giovedì 5 agosto 2021

Superbonus 110%, da oggi la super Cila: per cosa si può usare e per cosa no. - Saverio Fossati

 

Resta comunque aperta la via ai controlli da parte dei Comuni sugli abusi edilizi, la cui presenza blocca la concessione del bonus.

Da oggi 5 agosto sarà possibile utilizzare la “Cilas”, cioè il modello di «Comunicazione inizio lavori asseverata - superbonus» che la Conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali ha definitivamente approvato il 4 agosto, in tempi brevissimi, dopo la conversione in legge del Dl 77/2021.

I cardini della semplificazione

Come anticipato dal Sole 24 Ore dei giorni scorsi, con il nuovo modello sono tre i cardini della semplificazione:
1) non occorre documentare lo «stato legittimo» degli immobili per avviare i lavori nell’ambito del superbonus; resta naturalmente aperta la via ai controlli da parte dei Comuni sugli abusi edilizi, la cui presenza blocca la concessione del bonus;

2) il professionista incaricato attesterà l’esistenza del titolo abilitativo, dell’esistenza di eventuali condoni edilizi o del fatto che la costruzione sia precedente al 1° settembre 1967;

3) sarà possibile presentare anche varianti in corso d’opera.

La Cilas, a sua volta, potrà anche essere presentata come variante a quella già esistente per i lavori già in corso per lavori da superbonus.

Il modello è già disponibile

La compilazione del modello (già disponibile online (www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/Modulo_CILA_Superbonus.pdf) è semplice. Nella parte iniziale della nuova Comunicazione saranno indicati i dati del titolare dell’intervento ed, eventualmente, quelli del condominio, ente, Onlus che presenta la Cila.

In caso di interventi trainati su parti private, i dati relativi alle unità interessate saranno riportati in un modello allegato. Il titolare dell’intervento dichiarerà che le opere oggetto della Cila riguardano o meno parti comuni di un fabbricato condominiale ed, eventualmente, anche singole unità abitative. In caso di lavoro condominiale, servirà la delibera dell’assemblea.

L’elaborato progettuale consiste nella mera descrizione, in forma sintetica, dell’intervento da realizzare. Solo se necessario il progettista potrà allegare elaborati grafici illustrativi.

Gli interventi esclusi.

In ogni caso, come ricordato anche nella guida “Quaderno Cila superbonus” preparata da Anci in tempo record, le misure di semplificazione non potranno essere applicate agli interventi di super sismabonus con demolizione e ricostruzione integrale.

Tra l’altro, sempre in tema di sismabonus, la nuova normativa consente l’utilizzo della Cilas anche per gli interventi su parti strutturali dell’edificio, considerati manutenzione straordinaria.

Fabrizio Pistolesi, che ha partecipato ai lavori sul modello per il Cna-Rete professioni, ricorda che per le opere di miglioramento sismico «ci vuole il deposito al Genio Civile di un progetto o relazione, a seconda delle Regioni». Inoltre, in caso di immobili assoggettati a vincolo in base al Dlgs 42/04, resta ferma la necessità di acquisire l’assenso dell’Ente competente.

Del resto, più in generale, come spiegato dall’Anci, se la realizzazione degli interventi preveda la richiesta di atti o autorizzazioni di enti sovraordinati rispetto alle amministrazioni comunali (come per la prevenzione incendi) la Cilas non supera, ovviamente, la vigente normativa in materia.

L’azione congiunta.

Al successo dell’operazione hanno concorso molti attori, coordinati dalla Funzione pubblica: Regioni, Anci (che avrebbe voluto nel Dl una semplificazione maggiore e ha ottenuto la possibilità di omettere allegati e di effettuare varianti), Upi, Ance, Entrate, Transizione ecologica, Infrastrutture e Rete delle professioni tecniche.

IlSole24Ore

Mps, Franco: «C’è il rischio di oltre 2.500 esuberi. Possibile che Mef diventi azionista di Unicredit»

 

Il ministro dell’Economia è intervenuto davanti alle Commissioni riunite Finanze di Camera e Senato: nuovo piano banca non conforme con impegni presi con l’Ue. Unicredit soluzione strategicamente superiore per interesse paese.

