giovedì 3 gennaio 2013

Direzione nazionale antimafia, ridate quel posto a Caselli. - Benny Calasanzio Borsellino


Dopo lo “spostamento” di ruolo di Pietro Grasso da procuratore nazionale antimafia a candidato del Partito Democratico alle prossime elezioni politiche (“il Pd è la mia casa”, e gente come Vladimiro Crisafulli il suo coinquilino), si è aperta la corsa alla successione del magistrato palermitano che era stato giudice a latere nel maxiprocesso a cosa nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E si fanno già i primi nomi: dai più affascinanti ma che francamente hanno poche possibilità, come Ilda Boccassini e Roberto Scarpinato, a quelli più probabili, come Franco Roberti e Roberto Alfonso.
Durante la conferenza stampa in cui ha annunciato la sua candidaturaAntonio Ingroia ha provato a ristabilire una verità troppo spesso dimenticata: nel 2005, dopo la fine dell’incarico di Pier Luigi Vigna, il magistrato destinato a ricoprire la funzione di procuratore nazionale antimafia, a parere di molti, era Giancarlo Caselli. Il decreto legge del 20 novembre 1991, convertito il 20 gennaio successivo, all’art. 6 prevedeva infatti che “alla Direzione è preposto un magistrato avente qualifica non inferiore a quella di magistrato di Cassazione (Caselli lo era dal 1991, Nda), scelto tra coloro che hanno svolto anche non continuativamente, per un periodo non inferiore a dieci anni, funzioni di pubblico ministero o giudice istruttore, sulla base di specifiche attitudini, capacità organizzative ed esperienze nella trattazione di procedimenti relativi alla criminalità organizzata. L’anzianità nel ruolo può essere valutata solo ove risultino equivalenti i requisiti professionali”.
Dal 15 gennaio del 1993, giorno dell’arresto di Totò Riina, fino al 1999 Caselli era stato procuratore capo a Palermo dando il via ad un’irripetibile stagione interrotta proprio dall’arrivo di Pietro Grasso, considerato, anche da molti magistrati di quella procura, un “normalizzatore”.
Ma il provvidenziale governo Berlusconi, grazie all’emendamento firmato dall’ex An Luigi Bobbio presentato nell’ambito della controriforma dell’ordinamento giudiziario, cancellò per sempre la possibilità che il canuto magistrato piemontese sedesse su quella poltrona. L’emendamento indicava infatti come tetto massimo per l’assegnazione degli incarichi direttivi l’età di 66 anni ed escludeva coloro che non potevano garantire quattro anni di presenza prima dell’età pensionabile. Mancava solo che ci fosse scritto che erano esclusi dalla “gara” tutti quelli che avevano un cognome che iniziasse con “C” e finisse con “aselli”. Anche se sembra (ed effettivamente era) una legge contra personam, che doveva far pagare a Caselli le sue indagini sui rapporti mafia politica, in testa il processo Andreotti, Piero Grasso accettò l’incarico senza fare una piega. Mors tua vita mea.
Nessuna sorpresa, dunque, quando nel maggio scorso, a pochi giorni dal ventesimo anniversario della strage di Capaci, Grasso fece la memorabile e blasfema dichiarazione: “darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. E per forza (Italia): senza Silvio e gli altri sventurati il buon Grasso mai sarebbe riuscito a diventare procuratore nazionale, sovrastato per esperienza, coraggio e carisma dal buon Caselli.
Per queste ragioni, dopo lo scippo del 2005, sarebbe giusto e soprattutto necessario, vista la carriera e le capacità unanimemente riconosciute a Giancarlo Caselli, che quel posto venga oggi assegnato, o meglio, ridato a lui.

martedì 1 gennaio 2013

Casa triciclo della Cina e giardino.





http://www.architizer.com/en_us/blog/dyn/70029/tricycle-house-and-garden/#.UOM0ZOScNTJ

Quella chiavetta lanciata nel cortile. Conoscere gli hacker per difendersi. - Claudio Campanella


Quella chiavetta lanciata nel cortile. Conoscere gli hacker per difendersi

Hack The Lab Xperience, questo il titolo di un workshop di due giorni nella sede storica dell’azienda Stonesoft, ad Helsinki in Finlandia. Dati, tecniche, esperienze e una storiella molto istruttiva.

HELSINKI - Il reale pericolo di un attacco informatico su larga scala non si percepisce appieno. C'è poco da fare. Come già accaduto in passato nella storia dell’uomo, potrebbe essere necessario un evento catastrofico reale e tangibile (milioni di persone senza elettricità o azzermento globale delle carte di credito, tanto per fare due esempi) perché i governi si rendano conto dell’effettiva gravità della situazione. E' questo il concetto con cui di Ari Vänttinen (VP Marketing diStonesoft, azienda finlandese all’avanguardia nelle tecniche e nei prodotti per la difesa dei network aziendali da tali attacchi), ha aperto il suo intervento al Hack The Lab Xperience tenutosi nei giorni scorsi a Helsinki. Parole da brivido, le sue.

