lunedì 19 aprile 2010

Noi donne, meno libere di vent'anni fa

Una società asfittica che guarda indietro, non accetta nuove figure femminili. E' vero: «Siamo sole»

Il movimento femminista non ha liberato le donne, scriveva sabato sul Corriere Susanna Tamaro. Ed è vero. Per essere libere bisogna avere opportunità, e diritti. E invece: dopo le prime, vitali (per molte donne sì, vitali) conquiste, come il diritto a interrompere una gravidanza, le femministe-guida d'Italia sono andate dove le portava l'ombelico. Invece di battersi per quote sul lavoro e asili nido, hanno passato svariati anni a discutere di «pensiero della differenza». Lasciandosi indietro milioni di donne che avrebbero appoggiato (avrebbero beneficiato di) battaglie liquidate come «emancipazioniste», come se fosse una parolaccia. Rimanendo in pochissime, fino a implodere. Attorcigliandosi a discutere di corpi ed embrioni fino a raggiungere (alcune) l'opposto estremismo: prima praticavano aborti, ora vogliono impedire ai corpi delle (altre) donne di concepire con la fecondazione assistita se non maritate, o di abortire.

E così, il femminismo italiano ha avuto durata breve, è stato marginale. E il suo ripiegamento riflessivo ha contribuito a danneggiare le donne lavoratrici, le donne madri, le donne omosessuali, le donne avventurose, e tutte le minoranze. Anche grazie allo scarso femminismo, in Italia non si è mai creata una vera cultura del politicamente corretto. Che non è (solo) una censura sui battutoni; è soprattutto rispetto per l'altro/a. Che altrove ha portato alle donne vita più facile e fatiche domestiche condivise; che (per dire) fa sì che negli Stati Uniti ci sia un presidente nero e un'icona dell'opposizione femmina e di estrema destra. Della cui assenza in Italia, tutte e tutti stiamo pagando il prezzo: razzismi multipli, misoginia e maschilismi fieri, insensibilità collettiva a comportamenti privati di persone pubbliche che altrove porterebbero crisi e dimissioni. L'assenza di political correctness femminista ha poi legittimato un sessismo ordinario capillare, negli uffici, nelle famiglie, nelle relazioni. Tanto comunemente tollerato e incoraggiato da far accettare che la liberazione sessuale venisse trattata come un grosso business.

Più redditizio che altrove, è noto. Perché non controbilanciato da movimenti di opinione femminili (e non) che criticassero l'onnipresenza di seni e glutei, la cooptazione in base all'età e all'aspetto, le continue discriminazioni. Anche per questo — Tamaro giustamente lo denuncia — siamo circondati da ragazzine e bambine aspiranti veline. Anche per questo non abbiamo modelli femminili validi, magari non attraenti, che non siano showgirls. Non per questo le ragazzine sono più promiscue, come lamenta Tamaro. Lo sono meno di tante adolescenti della sua generazione, e della mia. Sono meno libere di dieci o venti anni fa; non sono libere di sognare e sperare, soprattutto (specie le non-aspiranti veline). E non solo per colpa della recessione. Per colpa di una società asfittica, che tende a guardare indietro, che non conosce e non accetta nuove figure femminili. «Siamo sole», conclude Tamaro. Sì, lo siamo. Le ragazze precarie, le madri stanche, le donne che devono abortire e non trovano un ginecologo non obiettore, le sedicenni che non sanno dove andare a chiedere un contraccettivo e dipendono dal preservativo dei partner, le straniere abbandonate a se stesse, sono solissime. C'è bisogno di più femminismo, forse, casomai.

Maria Laura Rodotà
19 aprile 2010


http://www.corriere.it/cronache/10_aprile_19/noi-donne-libere-rodota_51586f06-4b87-11df-b8c5-00144f02aabe.shtml

Interessante articolo, obiettivamente valido.

