venerdì 2 luglio 2010

Forza Mafia - Peter Gomez



da Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2010

La pornografica esultanza con cui buona parte del Pdl ha accolto la nuova condanna di Marcello Dell’Utri per fatti di mafia, spiega bene in che tipo di realtà criminale viva ormai la classe dirigente del nostro Paese. Prima ancora di averne letto le motivazioni i berlusconiani festeggiano perché, secondo loro, il verdetto dimostra come tra l’ideatore di Forza Italia e Cosa Nostra non vi è stato un patto politico. Anche a voler credere a questa tesi, i coriferi del Cavaliere sorvolano però su un punto. Fondamentale. Dell’Utri, pure secondo i giudici d’Appello, è stato fino al 1992 l’anello di congiunzione tra la mafia e il “mondo finanziario e imprenditoriale milanese”. Cioè la Fininvest di Berlusconi. Il senatore azzurro lavora al fianco del Cavaliere dal 1973.

Ancor più del corruttore di giudici Cesare Previti è suo sodale e amico. E proprio per conto di Berlusconi ha versato denaro agli uomini del disonore. Soldi che l’attuale premier donava, secondo l’accusa, per mantenere buoni rapporti. Tanto che la parola “regalo” è stata trovata nella contabilità della famiglia mafiosa di San Lorenzo, accostata alla voce Canale 5. Dell’Utri, salvo una breve parentesi, è stato poi al fianco di Berlusconi quando questi fondava le sue televisioni. Fatti simili, tra chi dice di richiamarsi all’esempio di Borsellino, dovrebbero indurre a due riflessioni. Ancor oggi, visto che il Cavaliere in Tribunale si è avvalso della facoltà di non rispondere, ogni ipotesi, anche la peggiore, sulle origini delle sue fortune è valida. E ancora: un Paese può essere governato da chi regalava milioni a un’organizzazione di assassini, mentre altri imprenditori dicevano di no? Da ieri, a destra, chi è uomo e non ominicchio o quaquaraquà ha il dovere di rispondere. Prima che sia troppo tardi.
(Vignetta di Bertolotti e De Pirro)

Il mandante - di Pino Corrias, 30 giugno 2010
Sette anni, ne dimostra di più - di Marco Travaglio, 29 giugno 2010

Video - Dell'Utri: "Dissi io a Berlusconi di stare zitto" (da ilfattoquotidiano.it)
La rassegna stampa a cura di Ines Tabusso.


Toga e bavaglio - Marco Travaglio



da Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2010


Un’allegra combriccola formata da Maurizio Belpietro, Fabrizio Cicchitto, Emanuele Macaluso, l’Ordine degli avvocati di Palermo, mezza Anm di Palermo e il membro turboberlusconiano del Csm Gianfranco Anedda ritiene che il nostro piccolo giornale abbia addirittura intimidito e screditato i tre giudici della II Corte d’appello di Palermo che l’altro giorno hanno ricondannato Dell’Utri con lo sconto di due anni per il periodo post 1992: il presidente Claudio Dall’Acqua, i giudici a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare. Belpietro ci accusa di lanciare “messaggi mafiosi” e ne risponderà in tribunale. Macaluso, che evidentemente non trattiene ciò che legge per più di 48 ore, dice che avremmo “accusato con una disinvoltura preoccupante i giudici di aver goduto di favori dal mondo di Dell’Utri”. Cicchitto, grande esperto di cappucci e un po’ meno di diritto, attribuisce al Fatto fantomatiche “intimidazioni ai magistrati che facevano parte della giuria (il pover’uomo chiama così la Corte d’appello, ndr)” per conto del “network dell’odio in servizio permanente effettivo”. Anedda, lo stesso che a dicembre accusò i pm Ingroia e Spataro per l’attentato del matto a B. in piazza Duomo, ci imputa da vero intenditore un “avvertimento di tipo mafioso” (ne risponderà anche lui in tribunale), poi chiede e ottiene dalla I commissione del Csm (4 sì e 2 no) di aprire una pratica a tutela dei tre giudici oggetto di “insinuazioni e sospetti” che getterebbero “discredito sul collegio giudicante e sull’intera magistratura” e costituirebbero “condizionamenti se non intimidazioni”.