Vänttinen ha spiegato come gli attacchi informatici siano, purtroppo, quasi invisibili ai normali software di difesa, in quanto scopo principe degli hacker è proprio quello di rimanere silenti e indisturbati all’interno di un network per poi colpire all’improvviso e dileguarsi senza lasciare traccia. Ecco perché molto spesso le grandi aziende che rilasciano dichiarazioni dell’avvenuto attacco infromatico non hanno quasi mai idea di cosa sia successo nei loro sistemi. Sono solo in gradi di dire che c’è stata un’intrusione. 

Di sicuro l'attenzione nei confronti del cyber-crime ha avuto un'impennata: basti pensare che nel 2011 il "guadagno" illegale dei crimini informatici ha molto probabilmente superato quello del traffico internazionale di stupefacenti. Di contro che dal punto di vista strategico l’attenzione ai sistemi di difesa comincia a entrare a pieno titolo nelle voci di un bilancio aziendale: spendere per firewall o antivirus non è più sotto la voce costi ma sotto quella investimenti. Perché prevenire è meglio che curare.

E' una fresca giornata di dicembre, a Helsinki sono le 8 e il termometro segna -18°. Un veloce passaggio in taxi per arrivare alla sede centrale su un’soletta dell’arcipelago antistante la capitale finlandese. Qui ci accoglie Otto Airama, Senior Network Security Specialist dell'azienda. Con lui, seduti ai nostri banchi come fossimo a scuola, apprenderemo, i rudimenti degli attacchi alle reti. Del resto Stonesoft è una dell’aziende europee all’avanguardia nelle tecniche e nei prodotti per la difesa dei network aziendali, con una sedi anche a Milano (il responsabile è Emilio Turani) e ad Atlanta (Stati Uniti). 

Dopo pochi minuti già ci accorgiamo di quanto sia semplice per un occhio ben allenato scoprire le falle di un sito o di un portale non ben protetto. Subito un esempio: ad Otto bastano pochi semplici passaggi per ottenere l’intera lista dei dati - nomi, cognomi, indirizzi, telefoni e numeri di carte di credito - di un portale per acquistare musica. Ma c'è di più: per ottenere queste informazioni, il nostro "prof" non ha fatto altro che utilizzare script e software assolutamente legali e scaricabili gratuitamente da internet, software a disposizione di chiunque per eseguire proprio test di vulnerabilità sui propri network. Ovviamente queste tecniche funzionano solo ladovve i gestori del sito abbiano sbadatamente lasciato porte aperte. Ma a dirla tutta - sorride Otto - non esistono network completamente sicuri. 

Per dimostrarcelo invita il vero hacker della situazione - un giovane dipendente della Stonesoft che sembra uscito da un libro di Gibson o Sterling con i suoi sandali ai piedi e il laptop ricoperto di adesivi pirateschi - a raccontare un episodio significativo di come spesso le aziende credono di essere davvero sicure nei confronti degli attacchi informatici. Si parla di un'azienda che si vantava della sua inattaccabilità poiché nessuna delle sue reti interne e nessuno dei suoi computer era connesso ad internet e quindi, secondo loro, invulnerabile per gli hacker. Ma questi decidono di adottare una tecnica evergreen che fa leva sull’atavica curiosità del genere umano. Non potendo entrare via rete, i pirati informatici caricano il loro virus su una chiavetta usb e poi con una fionda la lanciano dalla strada oltre il muro di cinta dell’azienda fino al parcheggio interno e si mettono in attesa. Non è necessario attendere molto, per altro: un dipendente mentre va in ufficio nota questa chiavetta usb abbandonata in terra e non resiste alla tentazione di connetterla al pc sulla scrivania. Un gesto, questo, che dura un attimo. Un attimo in cui la tanto decantata sicurezza va a farsi benedire: il virus entrato da quel pc comincia a diffonderesi a tutti i gli altri computer del palazzo collegati dalla rete interna. L'incubo è appena cominciato.

In nome di Dio, andatevene!