«Sin dall’autunno dello scorso anno sia il ministero sia la banca si sono attivati per la ricerca di un partner per Mps. È possibile che il Mef riceva azioni del gruppo Unicredit» a fronte della cessione del Montepaschi alla banca milanese, «ma tale eventuale partecipazione al capitale non dovrebbe alterare gli equilibri di governance. Lo Stato parteciperà comunque a tutti i benefici economici in termini di creazione di valore derivanti dall’operazione», ha chiarito il ministro dell’Economia Daniele Franco, in audizione a Borsa chiusa davanti alle Commissioni riunite Finanze di Camera e Senato sul dossier Mps. Il nuovo piano industriale di Mps, ha sottolineato, «presenta obiettivi non conformi alle richieste della Commissione europea in particolare la riduzione costi fissata al 51% dei ricavi da Bruxelles, mentre in base al piano si prevede il 74% nel 2021 e ancora il 61% al 2025».

Il chiarimento nella replica: non chiuderemo con Unicredit a ogni costo.

Nella replica finale agli interventi, a proposito dell’eventuale aggregazione con Unicredit, il ministro ha poi precisato «non chiuderemo con Unicredit a qualsiasi costo». Per il Montepaschi, ha detto, «abbiamo un’unica controparte che si è fatta avanti» ma «proporremo un pacchetto finale solo se convinti che sarà adeguato ma se dovessimo pensare non lo sia, non cercheremo di chiuderlo a tutti i costi». «Auspico che si chiuda e lo auspico fortemente - ha affermato Franco -, e credo ci siano margini per le soluzioni ma non chiuderemo a qualsiasi costo, né noi né Unicredit».

Rischio di ben oltre 2.500 esuberi con paletti Ue.

«Non ci sono i presupposti per una richiesta a Ue su rinvio termini - ha spiegato il ministro nel suo intervento -. Non vi sono rischi di smembramento della banca. Nel caso probabile in cui l’interlocuzione con la commissione richiedesse di fissare un obiettivo costi-ricavi più ambizioso gli esuberi di personale potrebbero essere considerevolmente più elevati» rispetto ai 2.500 volontari attualmente fissati». Franco ha parlato di «massima attenzione a 21mila dipendenti con pluralità strumenti». «Non si tratterà di svendita di proprietà statale - ha poi assicurato -. Unicredit è soluzione strategicamente superiore per interesse paese», ha assicurato.

Serve aumento superiore a quello del piano.

«L’esito dello stress test - ha detto Franco - conferma l’esigenza di un rafforzamento strutturale di grande portata» per Mps e per «portarla su valori medi delle banche europee» servirebbe «un aumento bene superiore a quello previsto dal piano 2020-2025» da 2,5 miliardi di euro. «Ai fini di un eventuale aumento di capitale di banca Mps, che si rendesse necessario nell’ambito della complessiva struttura dell’operazione, potranno essere utilizzate le risorse stanziate dall’articolo 66 del decreto legge 104 del 2020, cosiddetto decreto agosto, vale a dire fino a 1,5 miliardi. Il piano stand alone - ha continuato il responsabile dell’Economia - sarebbe esposto a rischi ed incertezze considerevoli e a seri problemi di competitività».  

Ad oggi con Unicredit nessun rischio spezzatino.

Il ministro ha chiarito che «non vi sono al momento indicazioni che facciano intravedere rischi di smembramento» di Montepaschi con un’aggregazione con Unicredit. «Le attività escluse, ad ora, sono individuate nei crediti deteriorati per circa quattro miliardi al lordo delle rettifiche», ha detto Franco, oltre al contenzioso giudiziale e stragiudiziale di carattere straordinario in essere, nei contenziosi e rischi legati alle cessioni a terzi dei crediti deteriorati.

Se Mps resta autonoma forti rischi e incertezze.