In quest’orgia di
parole a vanvera, nessuno ha pensato di smentire una sola virgola dell’articolo contestato: quello pubblicato il 15 giugno sul Fatto da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza. Perché delle due l’una: o quanto hanno scritto Lo Bianco e Rizza è vero, e allora non si capisce bene da che cosa il Csm debba tutelare i tre giudici (da se stessi? dalla verità?); oppure è tutto falso, e allora, anziché piagnucolare e invocare soccorso a destra e a manca, i tre giudici potrebbero inviarci una succulenta rettifica, che noi saremo ben lieti di pubblicare, con opportuna replica s’intende. Ma che scrivevano Lo Bianco e Rizza?
Citavano un mio articolo sull’Espresso, in cui svelavo un segreto di Pulcinella: e cioè l’aperta ostilità e insofferenza dimostrate dal
collegio, durante il processo, nei confronti delle richieste dell’accusa, in gran parte respinte (per molto meno, in altri processi, i giudici sono stati ricusati dal pm o dal pg). Poi tracciavano il profilo dei tre giudici, scoperchiando qualche altarino non proprio edificante. Dall’Acqua ha due figli: uno, in pieno processo Dell’Utri, è stato promosso per chiamata diretta del sindaco di Palermo, il forzista Cammarata, a segretario generale del Comune, scavalcando altri pretendenti più titolati; l’altro, ingegnere, lavorava fino a pochi giorni fa in Abitalia di Vincenzo Rizzacasa (arrestato l’altro giorno per riciclaggio, essendo ritenuto il prestanome del boss Salvatore Sbeglia, uno dei più celebri soci di Totò Riina), il cui direttore tecnico – come risulta dai cartelli affissi in tutti i cantieri – è Francesco Sbeglia, figlio di Salvatore e condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.

Notizie o minacce?
Salvatore Barresi, come ha raccontato il suo ex compagno di scuola Massimo Ciancimino, giocava a poker con don Vito. Notizia o minaccia? Sergio La Commare fu censurato dal Csm perché, per non leggersi tutte le carte di un processo, aveva chiesto in un pizzino al pm di fargli un riassuntino. Notizia o minaccia? Quanto fossero pertinenti al processo Dell’Utri queste notizie, lo capiscono tutti: questa è la Corte che ha respinto le carte della Procura sui rapporti di Dell’Utri con il clan Piromalli e con il latitante Palazzolo, i riscontri alle parole di Spatuzza e addirittura la testimonianza di Massimo Ciancimino.
Per strano che possa sembrare a lorsignori, Il Fatto racconta i fatti (non i calzini turchesi). Chissà se è ancora lecito, nel Paese che fa del
bavaglio non una semplice legge, ma una cultura istituzionale.

(Vignetta di Fifo)

http://voglioscendere.ilcannocchiale.it/2010/07/02/toga_e_bavaglio.html


I fratelli Karamafia - Marco Travaglio



In un Paese che crede assolti i prescritti Andreotti e Berlusconi, si può dire di tutto. Ma le corbellerie dette e scritte sulla sentenza Dell’Utri vincono il campionato mondiale della balla.

1) “Mangano è il mio eroe: in carcere gli fu chiesto di parlare contro me e Berlusconi. E se avesse inventato anche una minima cosa, una parolina contro me e Silvio, sarebbe uscito subito senza morire in cella di cancro. Poteva vivere raccontando qualsiasi falsità e non l’ha fatto. Poteva salvare la sua vita e tornare a casa” (Marcello Dell’Utri). Questo signore che parla di mafia citando i Fratelli Karamazov non ha mai spiegato chi avrebbe offerto a Mangano la libertà in cambio di bugie. Nessuna legge, nemmeno quella sui pentiti, garantisce libertà immediata a chi parla: chi l’avesse fatto avrebbe commesso un reato. Perché Dell’Utri, se sa chi è, non lo denuncia? Mangano, dopo gli 11 anni (1980-’91) scontati per mafia (processo Spatola) e droga (maxi-processo), fu riarrestato nel ‘99 per tre omicidi e condannato in primo grado a due ergastoli. Poco dopo fu scarcerato per motivi di salute e il 23 luglio 2000 morì di cancro ai domiciliari (non in cella). Nessuno, viste le imputazioni, poteva garantirgli di “uscire subito”. Né tantomeno di guarire dal cancro, che purtroppo colpisce sia in cella sia a piede libero.