Cromwell_in_Parlamento.jpg

Se ne devono andare tutti, dove non ha importanza. In un'isola delle Barbados, nell'appartamento monegasco del cognato, in un ospizio, nella tipografia romana del suocero, in Vaticano a pregare per lo Ior, in Europa al posto di Van Rompuy, a insegnare alla Bocconi a studenti inconsapevoli, in un tribunale a esercitare la loro professione, in uno dei loro studi legali a incassare milioni di euro. 
Se ne devono andare. 
Non li regge più nessuno. 
Loro non capiscono. 
Si credono intoccabili perché garanti di interessi economici delle lobby del cemento, delle cooperative, dei concessionari, della Bce, delle banche internazionali, di Stati esteri. 
Vivono in un mondo a parte, fatto di studi televisivi, di giornalisti proni, di incontri istituzionali a discettare del nulla al quadrato con la rituale foto di gruppo, circondati da commessi, servi, maggiordomi, amanti. 
Onorevoli disonorati. 
Facce di bronzo, facce di merda, facce da impuniti, facce da dimenticare se si vuole riacquistare un minimo di serenità. 
Facce di responsabili dello sfacelo economico e sociale che si fanno il lifting, i sorrisi tirati ormai in un ghigno, l'incedere da uomini di potere che si credono statisti in scatola. 
Si ripresentano ancora, riverginati, innocenti, candidi come se non fossero colpevoli del più piccolo errore. Loro che hanno disfatto l'economia, l'informazione, la giustizia, la scuola, il tessuto produttivo, lo stesso Stato. 
Mantenuti nelle loro posizioni privilegiate per decenni, pagate dalle tasse degli italiani a suon di vitalizi mai rinnegati, di leggi ad personam, ad partitum, per gli amici, per i concessionari, per le mafie. Parassiti, pidocchi, mignatte, zecche. 
Virus che si spacciano per miracolosi medicinali mentre infettano il corpo della Nazione, certi della copertura vigliacca dei media e confidando nella memoria breve degli italiani. Se ne devono andare. In Parlamento non li vuole neppure l'italiano più mite, il più tollerante, il più distaccato dalla politica. 
L'Italia è in overdose dei Bindi, Finocchiaro, Cicchitto, Berlusconi, Monti, Bersani, Fini, Alfano, Casini, Maroni e delle centinaia di compari si ostinano a imporre la loro presenza. Non capiscono che sono come Ceaucescu al balcone, Mussolini nel camion verso la Svizzera vestito da soldato tedesco, Hitler nel bunker di Berlino mentre da ordini a divisioni che non esistono più. E' questione di tempo, ma la loro avventura politica è terminata. La campanella del 2013 è suonata, la ricreazione a spese di generazioni di italiani è finita. 

"Voi siete un gruppo fazioso, nemici del buon governo, banda di miserabili mercenari, scambiereste il vostro Paese come Esaù per un piatto di lenticchie; come Giuda tradireste il vostro Dio per pochi spiccioli. Avete conservato almeno una virtù? C'è almeno un vizio che non avete preso? Chi fra voi non baratterebbe la vostra coscienza in cambio di soldi? E' rimasto qualcuno a cui almeno interessa il bene della Repubblica? Siete diventati intollerabilmente odiosi per l'intera Nazione; il popolo vi aveva scelto per riparare le ingiustizie ed ora siete voi l'ingiustizia! Ora basta! Portate via la vostra chincaglieria luccicante e chiudete le porte a chiave. In nome di Dio, andatevene! (*)"

(*) Dal discorso di Oliver Cromwell al Parlamento inglese nel 1653


http://www.beppegrillo.it/2013/01/in_nome_di_dio_andatevene.html

Regione, se i grillini scoprono una “dirigenza parallela”.