La donna dovrà ancora penare molto prima di ottenere una vera parità di diritti, almeno fino a quando l'uomo, terribilmente gretto ed astuto all'inverosimile, non capirà che solo con la cooperazione tra uomo e donna si potrà raggiungere l'apoteosi del vivere civile.

Ma il grado di civiltà raggiunto non è ancora maturo abbastanza per posporre il merito rispetto dell'apparenza, pertanto la donna, pur di emergere, si autorelegherà nel ruolo di oggetto (velina), sempre se gradevole, restando schiava dell'uomo immaturo, bambinone, specie se ricco e potente.

PD e PDL in estinzione - Peter Gomez

Il film della settimana: “Green Zone” di Paul Greengrass





GREEN ZONE
di Paul Greengrass (Usa, 2010)

di Giona A. Nazzaro

Con la rutilante potenza di una macchina inarrestabile, Hollywood continua a produrre irresistibile cinema politico di massa. Apparentemente una contraddizione in termini, stando a certi pregiudizi elitisti. In realtà una genuina forma di controinformazione diretta che non è filtrata dal tetto della raccolta pubblicitaria o del pregiudizio ideologico dell’emittente o editore di turno ma solo attraverso l’efficacia spettacolare del prodotto. La velocità di un raccordo di montaggio diventa il segno di una connessione o di un’intuizione. La presunta superficialità l’arma in più per centrare il bersaglio. Con la libertà concessa solo alla grande cultura popolare e autenticamente di massa, il cinema statunitense sta offrendo uno spettacolo estremamente interessante di come si rielabora in tempo reale una guerra che non si riesce a chiudere.

In
Leoni per gli agnelli, Robert Redford mostra a un studente disilluso una cicatrice sulla fronte celata alla vista dalla sua chioma ancora bionda. Il ragionamento è evidente. Per affrontare il trauma del Vietnam, il cinema americano ha impiegato molto tempo. Forse addirittura battuto sul tempo dall’effetto shock prodotto dalle immagini televisive di giornalisti impegnati in prima film contro il conflitto nel sudest asiatico.

Con le guerre in Iraq e in Afghanistan, il cinema hollywoodiano ha reagito in tempo reale offrendo l’immagine di un’industria sana e critica che i propri panni non ci pensa nemmeno lontanamente a lavarli in casa. Basti pensare ancora al superbo dramma del petrolio che è
Syriana. Se Redford ha dato il via a questo particolarissimo filone, Brian De Palma con Redacted e Kathryn Bigelow con The Hurt Locker, senza contare titoli meno riusciti come The Messenger – Oltre le regole e il mediocre Brothers, hanno affrontato a testa bassa le conseguenze del conflitto iracheno e afghano trasformandolo incontestabilmente in un “fatto di cinema”.

In questo senso
Green Zone di Paul Greengrass, autore dei capitoli più riusciti della saga dell’agente smemorato Bourne, che aveva esordito con Bloody Sunday, dimostra non solo che è possibile produrre un cinema schiettamente politico, ma che questo non debba affatto soccombere alla noia o al vezzo di predicare solo ai già convertiti.

Green Zone segue Matt Damon militare impegnato nella localizzazione dei siti dove sarebbero custodite le famigerate armi di distruzione di massa di Saddam. Poco alla volta al soldato Damon sorge il sospetto che ci sia qualcosa che non funziona nei flussi di informazione che l’intelligence e i servizi offrono ai militari. Poco alla volta Greengrass evidenzia come e perché è nato l’inganno delle armi di distruzione di massa. A chi serviva e chi lo ha manipolato. Di fatto spiegandoci come mai gli Stati Uniti sono ancora in guerra. Questo è cinema popolare.