2) “Bastava confermare che, quando parlavamo al telefono di un cavallo, sotto c’era la droga. Invece Mangano lo voleva vendere a Berlusconi, ma io gli dissi che a Silvio non interessava perché troppo focoso” (Dell’Utri). È la telefonata Mangano-Dell’Utri intercettata dalla Criminalpol il 14 febbraio 1980. Mangano: “Ci dobbiamo vedere”. Dell’Utri: “Come no? Con tanto piacere!”. M: “Le devo parlare di una cosa… Anzitutto un affare”. D: “Eh, questi sono bei discorsi”. M: “Il secondo affare che ho trovato per il suo cavallo”. D: “Davvero? Ma per questo dobbiamo trovare i piccioli”. M: “Perché, non ce n’hai?”.D: “Senza piccioli non si canta messa”. Ora, se Mangano voleva vendere il proprio cavallo a Berlusconi, perché non dice “mio”, ma (rivolto a Dell’Utri) “suo”? Perché Dell’Utri, se il cavallo non era per lui, si preoccupa di non avere “piccioli”? E perché, in tutta la conversazione, non dice mai quel che inventa oggi, e cioè che Berlusconi non voleva il cavallo perché troppo focoso?

3) “Quando l’ho conosciuto, Mangano era avulso dall’ambiente mafioso. Ad Arcore ha lavorato bene. Dopo, come dice Dante, ‘che colpa ho io della sua vita rea?’” (Dell’Utri). Nel 1974, quando Dell’Utri lo ingaggia ad Arcore, Mangano ha 33 anni e ha già collezionato denunce, condanne e 5 arresti per assegni a vuoto, truffa, lesioni, ricettazione, estorsione, rapporti con narcotrafficanti e mafiosi. Per la questura di Palermo è già un “soggetto pericoloso”. Per i carabinieri Dell’Utri è perfettamente “a conoscenza del suo passato”. Ad Arcore dal 1974 al ’76, Mangano organizza sequestri, mette una bomba nell’altra villa di B., viene arrestato due volte in due anni per scontare pene su reati commessi prima. Tant’è che Dell’Utri, al processo, sostiene di averlo cacciato appena scoperto (molto tardi) che era un delinquente. Salvo poi continuare a frequentarlo e definirlo eroe.

E ancora:

4) “Sentenza comica, un mafioso part time, che è picciotto ma appena appena, sembra uno di quegli espedienti da commedia all’italiana” (Maurizio Belpietro, Libero). “Sentenza pilatesca, incoerente. I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica” (Dell’Utri). Il discorso sarebbe ragionevole se la sentenza dicesse che Dell’Utri è mafioso fino al ‘92 e poi smette. Ma è impossibile che un giudice sano di mente sostenga una simile fesseria. I processi non ricostruiscono la storia. Affermano le responsabilità penali solo sui fatti dimostrati da prove oltre ogni ragionevole dubbio. Se un rapinatore imputato per 10 rapine viene condannato “solo” per 9, nessuno si sogna di affermare che, dopo quelle 9, ha smesso, o che prima era un galantuomo: semplicemente si dice che sono provate 9 rapine e il resto no. Cos’abbia fatto prima e dopo, lo si può immaginare; ma non è compito dei giudici, almeno fino a prova del contrario. Nessuno dice che dal 1993 Dell’Utri sia diventato buono: solo che le prove non bastano a condannarlo per il post-1992 (la formula “il fatto non sussiste” si sposa spesso con l’art. 530 comma 2 Cpp, che assorbe la vecchia insufficienza di prove: dalla motivazione sapremo se anche lui, come Andreotti, per gli anni più recenti s’è salvato per quel motivo).

