenda Monti, saprà anche dare il suo sostegno alla neonata coalizione proponendo candidature che non avranno problemi a superare l’esame di Bondi.
Su Repubblica vengono riportate altre parole di Casini:
«Alla fiera delle promesse rispondiamo con il coraggio delle verità. Da oggi si apre una fase di responsabilità, basta con la demagogia e le false promesse».
Il quotidiano romano aggiungeva anche:
«Precisando però che sarà lui a scegliere i candidati dell’Udc. E che Cesa sarà candidato».
Forse è a questo che si riferisce Casini quando parla di “zizzania”?
La Repubblica su Casini