La scoperta che negli uffici della Regione, o comunque riconducibili alla Regione siciliana, ci sono dei dirigenti ‘esterni’ titolari di contratti di diritto privato, ovvero una sorta di “quarta fascia” dirigenziale – scoperta che dobbiamo al gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle all’Ars – ci dimostra tre cose. Primo: che, in Sicilia, negli uffici della Regione, alla dirigenza ufficiale è affiancata una “dirigenza parallela”. Secondo: che esistono precari di serie “A” precari di serie “B”. terzo: che l’Autonomia siciliana – e questo lo sapevamo già – è, oggi, uno squallido ‘stipendificio’. Il primo aspetto – la “dirigenza parallela” – è il più grave. Già è ridicolo che una Regione abbia una “terza fascia 
dirigenziale”. E’ ridicolo che ci siano mille e 800 dirigenti, la metà, bene o male, che operano tra Unità operative, Aree e Servizi e altri 900 che non si sa che cosa facciano. Ma è semplicemente incredibile che, accanto a questa dirigenza, ve ne sia una “parallela”, reclutata, in minima parte, con una selezione (che, in ogni caso, non è un concorso pubblico a tutti gli effetti) e, in massima parte, con la chiamata diretta da parte della politica.
Quanti sono questi dirigenti a contratto, con contratto di diritto privato? In quali uffici operano? Quanto soldi percepiscono? E’ vero che i loro contratti variano da 50 mila a 140 mila euro all’anno? Possibile che i cittadini siciliani debbano essere tenuti all’oscuro di tutto questo? Perché sul sito della Regione siciliana queste informazioni non sono rese disponibili a tutti? Il presidente della Regione, Rosario Crocetta, è informato di questi ‘buchi’?
Il dubbio è che questo personale – del quale, ripetiamo, non si conosce nemmeno il numero – sia presente in tanti uffici della Regione e di enti comunque riconducibili alla stessa Regione siciliana. Sapevamo che nelle società regionali ci sono ‘dirigenti’. Ma non immaginavamo che altri dirigenti operassero negli uffici di una Regione che ha già mille e 800 dirigenti!
Con questo articolo vogliamo porre alcune domande. E’ possibile conoscere quanti sono questi dirigenti a contratto e a quanto ammontano le loro retribuzioni? Oppure questo deve rimanere un segreto? E si può, trattandosi di fondi pubblici, tenere segreti questi dati?
La nostra sensazione è che questi dirigenti a contratto possano essere presenti negli uffici della Regione. A vari livelli. Dalla Presidenza della Regione agli altri dipartimenti della Regione.
Per caso, tra i precari che operano all’assessorato regionale al Territorio e Ambiente, ci sono dirigenti precari a contratto? Per caso, nella Protezione civile regionale ci sono altri dirigenti ‘esterni’ a contratto? Per caso, questi dirigenti a contratto si riscontrano presso l’ex Agenzia dei rifiuti? E presso i Consorzi di Bonifica?
Di certo ne abbiamo un bel po’ nella sanità siciliana, a giudicare da una nota dell’Ansa del 14 dicembre, che riprende una denuncia dei Cobas della Regione. Leggiamola assieme.
“Dagli ospedali e dai pronto soccorso alle poltrone dell’assessorato alla Salute della Regione siciliana. Personale alle dipendenze delle Aziende sanitarie siciliane, ma distaccato da qualche anno negli uffici di piazza Ziino, a Palermo, grazie a una legge varata dall’ex governo di Totò Cuffaro. E con un costo per le casse della Regione di circa 3,5 milioni di euro all’anno.
A sollevare il caso sono i sindacati autonomi dei regionali, Cobas/Codir e Sadirs che hanno scritto una lettera al governatore Rosario Crocetta, chiedendogli ‘un intervento urgente’. Si tratta di 17 dirigenti, tra cui parenti di politici, e sette tra funzionari e istruttori. Ai dirigenti, inoltre, verrebbero riconosciuti salario accessorio e premio di rendimento.
I dirigenti esterni, oltre a sottrarre postazioni destinate ad analoghe figure già presenti ampiamente nel ruolo unico della dirigenza regionale, contemporaneamente – scrivono i sindacati al governatore – sguarniscono importantissimi servizi ricoperti presso le Asp, anche di Pronto soccorso, causando sicuramente disfunzioni in danno dei cittadini.