Con la lucidità dei grandi film paranoici degli anni Settanta post-Watergate, Greengrass mette in piedi un universo che potrebbe essere benissimo quello del super-agente Jack Bauer di
24. Nessuno è ciò che sembra. La verità è una valuta estremamente pregiata che viaggia meglio se falsa perché più leggera. Tra le strade di Baghdad, che si trasformano poco alla volta in budelli guardati a vista da cecchini, Matt Damon tenta, con l’aiuto di un Brendan Gleeson anziano agente della CIA, di evitare che la città diventi una polveriera più di quanto non lo sia già. Fatalmente essere paranoici significa semplicemente non ti fidare di nessuno e resta in vita più che puoi.

Al di là della grande lezione etica di
Green Zone, Paul Greengrass si dimostra superbo montatore di azioni frenetiche messe in scene con impeccabile chiarezza, nonostante l’abbondante uso di macchina a spalla e a mano. Lo sguardo non si smarrisce mai fra gli innumerevoli tagli di montaggio, evidenziando straordinaria abilità nell’equilibrare tutte le informazioni necessarie alla comprensione della vicenda senza sacrificare mai il tasso adrenalinico della vicenda.

Provate a immaginare un film animato da tale autonomia e libertà in Italia. Un film diretto al grande pubblico, ovviamente, e non al solito manipolo di bene informati. Un film italiano “politico” distribuito in tutto il mondo che ti trovi tanto nei multiplex quanto nelle sale di provincia (quelle che ancora resistono all’avanzata della fine). Impossibile, vero? Immaginate i distinguo, le discussioni e le polemiche che alla fine non fanno altro che partorire il solito topolino miserrimo?
Green Zone è tutt’altro: cinema. E si va a vederlo soprattutto per questa ragione. Il plusvalore del film sta in tutto ciò che lo spettatore porta a casa dopo che si sono accese le luci in sala. Paghi uno e prendi tre.

Green Zone è cinema politico. Cinema complesso. Che non rinuncia a una sola oncia di spettacolo senza praticare sconti a nessuno. E mentre in Italia si continua impunemente a blaterare di “americanate” e di “impegno”, film come Green Zonesbugiardano i governi e divertono chi paga il biglietto. A dirla così, sembra proprio una cosa comunista e invece è solo Hollywood.

(15 aprile 2010)


In ricordo di un amico

Mario Farisano era un operaio, da un anno in cassa integrazione.

44 anni, due figlie piccole e una moglie disoccupata.
Si arrangiava cantando in alcuni locali quando lo chiamavano. Si è impiccato in garage con la corda per saltare della figlia che aveva appena accompagnato all'asilo. Un amico lo ricorda.

"Caro Beppe, ti seguo da anni e continuerò a farlo fino a quando sarà questo il posto per dare una speranza, un segno di lotta contro chi dice che tutto va bene, che la crisi non c'è stata, anzi è passata, forse sta passando, sempre se c'è stata, ormai si dice tutto e il contrario di tutto. Vorrei scrivere tante cose, ma adesso voglio solo rendere omaggio ad un caro AMICO che non c'è più, sono sicuro che gli darai un piccolo spazio per rendere giusto tributo a chi lascia il Sud (Episcopia, PZ) per cercare fortuna altrove, fino a quando dobbiamo lasciare le nostre terre per andare lavorare, fare sacrifici, e a volte anche a morire lontano dalla nostra terra? Ciao Mario."

IO HO PAURA

Berlusconi-Fini, scontro finale - Paolo Flores d’Arcais


il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2010

Tra Berlusconi e Fini la partita è “a somma zero”. Uno dei due ne uscirà sconfitto, irrimediabilmente. Lo abbiamo scritto già mesi fa. La posta dello scontro non consente mediazioni. Riguarda due concezioni antitetiche del suffragio universale: per il presidente della Camera una versione di destra della democrazia liberale, ispirata a De Gaulle. Per il caimano di Arcore un populismo plebiscitario a pulsione totalitaria, modellato sull’amico Putin (e in qualche tratto sull’amico Gheddafi). Uno scontro il cui esito ipotecherà un periodo non breve della nostra convivenza civile.