5) “Dovevano assolvermi anche per il ‘prima’ del 1992, ma non l’han fatto per dare un contentino alla Procura. Per evitare lo schiaffo… Il problema è la Procura. Caselli e Ingroia sono potentissimi, in grado di condizionare l’ambiente. Spero di non trovare in Cassazione un giudice di Palermo” (Dell’Utri). Sostenere che 7 anni per concorso in mafia sono un contentino ai pm sconfitti, è ridicolo. Specie se lo fa un senatore della Repubblica. Dell’Utri è imputato per i suoi rapporti con Cosa Nostra dai primi anni ‘70 al ‘96: un quarto di secolo. In primo grado è stato condannato per fatti commessi fino al ’96. In appello “solo” fino al ’92: un quinto di secolo (ora, come per Cuffaro, sui fatti post-‘96 esclusi incredibilmente dalla Corte d’appello – dai contatti intermediati col latitante Palazzolo nel 2003-2004 ai rapporti con la ‘ndrangheta nel 2008 – si può aprire un nuovo processo).

6) “Difficile che a Palermo delle toghe abbiano il coraggio di mettersi contro altre toghe, quantomeno in processi che hanno risonanza” (Belpietro). Se è vero che i giudici di Palermo non osano mai dare torto ai pm, perché il Tribunale assolse Andreotti in primo grado? Perché la Corte d’appello, la prima volta, assolse Contrada? Perché Tribunale e Corte d’appello assolsero Mannino? Si è sempre detto (mentendo) che i “processi eccellenti” dell’èra Caselli sono finiti tutti nel nulla. Ora si dice (mentendo) che i giudici danno sempre ragione alla Procura.

7) “Il reato potrebbe cadere in prescrizione, perché tra breve saranno trascorsi i 20 anni. I giudici, condannando Dell’Utri, lo salvano” (Belpietro). La prescrizione, per il concorso esterno aggravato dalle armi e dal denaro, scatta 22 anni e mezzo dopo gli ultimi reati accertati: 1992 più 22 e mezzo fa 2014-2015. Cinque anni per il verdetto in Cassazione bastano e avanzano; il rischio prescrizione si concretizzerebbe in caso di annullamento con nuovo Appello e nuova Cassazione, ma l’annullamento potrebbe riguardare l’insostenibilità dell’assoluzione post-’92 e, allungando i tempi del reato, si allungherebbe la prescrizione.

“Il concorso esterno è una fattispecie di reato così generica ed evanescente da ricomprendere anche le semplici amicizie o frequentazioni, buone o cattive. Ci penserà la Cassazione a cancellare questa vergogna antigiuridica, come è puntualmente avvenuto con Mannino” (Il Foglio). La “vergogna antigiuridica” l’ha inventata Falcone nell’ordinanza del “maxi-ter” (1987): “Manifestazioni di connivenza e collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. È proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché correlativamente delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Quanto a Mannino, la Cassazione s’è ben guardata dall’affermare che il concorso esterno non esiste: ha soltanto ritenuto che, per lui, non fosse sufficientemente provato. Infatti la stessa Cassazione ha condannato Contrada a 10 anni per concorso esterno.

9) “Il dispositivo nega ogni relazione tra la discesa in campo di Berlusconi, il vero obiettivo del processo. Liquida come balle sesquipedali le rivelazioni di Spatuzza e Ciancimino. Le responsabilità nelle stragi e i collegamenti tra mafia e Forza Italia vengono archiviati” (Belpietro). “Crolla tutto il castello dei teoremi sulle trattative tra lo Stato e la mafia e sui mandanti occulti delle stragi” (Lino Jannuzzi, Il Giornale). “La sentenza assolve Dell’Utri dall’accusa più grave: quella di aver ordito un golpe mafioso con le stragi del ‘93” (La Stampa). “Un macigno sulla tesi FI-mafia-stragi del ‘92”(Il Riformista). “Ma le stragi no” (Il Foglio). Difficile che Ciancimino venga smentito, visto che non è stato neppure ascoltato dalla Corte. Di Spatuzza si può dire al massimo che mancano i riscontri, anche perché sono giunti in extremis e la Corte li ha respinti. Quanto a B., non è mai stato “il vero obiettivo del processo”, altrimenti la Procura avrebbe chiesto di rinviare a giudizio anche lui, invece l’ha archiviato. Dell’Utri non è imputato per le stragi (inchieste archiviate, per lui e per B.). Comunque la condanna comprende anche il 1992, l’anno di Capaci e via D’Amelio. Mai il processo Dell’Utri s’è occupato di trattative Stato-mafia e mandanti occulti delle stragi, su cui indagano Palermo, Caltanissetta e Firenze. Qui le uniche “balle sesquipedali” sono quelle di Belpietro, Jannuzzi e altri giuristi per caso.

