domenica 11 marzo 2012

Mafia, il concorso esterno esiste. Decine di condanne, non solo eccellenti. - di Giuseppe Lo Bianco





Dopo l'annullamento della sentenza contro Marcello Dell'Utri, si riapre il dibattito sul reato "inventato" da Falcone e Borsellino. Che ha portato a pene definitive per decine di colletti bianchi collusi con Cosa nostra e per diversi politici siciliani. Ma anche a processi controversi. Il dibattito spacca anche la magistratura.
Pino Giammarinaro fu assolto perché una norma provvidenziale introdusse l’obbligo per i pentiti di ripetere in aula le accuse, Filiberto Scalone (An) e Gaspare Giudice (Forza Italia) vennero assolti in appello dopo una condanna in primo grado, Calogero Mannino (Dc) ha fatto scuola per la Cassazione: la sua sentenza restringe notevolmente l’ambito di applicazione del reato. E dc sono anche gli unici politici a pagare con una condanna definitiva, Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo. La prescrizione di Andreotti non fa storia, perché, nel suo caso, l’imputazione era associazione mafiosa.

Assoluzioni, ma anche molte condanne, da Bruno Contrada e Ignazio D’Antone, a decine di professionisti. Negli anni ’80 era il reato dei colletti bianchi, nell’Italia mafiosizzata di oggi è l’imputazione dei potenti: sono indagati per 110 e 416 bis, tra gli altri, il presidente del Senato Renato Schifani, l’ex ministro Saverio Romano, a Palermo, e a Catania l’editore Mario Ciancio. ”Utile, ma complicato”, come dice il procuratore di Palermo Pietro Grasso, il concorso esterno lo hanno inventato Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80, e fu subito polemica tra procura e ufficio istruzione: i pm parlarono di mera contiguità, i due magistrati uccisi nel ’92 lo ritennero un termine inadeguato per descrivere il rapporto tra i boss e la società civile ‘’che conta’’ e nell’ordinanza del maxiprocesso posero le basi per la nascita del concorso esterno in associazione mafiosa: medici, ingegneri, architetti, avvocati e naturalmente politici collusi con le cosche avevano trovato una sanzione penale dall’unione di due articoli, 110, concorso di persona nel reato, e 416 bis, associazione mafiosa.

Da trent’anni il concorso esterno è al centro di una “guerra di religione” tra due culture giuridiche, risolta, finora, dalla Cassazione, in favore dell’esistenza, e dell’applicabilità, di questa fattispecie: se nel ’94, la sentenza Demitry aveva limitato ai casi di sola “emergenza”, e quindi anormalità, della vita dell’associazione criminale la possibilità di riconoscere un “concorso esterno”, nel 2002 le Sezioni Unite scrissero nella sentenza sul giudice Corrado Carnevale, annullata senza rinvio: “Conclusivamente deve affermarsi che la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di nuna situazione di anormalità nella vita dell’associazione’’. Parole autorevoli sia per chi le ha pronunciate, sia per la qualità dell’imputato, in attesa di essere confermate o smentite dalle motivazioni del verdetto di annullamento del processo Dell’Utri.

Ma se l’esistenza, fino a oggi, del 110 e 416 bis è stata progressivamente accettata e confermata, l’ambito della sua applicabilità ha scatenato gli scontri più accesi tra i pm e le fazioni politico-giudiziarie ultragarantiste e persino all’interno degli stessi uffici giudiziari, divisi sulla valutazione in caso di imputati eccellenti: in disaccordo con i colleghi il pm Gaetano Paci lasciò il processo Cuffaro avviato verso un’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia. Sostenne che se al “postino” delle informazioni riservate sulle indagini antimafia, l’ex assessore Mimmo Miceli, si applica il concorso esterno, alla fonte – Cuffaro – non si può applicare un reato minore.

Ma il procuratore Grasso fu irremovibile, e il reato di favoreggiamento diventò la frontiera più avanzata nella lotta alla mafia politica. La Cassazione condannò Cuffaro per favoreggiamento, ma gli sviluppi successivi sembrarono dare ragione a Paci: la procura contestò a Cuffaro il concorso esterno, ma il gip applicò il ne bis in idem, sostenendo che, comunque, se processato, Cuffaro avrebbe dovuto essere assolto: “Non basta la prova di certe frequentazioni con soggetti gravitanti nell’ambiente mafioso – scrive il giudice Anania – poiché tali aspetti potranno essere criticati sotto un profilo morale e sociale, ma non sono sufficienti per scrivere una sentenza di condanna’’.

Eppure gli stessi fatti sono stati qualificati come reato dalla Cassazione, che ha considerato, per esempio, la candidatura di Mimmo Miceli come frutto di un accordo politico-mafioso con il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. La domanda finale investe uno dei nodi delle inchieste in corso: quell’accordo (e dunque l’accordo politico-mafioso, ove provato) costituisce favoreggiamento alla mafia, come già stabilito dalla Cassazione, oppure qualcosa di diverso e più grave?

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