Franco ha ricordato che gli stress test europei hanno evidenziato per Mps «l’esigenza di un rafforzamento strutturale di elevata portata con un aumento di capitale ben superiore a quello previsto dal piano industriale». «Se la banca restasse soggetto autonomo - ha aggiunto -, sarebbe esposta a rischi e incertezze considerevoli e avrebbe seri problemi», e «non si ravvisano le condizioni per una interlocuzione» con l’Unione europea per cambiare le condizioni che prevedono la dismissione da parte del Mef. «Non vi sono le condizioni per mettere in discussione la cessione» del Montepaschi, è la conclusione del ministro.

La richiesta di riferire in parlamento.

Il ministro è intervenuto in parlamento dopo che sia la maggioranza sia l’opposizione hanno chiesto che fornisse chiarimenti sull’operazione.In quanto informativa, non è previsto alcun voto. I Cinque Stelle avevano chiesto che l’audizione di Franco avvenisse davanti alla Commissione di inchiesta sulle banche, presieduta dalla pentastellata Carla Ruocco.

IlSole24Ore

mercoledì 4 agosto 2021

Superbonus: al via da domani modulo inizio attività.

 

Ok conferenza unificata. Brunetta, avanti con semplificazione.


(ANSA) - ROMA, 04 AGO - "Un modulo unico e standard per presentare la Cila, la Comunicazione asseverata di inizio attività che, grazie al decreto semplificazioni approvato definitivamente dal Parlamento il 28 luglio, riduce drasticamente gli adempimenti per accedere al superbonus 110%.

Una rivoluzione straordinaria che porta immediatamente la semplificazione 'a casa' dei cittadini, delle imprese e di tutti i professionisti coinvolti, dagli ingegneri ai geometri".

Lo annuncia Renato Brunetta spiegando: "oggi stesso pubblichiamo il documento - approvato dalla Conferenza unificata - sul sito della Funzione pubblica. Da domani sarà operativo". 

(ANSA)

Cyberfaccedaculo. - Marco Travaglio

 

Qualcuno forse ricorderà che, tra le poderose ragioni della guerra dei renziani e del resto del centrodestra al Conte-2, insieme all’imprescindibile Mes, ai tecnici del Recovery e al Ponte sullo Stretto, c’era la fondazione o agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza, coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi. Il progetto, nato sotto il governo Gentiloni e rimasto nel cassetto sebbene finanziato con 2 miliardi di fondi europei, serviva ad attrezzare lo Stato contro gli attacchi hacker. Ma bastò che lo riproponessero Conte e il capo del Dis Vecchione per scatenare l’allarme democratico: orrore, scandalo, abominio, chissà cosa c’è sotto di losco. Il 6 dicembre, prima di bloccare il Pnrr in Consiglio dei ministri, l’italovivo Rosato tuonò: “Guai a inserire nella legge di Bilancio la cybersicurezza”. E la sua spalla dem Delrio rincarò su Rep: “Sulla cybersicurezza, senza il parere positivo del Copasir, non si deve procedere”. Il 9 dicembre, in Senato, l’Innominabile strillò: “Così si aggira il Parlamento. Se nella legge di Bilancio ci sono norme sulla governance del Recovery e sulla Fondazione per la cybersicurezza, votiamo no” (lui che nel 2016 aveva tentato di piazzare l’amico Carrai a capo di un’Unità di missione sulla cybersecurity a Palazzo Chigi, poi stoppata da Mattarella).

Il 30 dicembre Conte insisté col progetto, anche perché l’Italia rischiava di perdere i 2 miliardi Ue. Ma, oltre ai renziani, insorse pure il Pd: Linkiesta, mai smentita, scrisse che “Zingaretti, Orlando e tutto il vertice Pd hanno notificato a Conte che questa Agenzia non si farà mai”. L’8 gennaio Conte incontrò le delegazioni di M5S, Pd, Leu e Iv per chiudere l’accordo sul Pnrr. Ma il capogruppo Iv Faraone gettò subito la palla in tribuna con i soliti Mes&cybersecurity. Una settimana dopo l’Innominabile aprì la crisi ritirando le sue ministre e tacciando il premier di “vulnus per la democrazia”. Poi arrivò Draghi e il 14 aprile Gabrielli, sottosegretario ai Servizi, annunciò un’Agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi, finanziata con 2 miliardi Ue. Applausi scroscianti da Pd, Iv e destre. L’altroieri l’attacco hacker alla Regione Lazio. Raffaella Paita (Iv): “L’agenzia per la cybersicurezza parta subito”. E i giornali che gridavano all’attentato alla democrazia quando la voleva Conte si spellano le mani. Rep: “Siamo rimasti fermi al Giorno Zero con una sovranità digitale limitata o totalmente assente”. Giornale: “Urso: siamo in ritardo, ma ok dal Senato prima delle ferie’”. Stampa: “L’Italia in ritardo ora corre ai ripari”. Fusani (Riformista): “L’Italia, con un colpevole ritardo di tre anni, ha dato il via all’agenzia”. Peggio dei cyberpirati ci sono soltanto i cyberspudorati.