10) “Resto senatore, fino a sentenza definitiva sono innocente” (Dell’Utri). Ma lui ha già una condanna definitiva a 2 anni e mezzo per false fatture e frode fiscale. Che ci fa un pregiudicato in Parlamento, a parte tenere compagnia agli altri?



"Altro che privacy si difende solo il malaffare".



Roma una grande piazza di democrazia, una bella pagina di libertà.

I detrattori della prima e dell'ultima ora che "gufavano" contro la manifestazione sono stati decisamente zittiti. Quella del 1° luglio è stata una splendida giornata di democrazia e di libertà. Non ci interessa la conta dei presenti. Ci interessa la passione civile di quanti, ed eravamo tanti, hanno gremito Piazza Navona per gridare sopra e sotto il palco che la libertà di informazione non si tocca. E li ringraziamo tutti. A cominciare dalle tante associazioni e dai singoli che non sono potuti intervenire sul palco ma che hanno dato un contributo essenziale per la riuscita di questa giornata.

Non è stata una manifestazione corporativa, come alcuni, ci possiamo scommettere, sosterranno all'indomani. Non c'erano solo i giornalisti e i magistrati. C'erano migliaia di cittadini ogni giorno più indignati da un governo che, riducendo l'uso delle intercettazioni, vuole consentire alle tante cricche di agire indisturbate. Di acquistare e affittare attici al costo di seminterrati, di ridere e speculare sulla tragedia di un terremoto.

"Il provvedimento è "un macigno", ha detto in apertura Franco Siddi, segretario della Federazione della Stampa che ha promosso la mobilitazione. "Farà sì che le inchieste non appariranno per anni su giornali e tv"."Questa legge non vuole difendere la privacy o, come si è detto, le telefonate tra i fidanzatini" ha detto dal palco un applauditissimo Roberto Saviano. "Il suo unico scopo è di impedire di conoscere ciò che accade e di difendere, più che altro, la privacy del malaffare o, se vogliamo, degli affari della politica". "L'oscuramento del diritto di cronaca e della legalità - ha affermato il portavoce di Articolo21 Giuseppe Giulietti - è l’oscuramento anche della questione sociale e della 'macelleria sociale' in corso con i tagli previsti dalla manovra finanziaria".

L’aria sta cambiando e non per lo scirocco che ci introduce nella stagione estiva. Cambia perché nella stessa maggioranza di governo si levano voci pesanti di dissenso ultime delle quali quelle dei giovani del Pdl di Palermo che non hanno per nulla festeggiato la riduzione di pena inflitta a Marcello Dell'Utri dalla Corte d'Appello e che si vergognano all'idea di un senatore della Repubblica, mafioso quantomeno fino al '92, che erge ad eroe un collega di cupola come Vittorio Mangano piuttosto che uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Non sarà una casualità se, nelle stesse ore in cui la piazza si riempiva di bandiere e striscioni il Presidente
Giorgio Napolitano affermava "non mi hanno ascoltato" riferendosi alla maggioranza che vorrebbe approvare il ddl prima dell'estate. E non sarà un caso neppure se, in contemporanea con gli interventi dal palco il presidente della Camera Gianfranco Fini chiariva di non volere che nel suo partito e nel governo "ci sia nemmeno il sospetto che c'è qualcuno che si vuol far nominare ministro perché non vuole andare in tribunale".

La piazza si svuota. In un corteo che si divide nelle strade della Capitale dipinto dal giallo dei post-it, dal viola delle t-shirt e dalle valigie blu. Ma è solo un arrivederci. E un avvertimento solenne ai governanti: anche se cercherete di approfittare dei mesi estivi e delle ferie (per quelli che se le potranno permettere in un Paese dove galoppa la disoccupazione e il precariato) perfino ad agosto ci saranno piazze gremite di gente a contestare i provvedimenti più scellerati, le leggi più incostituzionali, i tagli alla cultura e i bavagli all'informazione. "Ci siamo riappropriati della Costituzione – ha detto Stefano Rodotà dal palco - ora la piazza può influire direttamente sull’agenda politica”.