Il personale esterno del comparto non dirigenziale, invece, distaccato pure dalle Asp, viene impiegato, incredibilmente, in servizi sottratti al comparto dei dipendenti regionali con l’aggravante che verrebbe concesso loro, sfuggendo ad ogni procedura di contrattazione sindacale, lo svolgimento di lavoro straordinario.
Cobas/Codir e Sadirs chiedono al governo di disporre il rientro di questo personale nelle sedi di provenienza e di “utilizzare le risorse umane, con analoghe e pari professionalità , presenti all’interno dall’amministrazione e oggi non utilizzate compiutamente.
Sostengono inoltre che “l’ulteriore aggravio di spesa sul capitolo del personale della Regione consistente in circa 3,5 milioni collide fra l’altro, con la spending review che mira, paradossalmente, a tagli agli organici del personale dirigenziale e del comparto.
Ai sindacati non risulta ancora che per l’assegnazione di queste postazioni, siano state attivate procedure a evidenza pubblica (o atti d’interpello a cui potesse concorre il personale interno) a garanzia dei principi di trasparenza, imparzialità , economicità e merito. E ritengono che questa mancanza di procedure pubbliche ovviamente, oltre ad avere dei profili di illegittimità, costituisce un sicuro danno all’immagine della pubblica amministrazione come dimostrano anche alcuni articoli di stampa sull’argomento e che hanno evidenziato come, tra questo personale distaccato, vi siano parenti di politici e personalità di spicco del mondo istituzionale”.
Insomma, presso gli uffici dell’assessorato regionale alla Salute – questo è già dimostrato – vi sarebbero parenti ed amici dei politici.
Ci chiediamo e chiediamo: lo stesso metodo viene seguito per i dirigenti a contratto di altre branche dell’amministrazione regionale e di enti comunqe riconducibili alla stessa Regione?
Questo ci introdurre al secondo tema: i ‘precari’ di serie “A”. I precari di serie “B” li conosciamo: sono quelli della Regione, degli enti riconducibili alla stessa Regione e degli Enti locali. Sono circa 28 e 30 mila. Tutti con retribuzioni basse.
Ma non immaginavamo che, accanto a questi precari, la politica siciliana truffaldina avesse creato anche una “Riversa di caccia” per precari di serie “A”. Cioè una “quarta fascia” dirigenziale costituita da soggetti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono stati ‘promossi’ dirigenti per chiamata diretta della politica, con contratti di diritto privato che variano da 50 mila a 140 mila euro all’anno. Ed è semplicemente incredibile che di questa “quarta fascia” dirigenziale, introdotta senza legge, non si conosca nemmeno il numero!
Questo ci porta al terzo punto del nostro ragionamento: l’Autonomia ridotta a uno squallido ‘stipendificio’ da una politica che, per promuovere se stessa, utilizza le istituzioni autonomiste – e il denaro pubblico – per fini privati.
Noi torniamo a lanciare la nostra proposta: inutile prendere in giro la gente: la Regione non ha più i soldi per tenere in piedi tutto questo ‘Bordello’ del precariato.
Si istituisca – con i fondi nazionali e non regionali – un salario minimo garantito (o salario minimo di cittadinanza) non soltanto per quelli che, per raccomandazione, sono diventati precari della Regione o dei Comuni – di serie “A” o di serie “B”, semplici applicati o dirigenti a contratto – ma per tutti i disoccupati. Chi non ci sta se ne vada a casa.
La tesi che solo ‘alcuni’ disoccupati debbano avere il posto di precario in cambio del consenso ai politici falliti che hanno portato in fallimento la Regione e stanno facendo fallire l’Autonomia siciliana è aberrante. Ed è altrettanto aberrante è che lo Stato – e ci riferiamo all’Ufficio del commissario dello Stato per la Regione siciliana – abbia fatto passare questo principio. L’Autonomia siciliana serve per far crescere la Sicilia economicamente, socialmente e culturalmente. E non per avallare queste schifezze!