ILFQ

Lotta all’evasione, ecco dove colpirà il fisco. - Marco Mobili e Giovanni Parente

 

Falsi crediti, fuga di capitali all’estero, commercio elettronico, aiuti Covid e compliance. Si possono sintetizzare così le nuove rotte dell’evasione su cui Guardia di Finanza e agenzia delle Entrate hanno concentrato una revisione congiunta delle analisi di rischio. A chiedere di intensificare il coordinamento e la complementarietà tra le componenti dell’amministrazione finanziaria è l’atto di indirizzo per gli obiettivi di politica fiscale 2021-2023, anticipato dal Sole 24 Ore e diramato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco.

L’ANDAMENTO DELLE COMPENSAZIONI


















L’ANDAMENTO DELLE COMPENSAZIONI

I crediti compensati nel modello F24. Importi in milioni di euro

Il rapporto di collaborazione si è ulteriormente consolidato durante la pandemia: l’amministrazione finanziaria si è concentrata sempre più sui contribuenti ad alta pericolosità fiscale e, in particolare, verso le frodi, l’utilizzo indebito di crediti d’imposta (ad esempio, il bonus per ricerca e sviluppo) e di altre agevolazioni, come quelle per fronteggiare il Covid.

«Queste analisi di rischio, condotte a livello centrale, consentono alle unità operative sul territorio di orientare l’attività in modo “chirurgico” e con modalità istruttorie adeguatamente calibrate al profilo di rischio dei contribuenti selezionati», sottolinea Giuseppe Arbore, capo del III reparto Operazioni del Comando generale delle Fiamme gialle. «Non di rado, costituiscono l’input anche per indagini di polizia giudiziaria riguardanti non solo i reati tributari ma anche altri fenomeni di illegalità collegati, come il riciclaggio e l’indebita percezione di finanziamenti pubblici». Ma vediamo nel dettaglio.

Indebite compensazioni.

Un primo filone di analisi (anche a tutela dei saldi di finanza pubblica) ha riguardato l’utilizzo in compensazione di debiti tributari e previdenziali con crediti d’imposta inesistenti a seguito di atti di accollo del debito, come pure la compilazione di deleghe di pagamento con un importo dovuto pari a pochi centesimi di euro. Proprio per arginare gli illeciti, il collegato fiscale alla manovra di bilancio 2020 (Dl 124/2019) ha vietato la compensazione intersoggettiva dei crediti tributari tramite l’accollo prevedendo che i versamenti effettuati in violazione di questa previsione normativa si considerano non avvenuti a tutti gli effetti di legge. Ha inoltre previsto che le compensazioni dei crediti maturati a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2019 devono transitare obbligatoriamente sui canali telematici gestiti dall’Agenzia. Questo ha consentito finora di bloccare l’utilizzo in compensazione di oltre 1,2 miliardi di euro di crediti fittizi.

Boom dei crediti d’imposta per ricerca.