E saremo tutti davanti alla Camera il 29 luglio con voci più assordanti delle vuvuzelas per contrastare il ddl intercettazioni e chiunque vuole donne e uomini sudditi di un nuovo Sultanato piuttosto che cittadini liberi di esprimersi e di conoscere la verità.

corradino@articolo21.info

http://www.articolo21.org/1402/notizia/altro-che-privacy-si-difende-solo-il.html


Stile Scarface, la villa bunker di don Ciccio Porte blindate, cani e telecamere a vista



MILANO – Leoni e discoboli, cavalli alati e la copia del cristo redentore di Rio de Janeiro. Il tutto rigorosamente in marmo bianco a puntellare viottoli, prati all’inglese e una piscina. All’ingresso una targa: villa Angelina. Poco sopra un cartello annuncia l’ingresso del ristorante La Masseria. E’ questo il buen ritiro del boss
Francesco Valle (qui sopra nel video che documenta gli arresti di questa mattina), uomo di ‘ndrangheta emigrato al nord a metà degli anni Settanta. Fuggito più che emigrato. Per scappare a una sanguniosa faida di mafia. Una fuga che si è trasformata in una fortuna di case e conti bancari. Un bel tesoretto accumulato a colpi di usura.

Un autentico fortino reso ancora più spigoloso da decine di telecamere a vista, fisse e basculanti, sensopri, allarmi. Tutte collegate in una sala ascolto monitorata 24 ore su 24 dai picciotti del boss. Qui i capi della cosca erano soliti festeggiare compleanni e comunioni. Qui si celebrano autentici summit di mafia per decidere le strategie della ‘ndrangheta. Ai tavoli del ristorante per molti anni si sono seduti i plenipotenziari della mafia calabrese trapiantata al nord. Qui si sono discusse le strategie Expo, calibrando gli equilibri tra le varie famiglie, discutendo omicidi. Un luogo simbolo, insomma. Conosciuto da tutti gli affiliati. Chi saliva al nord dalla Calabria aveva in tasca quest’indirizzo: via Cusago 2, Cisliano.

L’intero pacchetto risulta, però, intestato a un signore egiziano. Eppure a spulciare nelle visure camerali, passaggio dopo passaggio, si torna sempre a loro: i Valle. E’ qui che questa mattina sono arrivati almeno 50 agenti per portare via i capi dell’organizzazione. Doppio ingresso: il primo dal ristorante, il secondo, incastrata in un viottolo di villette, quello della casa. Due piani e tetto di mattonelle rosse. Cani dentro e fuori. E da fuori si intuiscono i video. Mentre dentro sacro e profano si fondano nell’arredamento con statuette dei santi.

Qui il padrino legato alla cosca De Stefano ha ricevuto i propri debitori. Gente minacciata e presa a pugni. Già, “perché alla Masseria – racconta un imprenditore usurato dalla ‘ndrangheta – si va per dare e non per prendere”. E in effeti i Valle in nquesti anni hanno preso e molto. Soprattutto grazie all’alleanza con la famiglia Lampada che secondo il Ros di Reggio Calabria, rappresenterebbe il braccio finanziario della cosca Condello. Fedrazione d’affari, ma anche d’affeti, visto il matrimonio tar due rampolli dei rispettvi casati, celebrato, manco a dirlo, alla Masseria.



Stefano Rodotà Manifestazione FNSI No DDL Alfano intercettazioni 1 luglio 2010.rm


Il Professor Rodotà interviene alla manifestazione dell'FNSI contro il DDL sulle intercettazioni a piazza Navona a Roma.


Rodotà ''Ci siamo appropriati della Costituzione''.


1 luglio 2010

L'intervento dell'ex garante della privacy dal palco di Piazza Navona alla manifestazione contro la legge sulle intercettazioni. "Il tempo della acquiescienza dell'opinione pubblica è finito"