Elezioni, Monti nel ring elettorale: “Votatemi per non cadere nei populismi”.


Bersani - Monti


Il segretario dei Democratici aveva tentato l'affondo sostenendo che ora il Professore è un "politico" e deve dire da che parte sta. Oggi il Professore dal sito agenda-monti.it risponde parlando di "formazione politica" e "movimento civico". Berlusconi lo attacca ancora: "E' un leadino, con dei compagni di viaggio che glieli raccomando".


Eccolo il Professore, che dopo settimane di fair play, sale sul ring elettorale. Spiegando, ormai come un veterano di campagne elettorali, che votare lui significa allontanarsi dai populismi. “Le elezioni parlamentari del 2013 decideranno se l’Italia continuerà ad essere una grande nazione al centro della politica europea e internazionale, o se invece il nostro Paese scivolerà verso uno scenario di marginalità e isolamento sulla spinta dei populismi di destra e di sinistra – si legge sul sito agenda-monti.it – .La scelta riguarderà la nostra capacità di recuperare lo slancio e le energie che abbiamo saputo mostrare nelle fasi migliori della nostra storia recente, o se invece prevarrà la tentazione di un ripiegamento sulle nostre debolezze. Per questo abbiamo deciso di offrire alle italiane e agli italiani la possibilità di dare il proprio voto ad una formazione politica diversa da quelle che hanno animato il ventennio della seconda repubblica, i cui risultati sono oggi di fronte agli occhi di tutti”. Berlusconi lo attacca ancora: “E’ un leadino del centrino, con dei compagni di viaggio che glieli raccomando”.
Monti parla di formazioni politica e movimento civico: “Un movimento che nasca dall’unione tra l’associazionismo civico, che testimonia della vitalità della società civile, e la politica più responsabile. Un movimento che raccolga il testimone dell’esperienza di governo guidata da Mario Monti, che in soli tredici mesi ha restituito all’Italia credibilità e affidabilità dentro e fuori i confini nazionali, e che intenda proseguirne il lavoro, dopo l’emergenza finanziaria, con la prospettiva di una legislatura e con il consenso di milioni di italiani, verso un obiettivo di crescita sostenibile e di occupazione. Un movimento popolare e riformista che si rivolga a quegli elettori che da tempo sono in cerca di una nuova offerta politica, che sia finalmente capace di innovare i limiti dei vecchi partiti e di realizzare le riforme necessarie a restituire slancio e vitalità ad una grande nazione com’è e come deve rimanere l’Italia. Questo dobbiamo ai giovani e alle future generazioni di italiani”.
Domenica il segretario del Pd Pierluigi Bersani aveva tentato l’affondo chiedendo a Mario Montidi fare chiarezza. Oggi dalle pagine di Repubblica era filtrata la risposta: ”Noi abbiamo la nostra agenda e non abbiamo l’esigenza di posizionarci rispetto al Pd. Il nostro programma è chiaro e conta solo quello”. Insomma l’ex presidente del Consiglio, che ha sciolto la riserva dando la disponibilità a guidare chi condividerà la sua agenda, resta dov’è. Almeno per ora. Circondato da chi vorrà appoggiarlo. E tra questi c’è sicuramente Luca Cordero di Montezemolo che però vuole restare fuori dalla mischia e eventuali incarichi: ”Come ho detto tante volte in passato non chiedo nulla per me in cambio del mio impegno e non mi candiderò” dice il fondatore di Italia Futura sempre a Repubblica. Non sarà ministro chiarendo che continuerà a fare il suo “lavoro di imprenditore e di manager, senza però lasciare l’impegno pubblico” e sosterrà il suo movimento che “si appresta a trasformarsi in qualcosa di molto più ampio e diverso di cui non sarò io il leader”. Il sostegno? Avverrà “prima e dopo le elezioni ma in una posizione che non dovrà prestarsi ad alcun equivoco su eventuali conflitti di interesse. Qualsiasi riferimento alla Dc – aggiunge – è fuori da ogni prospettiva storica reale” perché nel progetto di cui Monti è il leader “Italia Futura sarà la componente laica e liberale di un ampio fronte della società civile che comprende anche personalità del mondo cattolico”. E al Pd fa sapere che “nella mia professione sono abituato a correre per vincere e così credo anche il presidente Monti. I democratici “hanno un’idea molto diversa dalla nostra su quello che serve al Paese”.
Lo sottolinea anche il leader dell’Udc Pierferdinando Casini: “Se questo centro nascesse con l’idea della subalternità al Pd avrebbe fallito in partenza. Noi non siamo o saremo mai un centro di comodo” riflette in una intervista a ‘Il Messaggero’ in cui critica il segretario del Pd: dai ragionamenti di Bersani traspare “la nostalgia per un centro che è più che altro un centrino, che non deve disturbar più di tanto il manovratore a palazzo Chigi. La sfida di Monti, invece – aggiunge – sarà un fatto positivo anche per la sinistra: li obbligherà a fare i conti con le tante questioni che lasciano in sospeso”. 
Dalle pagine del Corriere arriva al Professore l’appoggio di Elsa Fornero: “Sono molto d’accordo con l’agenda Monti. E ritengo importante, e anche coraggioso, quello che ha fatto Mario Monti, ossia rompere lo schema politico che per quasi 18 anni ha caratterizzato la vita pubblica di questo Paese” dice l’ex ministro del Lavoro che spiega perché agenda e non lista Monti: “Perché penso che una cosa siano il programma e la visione strategica in esso contenuta e un’altra sia l’attività pratica di aggregazione del consenso, nella quale c’è il rischio che si perda molto di quella carica ideale e che si dia spazio al trasformismo”. Anche l’ex Guardasigilli guarda con favore alla discesa in campo di Monti: “Un atto di grande coraggio e impegno verso il Paese. Monti era ed è in una posizione istituzionale ben diversa dalla mia. Avrebbe potuto fare una scelta di comodo, vestendosi da ‘padre nobile della Patria o cercare di dare continuità alla sua azione di governo, rischiando in prima persona” ragiona Paola Severino che dopo l’esperienza da ministro della Giustizia ribadisce che non si candiderà.
Su Monti gradito invece e anche ai leader europei parla Silvio Berlusconi: “Perché si è schierato completamente sulla linea di queste cancellerie” dice a Radio Capital. Tuttavia, aggiunge il leader del Pdl, “non credo che questo sia completamente vero, se fosse vero sarebbe molto grave. Non credo che ci siano poteri stranieri che manovrano per Monti. Ma è chiaro che gli altri Paesi difendono i loro interessi e un premier italiano come Berlusconi dopo un po’ non gli piaceva così tanto. E’ una menzogna che fossi irriso dai miei colleghi – ha assicurato – ero temuto, perché avevo una cognizione dell’economia”. Berlusconi ammette una certa delusione per il sostegno dato da una parte del Vaticano all’ex premier: “Non posso dire di essere contento del Vaticano. Ma io sono sereno sapendo come stanno le cose. Ho fatto molti interventi sui temi etici e i rapporti dello Stato italiano con lo stato Vaticano e ho ricevuto molti apprezzamenti ed elogi, per questo alla fine credo contino le cose concrete. Nel programma presentato da Monti, che ho letto velocemente, non c’è una sola parola suo temi etici che sono così importanti per la Chiesa“.
In un articolo a pagina due, il Financial Times descrive il processo di formazione delle liste che si riconoscono nell’agenda Monti. “La nascita della coalizione di Monti si sta rivelando un passaggio difficile, prefigurando problemi per mantenere il fronte unito se eletto per governare o per partecipare a una coalizione con il Pd”. La coalizione, che “non ha ancora un simbolo e una struttura chiara”, osserva il quotidiano, “è divisa fra esponenti non politici, molti dei quali esponenti cattolici, riuniti intorno a Luca Cordero di Montezemolo e veterani della scena politica, intorno a Pier Ferdinando Casini”.