Un discorso a parte va fatto sulla crescita esponenziale di crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei modelli di pagamento. Tale circostanza, da un lato, può essere spiegata da dinamiche fisiologiche, legate al legittimo utilizzo del credito a fronte di effettivi investimenti agevolabili, dall’altro, può essere attribuita alla diffusione di fenomeni evasivi e fraudolenti di varia natura, spesso ideati da società di consulenza e da pseudo-organismi di ricerca che forniscono documentazione solo formalmente corretta, la relativa certificazione e anche l’assistenza nella fase contenziosa.
Su queste premesse, il settore contrasto illeciti dell’Agenzia ha recentemente realizzato un’analisi di rischio, condivisa con la GdF, sui contribuenti che hanno utilizzato in compensazione crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei periodi d’imposta dal 2016 al 2021 e che risultano connotati da rilevanti indici di anomalia (ad esempio ricerca e sviluppo difficilmente compatibile con l’attività economica dichiarata, con la struttura organizzativa dell’impresa, con l’assenza di costi per l’attività interna nei bilanci depositati o negli anni precedenti all’istituzione del credito d’imposta, eccetera). Come spiega al Sole 24 Ore, Paolo Valerio Barbantini, vicedirettore e capo della divisione Contribuenti delle Entrate, «sono state selezionate circa 4mila posizioni caratterizzate da un elevato profilo di rischiosità su cui sono in corso i necessari approfondimenti degli uffici dell’Agenzia e della Guardia di Finanza».

Commercio elettronico.

Nel mirino di GdF ed Entrate è finito anche il boom registrato dall’e-commerce nel pieno della pandemia. L’incrocio dei dati commerciali comunicati all’Agenzia sui fornitori per i soggetti passivi (residenti o meno), che gestiscono interfacce elettroniche per facilitare le vendite a distanza di beni importati o di beni nella Ue tra fornitori e acquirenti, insieme ad altri dati acquisiti dalle Fiamme gialle dai principali gestori delle piattaforme, ha consentito di avviare un’analisi di rischio dedicata, rivolta sia ai soggetti passivi residenti che ai contribuenti che si sono identificati in Italia.

Vigilanza anche sui contribuenti che, pur con volumi di vendita molto rilevanti, non hanno presentato dichiarazioni dei redditi e Iva, conseguendo così un indebito vantaggio a danno degli operatori tradizionali.

Lettere di compliance.

Le analisi congiunte guardano anche i soggetti destinatari delle comunicazioni per l’adempimento spontaneo che non hanno giustificato anomalie comunicate o non hanno modificato il loro comportamento a seguito dell’invito dell’Agenzia. Particolare attenzione ai contribuenti rimasti inerti dopo le lettere di compliance fondate sulle informazioni relative ai redditi esteri arrivati grazie al Common reporting standard (Crs), o sui dati della fatturazione elettronica obbligatoria e dei corrispettivi telematici, che - come ricorda Barbantini - «sono di fondamentale importanza per le attività di controllo, in quanto consentono, oltre all’attività di promozione della compliance e la prevenzione dei fenomeni evasivi, l’immediato confronto con i dati dichiarativi permettendo di avviare, in presenza di anomalie, istruttorie più approfondite».

Contributi a fondo perduto

Non solo lotta all’evasione ma anche tutela della spesa pubblica. Con un protocollo d’intesa sottoscritto nel novembre 2020, sono state sviluppate analisi del rischio mirate sul diritto di accesso ai contributi a fondo perduto erogati con i provvedimenti emergenziali. I criteri di rischio, ad esempio, si riferiscono alla verifica della condizione dei ricavi (se prevista), della corretta indicazione della percentuale del contributo in base alla dimensione del richiedente, della congruità dell’importo delle operazioni 2019 e 2020, della ricorrenza dei firmatari e della presenza di eventuali indici di frode fiscale a loro carico.

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

martedì 3 agosto 2021

“Bankitalia è al vostro fianco”. Perché Draghi ha a cuore Mps. - Carlo Di Foggia

 

Nei disastri bancari è difficile trovare chi è senza peccato, si sa, ma almeno qualcuno dovrà spiegare cos’è successo. Palazzo Chigi fa filtrare che i partiti non devono ostacolare l’imminente spezzatino del Montepaschi e annessa cessione della polpa a Unicredit a carico dello Stato. Sui giornali retroscena identici narrano di un Draghi deciso a “tirare dritto” e a “mettere in sicurezza il sistema del credito”. Il premier, pare, considera Mps il tema più sensibile tra quelli che ha sul tavolo. Ecco perché.