L’esito dipenderà dai modi in cui Fini arriverà allo showdown. Dando per scontato che abbia deciso, che il dado ormai sia tratto. Dovesse infatti fare marcia indietro, il patto che firmerebbe, al di là delle possibili apparenze di “compromesso”, sarebbe un “patto leonino”, in cui il ruolo della vittima da sacrificare non sarebbe certo assegnato a Berlusconi. La prima mossa di Fini, apprezzabile e coraggiosa (e comunque improcrastinabile), ha un difetto di fondo, che regala al ducetto miliardario una carta di vantaggio: appare legata a uno scontro di potere, ad una redistribuzione delle quote di influenza all’interno del Partito del predellino. Tema che certamente non è in cima ai pensieri dei cittadini, e rischia di gettare un’ombra di “avidità” che la strapotenza mediatica del Padrone amplificherà a dismisura attraverso le falangi dei suoi minzolini, di video e di penna.

Mentre se c’è una battaglia in cui un politico non è mosso da interessi piccini o inconfessabili, e anzi rischia tutto il potere e i vantaggi accumulati nei decenni, è quella che ieri ha aperto Fini. Riguarda infatti la sopravvivenza o meno dei valori della Costituzione repubblicana, le libertà di tutti e di ciascuno, un futuro europeo anziché da satrapia orientale. Non ci permettiamo consigli, che oltretutto la disinformacija di regime iscriverebbe come prova a carico del “tradimento comunista” di Fini (vedrete che ci arriveranno comunque). Ma essendo lo scontro sui principi della democrazia liberale, il banco di prova sarà sulle prossime leggi di svolta totalitaria, in primis quella che garantisce la galera ai giornalisti che continueranno a fare i giornalisti (il loro mestiere sarebbe infatti informare). Basta non votarle e spiegare il perché. Gli italiani capiranno. E se cade il governo, non è detto che non ci siano in Parlamento i numeri per un governo di “lealtà costituzionale”. E milioni di cittadini in piazza per appoggiarlo.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-posta-in-gioco-tra-berlusconi-e-fini/

domenica 18 aprile 2010

Raimondo muore, Silvio si spaventa

Raimondo muore, Silvio si spaventa

imagesNon è stato un funerale qualunque, quello con cui si è affacciato nell’aldilà Raimondo Vianello. Non è stata la semplice scomparsa di un comico borghese che ci ha fatto sorridere delle nostre vite medie.

Il quadro dolente di Sandra Mondaini, non la sbirulina a cui si è voluto bene, la graziosa signorina che intepretava gradevoli bianchi e nero, ma un’anziana pietrificata dal dolore sulla sedia a rotelle, con una benda corsara all’occhio che le offendeva il viso, questo quadro insomma con al centro una donna al limite del dolore era la sintesi di una morte sintetica oltre che terrena: la fine di una gloriosa stagione televisiva, quella appunto vissuta dalla coppia Sandra&Raimondo, fatta di pacatezza e pudori, senso della misura e creatività genuina.

Un mondo che fu, e che più non è, violentato definitivamente dall’avvento di Berlusconi, l’uomo della pubblicità e delle poppe in vista. Non a caso, il premier, ha trovato il tempo e il modo per palesarsi in duomo e assistere alla cerimonia. Con l’intelligenza, anzi il fiuto che non gli difetta, ha intuito la portata dell’evento. La terminalità innegabile di una stagione italiana che si è espressa e riconosciuta attraverso il teleschermo.

Anche la televisione muore, avrà pensato con terrore il presidente del Consiglio mentre accarezzava la povera Sandra e costruiva il suo personale reality.
Anche il suo Canale 5, la sua Italia uno, il suo Retequattro, schiantati dalla banalità dell’offerta e dalla bomba tecnologica, stanno arrivando alla fine.
E così pure, clamorosamente, la sua giustificazione politica, fatta di un tutto e niente che si equivalgono e sopravvalutano.


http://bocca.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/04/18/raimondo-muore-silvio-si-spaventa/