L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti. - Sara Nicoli


L’anno nero di Napolitano. Dalla (sfumata) legge elettorale al “boomerang” Monti


Il presidente della Repubblica aveva iniziato il 2012 con tutti gli onori, dopo il "capolavoro politico" che aveva portato il professore a palazzo Chigi, blindandolo con la carica di senatore a vita per tenerlo a distanza dalle lusinghe della politica. Ma, alla fine, non è andata così. Il Capo dello Stato ha dovuto incassare anche la sconfitta politica del mancato cambiamento del Porcellum. Oltre allo smacco personale per le telefonate con Mancino, indagato nell'inchiesta sulla Trattativa.

“Un’altra legislatura perduta” per le riforme istituzionali: “Le aspettative, createsi un anno fa con il governo Monti, erano troppo fiduciose”, il “sussulto di operosità riformatrice” è però stato “frenato da resistenze”. E che resistenze. E’ forse questo il passaggio più amaro dell’ultimo anno di Giorgio Napolitano al Quirinale. Nonostante i molteplici sforzi, la “missione” di cui si era fatto carico all’inizio del suo mandato, quella di imprimere una forte scossa riformatrice all’architettura stessa dello Stato, si è scontrata con un Parlamento governato prima dal conservatorismo e dalle leggi ad personam, poi dall’emergenza economica sul finale di legislatura. Per giunta, quello che era stato salutato come il suo capolavoro politico – costringere Berlusconi alle dimissioni dando l’incarico a Monti senza alcuna sbavatura istituzionale, ma con grande attenzione ai dettagli normativi – gli si è poi rivolta contro, non appena Mario Monti si è svestito dei panni del tecnico per indossare quelli del politico. E, ulteriore smacco, usando come “predellino” l’anno di governo e l’agenda di salvataggio dell’Italia in Europa che Napolitano aveva concorso a scrivere. Un vero tradimento. La “brusca conclusione della legislatura” non ha concesso a Napolitano di governarlo. Tante cose sono sfuggite di mano all’11esimo presidente della Repubblica in questo suo ultimo tratto di cammino sul Colle più alto. Quest’ultimo anno, in particolare, è stato davvero gonfio di mille amarezze, quante neppure Berlusconi, con il suo perdurare a palazzo Chigi all’insegna delle proposte di leggi che lo salvassero dai processi, gli avevano dato nel corso degli anni precedenti. Davvero un “annus horribilis” per re Giorgio. Che adesso, come ultima delusionerispetto ad un percorso che lui stesso si era già disegnato (e che è fallito) dovrà pure dare l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. Se sarà Monti, la sconfitta potrebbe essere ancora più bruciante.
Un boomerang chiamato Mario Monti - “È giunto il momento della prova, il momento del massimo senso di responsabilità. Non è tempo di rivalse faziose né di sterili recriminazioni. È ora di ristabilire un clima di maggiore serenità e reciproco rispetto. Operiamo tutti, nei prossimi mesi, per il bene comune, facendo uscire il paese dalla fase più acuta della crisi finanziaria. Questo, credo, è ciò che l’Italia si augura”. Era il 13 novembre del 2011. Silvio Berlusconi aveva appena lasciato, dimissionario, il Quirinale e a Mario Monti era stato appena conferito l’incarico di formare un nuovo esecutivo tecnico di emergenza nazionale. Napolitano, autore del progetto del cambio della guardia “morbido” a palazzo Chigi è stato acclamato per giorni come “re Giorgio”, colui che aveva chiuso di botto il ventennio berlusconiano senza che alcun trauma visibile potesse scuotere i mercati internazionali assetati di “sangue” nazionale. Un capolavoro d’astuzia, si disse. E anche una conoscenza profonda dei dettami costituzionali, sfruttate in modo forse inconsueto, ma in modo da fargli centrare l’obiettivo previsto.
Il “capolavoro”, soprattutto, consisteva nell’aver “blindato” la figura di Monti con la carica disenatore a vita in modo da tenerlo a distanza dalle lusinghe e dai trabocchetti della politica. E consentirgli di portare a termine il suo compito senza avere l’assillo di doversi misurare con gli elettori e le urne. Poi, però, Monti ha cominciato a mostrare debolezze e altre fragilità. Ha messo a segno alcuni provvedimenti molto discussi come la legge sul lavoro e quella sulle pensionimentre ancora gli “osanna” sulla sua nomina erano messaggi quotidiani al popolo elettore. Napolitano, all’inizio, ha retto il gioco. E la consuetudine con Monti, nonostante qualche piccolo screzio, è proseguita feconda fino al mese scorso, quando la vanità e le pressioni internazionali (quelle del Ppe, soprattutto) hanno reso evidente a Napolitano l’errore commesso. “Mi trovo a dover chiarire – ecco dunque l’ammissione di Napolitano, il 18 novembre scorso – che su di me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò assolvere nel novembre del 2011”. Amarezza vera, dunque. E, forse, neppure la più pesante.
La successione sfumata - Si disse, nel novembre del 2011, che con l’incarico a Monti, Napolitano si fosse anche scelto il suo successore “naturale” alla guida del Paese. Un’ipotesi che Napolitano non ha mai ufficialmente negato. Oggi, dopo la “salita” di Monti in politica, anche quel desiderio (legittimo, almeno nei primi e peggiori momenti della crisi) trova meno concretezza; Monti potrebbe tornare a palazzo Chigi, si diceva. Alla guida di un governo politico, stavolta, ma che comunque sarà classificato come Monti bis. Per il nuovo inquilino del Quirinale, insomma, la partita oggi è più aperta che mai. Chissà se anche questa, tra le tante, è un’amarezza.