Il disastro Mps ha un’origine. Nel 2007 il presidente Giuseppe Mussari – dalemiano, poi tremontiano, ma soprattutto caro alla massoneria senese, padrona della banca – decide di strapagare Antonveneta. Il 17 marzo 2008 il governatore di Bankitalia Mario Draghi autorizza l’operazione: “Non risulta in contrasto col principio della sana e prudente gestione”, scrive. Mussari paga 9 miliardi e se ne accolla 7,5 di debiti: 17 miliardi per un istituto che il venditore, il Santander di Emilio Botin, aveva pagato tre volte meno pochi mesi prima rilevandolo da Abn Amro. Botin, legatissimo all’Opus Dei, gliela vende a scatola chiusa. Pochi mesi prima la finanza cattolica italiana gli aveva sbarrato la strada della scalata al San Paolo Imi: i torinesi preferirono consegnarsi alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Il sistema italiano ricompensa Botin girandosi dall’altra parte quando Mussari decide l’azzardo. Per quegli strani giri dei disastri italiani, a consigliarlo, per conto della banca d’affari Merryll Lynch, è Andrea Orcel, che oggi guida Unicredit destinata a prendersi Mps. Quel che avviene prima e dopo è un trionfo di irresponsabilità e silenzi.

La vigilanza sapeva che Mussari stava suicidando la banca. Pochi mesi prima, una lunga ispezione aveva trovato una situazione critica in Antonveneta. L’ispezione si chiude a dicembre 2006 con un esito “in prevalenza sfavorevole” e la richiesta di multare vertici e collegio sindacale: 64 pagine che prefigurano la futura esplosione delle sofferenze (i crediti inesigibili), pari a 4 miliardi, più un altro miliardo di incagli e la previsione di nuove perdite per 2,8 miliardi; altri 1,8 miliardi sono “a rischio di decadimento qualitativo”. La gestione dell’istituto viene fatta a pezzi con 5 voti negativi su 6: perde clienti; è ingessata; i controlli gestionali “non prevedono analisi di redditività” e la contabilità “è connotata da prassi poco efficaci e da aree di manualità”.

Perché allora Bankitalia dà l’ok? Ai magistrati senesi che indagarono sul disastro, Mussari (nel 2006 acclamato alla guida dell’Abi) spiegò di “non ricordare come si svolsero le trattative”. Non ci fu due diligence, cioè una profonda analisi dei conti di Antonveneta. Il 26 novembre 2007 i vertici di Mps vengono ricevuti da Draghi e dai vertici della Banca d’Italia. Mussari e il dg Antonio Vigni illustrano l’acquisto. Ai pm attoniti, l’allora capo della vigilanza Annamaria Tarantola racconta che governatore e soci si “raccomandarono coi vertici di Mps di ‘fare per bene’ l’acquisizione”. Vigni appunta sulla sua agenda: “Bankit sarà al vs fianco”. Chi lo ha detto? Tarantola si limita a dire che “sicuramente abbiamo detto che Banca d’Italia li avrebbe seguiti e indirizzati”. Sarà la capacità di indirizzo il motivo per cui nel 2011 Monti la vuole presidente della Rai e Draghi l’ha appena chiamata a Palazzo Chigi come consigliere economico.

Quel che succede dopo è ancor più indicativo. L’operazione si conclude nel 2008 quando la crisi mondiale è già in atto. La storia è nota. Per tamponare l’emorragia e abbellire i bilanci Mps metterà in piedi le operazioni in derivati (i famosi “Alexandria” e “Santorini”). Nell’aprile 2016, alle Camere, il governatore Ignazio Visco rivendicò di essere stato lui, appena arrivato, a chiedere a Mussari e Vigni di andarsene. Non altri. Visco li convoca a novembre 2011 e gli dice di andarsene: “Non avevo potere di farlo, ho corso un rischio personale”. In quei giorni Draghi si insedia alla Bce.