Il naufragio annunciato della legge elettorale - Delusioni e sconfitte, dunque. La più feroce delle quali riguarda senz’altro la legge elettorale. Che i partiti non fossero in alcun modo intenzionati a sostituire l’adorato (per loro) Porcellum lo si era capito da tempi immemorabili, prima ancora che la questione esplodesse a Parlamento chiuso per le vacanze estive. E con i due presidenti delle Camere, Fini e Schifani, che in barba ad ogni prudenza andavano annunciando l’apertura straordinaria delle Camere proprio per discutere dell’annosa questione. Su questo punto, Napolitano si è dimostrato nel tempo peggiore di un martello pneumatico. Proprio l’11 agosto scorso, a saracinesche parlamentari abbassate, il Presidente della Repubblica esplose in un richiamo ai partiti di rara forza: “Resto inquieto nel non vedere ancora vicine ad un approdo le discussioni, che procedono verso continui alti e bassi, su una nuova legge elettorale”. E ancora: “Debbo ricordare – si leggeva in una missiva inviata proprio a Fini e Schifani – che su questa materia consultai nel gennaio scorso i rappresentanti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ricevendone indicazioni largamente convergenti anche se non del tutto coincidenti a favore di una nuova legge elettorale”. Tutto è stato vano. Anche se ci ha provato fino all’ultimo, fino al 28 novembre scorso, in pratica fuori tempo massimo: “Rispettate gli impegni – intimò ai partiti – si tratta di una riforma essenziale per la vita democratica”. Non è stato ascoltato.
La trattativa Stato-Mafia - Giorgio Napolitano ha voluto combattere una battaglia personale contro chi aveva solo osato immaginare la possibilità di un suo intervento sui giudici di Palermo per “salvare” l’ex ministro Nicola Mancino, indagato nell’ominima inchiesta della Procura siciliana. E’ stato il Fatto Quotidiano, il 16 giugno del 2012, a svelare, con una intervista al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, l’esistenza di pressioni esercitate da Mancino su Napolitano. Ed è scoppiato l’inferno. Il 20 giugno, al culmine di una campagna a tappeto del Fatto, è emersa con chiarezza la strategia messa in atto dal Colle per coprire Mancino. Napolitano ha dato fuoco alle polveri. Ci si sarebbe aspettati dal Presidente della Repubblica un’operazione opposta, di pura trasparenza. Che, invece, non è arrivata. Anzi. Proprio per ribadire l’insindacabilità di ogni suo atto,il Capo dello Stato ha sollevato un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Un atto di forza nei confronti della Procura di Palermo su cui, alla fine, l’ha avuta vinta, anche se l’intera vicenda resta pesante come un macigno sull’intero mandato istituzionale. Tutto resta ancora da chiarire.
Il silenzio su Ilva e esodati - Nel frastuono delle polemiche sulla trattativa Stato-Mafia, Napolitano ha omesso di fare pressione su due casi che restano ferite aperte nella vita sociale del Paese. Il capitolo “esodati” e l’altro, senz’altro scottante, dell’Ilva di Taranto. Ebbene, sul primo fronte, trattandosi di un macroscopico errore di calcolo (solo?) commesso dal governo Monti, Napolitano si è limitato a dire che la questione “restava da chiarire” all’interno delle “ineludibili riforme” avviate dal governo. Frasi pronunciate il primo maggio del 2012 (la festa del Lavoro, una beffa?) e oggettivamente troppo sintetiche per essere considerate una vera e propria presa di posizione. Un’emergenza trattata, forse, con troppa leggerezza, al pari della questione Ilva, liquidata il 29 novembre scorso come troppo complicata per mandare messaggi”
La battaglia contro “l’antipolitica” - Il termine, coniato un po’ a casaccio per classificare un fenomeno politico di rottura con il sistema esistente, è stato brandito da Napolitano come una clava per colpire un solo personaggio: Grillo. L’invito al Paese è stato quello a tenere duro, “senza abbandonarsi a una cieca sfiducia nei partiti – ecco l’arringa del Presidente del 25 aprile – come se nessun rinnovamento fosse possibile, e senza finire per dar fiato a qualche demagogo di turno”. In quell’occasione, Napolitano prese in prestito un pezzo di storia: “Vedete, la campagna contro i partiti, tutti in blocco, contro i partiti come tali, cominciò prestissimo dopo che essi rinacquero con la caduta del fascismo: e il demagogo di turno fu allora il fondatore del movimento dell’Uomo Qualunque, un movimento che divenne naturalmente anch’esso un partito, e poi in breve tempo sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il Paese”. Quindi, il monito: “Ci si fermi a ricordare e a riflettere – disse – prima di scagliarsi contro la politica; rifiutare i partiti in quanto tali, dove mai può portare?”. Il dove non è ancora messo in evidenza, ma di certo Grillo ha rappresentato l’ennesimo schiaffo alla liturgia politica e sociale del Capo dello Stato. Rimarrà di certo negli annali la battuta che Napolitano regalò alle cronache dopo l’affermazione politica del Movimento 5 Stelle alle elezioni Regionali: “Non vedo il boom di cinque stelle”. L’ex comico se ne risentì. “Sono rimasto a bocca aperta, spalancata, come un’otaria – ecco la risposta – ho le mascelle che mi fanno ancora male. Là dove non hanno osato neppure i gasparri e i bersani ha volato (basso) Napolitano”. Grillo sfoderò la Costituzione ricordando che “il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (articolo 87 della Costituzione), dunque “rappresenta anche il MoVimento 5 Stelle e anche, dopo queste elezioni, i suoi circa 250 consiglieri comunali e regionali scelti dai cittadini. Il boom del M5S non si vede, ma si sente. Boom, boom, Napolitano!”. Se anche questo non è uno schiaffo…
E che dire della nomina di Saverio Romano a Ministro, anche se con riserva?