La vulgata vuole che siano stati i nuovi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a scoprire il trucco dei derivati trovando nella cassaforte di Vigni il contratto con Nomura su Alexandria (lo rivelò il Fatto a gennaio 2013). Eppure i processi hanno mostrato anche altro. Mussari&C. sono stati assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza. Già nel 2010 le strane operazioni in liquidità avevano spinto Bankitalia a mandare gli ispettori. La situazione è così critica che ci ritornano a settembre 2011. Il team guidato da Giampaolo Scardone viene avvisato da Consob (attivata da un esposto anonimo) di indagare su Alexandria: si scopre che una serie di operazioni apparentemente scollegate prefigurano “nella sostanza, piuttosto che nella forma, un Cds”, cioè un derivato: “Era parsa l’unica soluzione plausibile”. Ma, dice Scardone al Tribunale di Siena, senza il mandate agreement è una cosa “che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale”.

L’ispezione si svolge nelle settimane cruciali della caduta del governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e, come detto, l’insediamento di Draghi alla Bce. Forse la storia sarebbe cambiata se la bomba Mps fosse esplosa prima. Fatto sta che oggi Palazzo Chigi “tira dritto”.

IlFQ

Pronti a fuggire. - Marco Travaglio

 

Giuseppe Conte, sulla Stampa, dice due cose giuste e una sbagliata. La prima giusta è che, in una maggioranza del genere, è già un miracolo se i 5Stelle – soli contro tutti – abbiano salvato il grosso dei processi dalla morte sicura prevista dalla schiforma Cartabia modello base. La seconda è che non c’è alcuna “riforma Cartabia”: solo emendamenti contro un terzo della vera riforma, quella di Bonafede, che per gli altri due terzi resta, all’insaputa di tutti i partiti che la stanno votando. Sopravvive anche la blocca-prescrizione: la Cartabia ha tentato di aggirarla aggiungendovi la prescrizione non più del reato ma del processo (“improcedibilità”), se la sentenza d’appello non arriva entro 2 anni da quella di tribunale e quella di Cassazione entro 1 anno da quella d’appello. Così i reati avrebbero continuato a non prescriversi, ma si sarebbero prescritti quasi tutti i processi: se non era zuppa era pan bagnato. Invece la cosiddetta ministra della Giustizia ha dovuto cedere alla (tardiva) resistenza del M5S: escludendo i reati di mafia, violenza sessuale e traffico di droga; e triplicando i tempi per i reati con aggravante mafiosa e raddoppiandoli per quelli “ordinari”. Risultato: diverranno improcedibili solo i processi d’appello più lunghi rispettivamente di 6 o di 4 anni, cioè pochi. Per tutti gli altri, la prescrizione del reato resterà bloccata e si arriverà a sentenza definitiva. Così il pericolo principale è stato sventato, anche se i commentatori, ignoranti e/o in malafede, dicono l’opposto.

Tutto bene, allora? Niente affatto. La riforma, nella parte degli altri emendamenti Cartabia (cioè Ghedini-Bongiorno), resta una sconcezza: ma per fortuna è solo una legge delega e per entrare in vigore necessita di appositi decreti del governo, che si spera non faccia in tempo a vararli. Nella parte (predominante) della Bonafede, invece, contiene i 2,7 miliardi di Recovery stanziati dal Conte-2 per nuovi tribunali e carceri, assunzioni, ufficio del processo, digitalizzazione, notifiche semplificate ecc. Che poi è l’unica cosa che ci chiedeva l’Ue. Si poteva ottenere di più? Difficile: il M5S è solo, ma neppure l’appoggio di Pd e Leu (spariti) avrebbe garantito i numeri per battere le destre (Iv inclusa). Però l’errore di Conte è dire: “Mai pensato a causare la crisi di governo”. Se l’avesse causata, la schiforma sarebbe passata nella prima versione: la peggiore. Ma, senza le migliorie ingoiate da Draghi, buttarlo giù sarebbe stato il minimo sindacale. Se governi coi rappresentanti della criminalità che hanno appena visto condannare per mafia in appello i loro ex uomini di governo D’Alì e Cosentino (dopo B., Previti, Dell’Utri &C. per altri gravissimi reati), meglio tenersi sempre una via di fuga.

ILFQ