venerdì 15 ottobre 2010

Afghanistan, ecco la veritàdi Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi


I civili uccisi. Le battaglie dei parà che La Russa non ha mai rivelato. I feriti italiani tenuti nascosti. E poi le stragi di talebani, le azioni coperte degli 007, i tradimenti e i doppi giochi. Ecco il vero volto della nostra 'missione di pace'. Nei file scoperti da Wikileaks e consegnati a L'espresso

«Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni». Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul. Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani.

"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi
documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri. Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d'ingaggio hanno provocato l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.

Ma il dossier viene corretto nove giorni dopo: ci sarebbe anche un civile ucciso e due feriti. «Non si sa chi li abbia colpiti. Un'indagine è in corso». Non si può escludere quindi che siano vittime dei talebani. La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9, con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco. Si spara per oltre tre ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave. Si stima che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti, ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in ospedale.

I limiti dell'autodifesa
Come accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio. Una ventina di loro vengono feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un razzo. A quel punto si scatena un diluvio di fuoco «in una zona densamente popolata»: viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da 30 millimetri. Infine l'ordigno più grande: la Bunkerbuster da 2 mila libbre che spazza via un edificio dove i talebani si erano barricati. Nel combattimento muoiono sei americani e 19 afghani. Nessuna informazione sulle vittime civili. Gli italiani partecipano solo ai soccorsi. Ma come fanno poi i civili a distinguere tra noi che amministriamo il territorio con grande rispetto per la popolazione e chi bombarda? Le divise sono pressoché identiche e i reparti vanno in azione sempre più spesso insieme.


Due mesi di fuoco

Per rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti parziali. Partiamo dal 16 giugno 2009. La Task Force Lince finisce sotto attacco, risponde usando anche mortai leggeri: si ritiene che i talebani uccisi siano sei. Il 20 nuova sparatoria, tre giorni dopo un blindato finisce su una mina, ma l'equipaggio se la cava. Il 25 una pattuglia combatte a sud, verso il confine iraniano.

Il 27 a nord verso Bala Murghab un lungo scontro: cinque guerriglieri uccisi. Quasi contemporaneamente a sud si spara per ore per salvare un convoglio di camion americani. Una colonna italiana interviene, ma viene bloccata dalle pallottole. Dal cielo arriva una coppia di elicotteri, si ritiene Mangusta, che spara 20 colpi da 20 millimetri. A dirigere il tiro è un commando italiano, nome in codice Bardo 5. Si stima che sei aggressori restino sul campo. Poche ore dopo un'altra squadra della Folgore viene centrata: salta in aria un Lince, ma c'è solo un ferito leggero. Il 28 fuoco con mitragliere e mortai: un nemico ucciso. Il giorno dopo bomba contro un convoglio logistico: un italiano ferito e un mezzo danneggiato. Il 30 all'alba razzi contro la base Tobruk, che risponde con i mortai da 120, e poco più tardi ancora un raid per aiutare poliziotti afghani in difficoltà.

Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati in un edificio. Parà italiani e soldati afghani intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si rovescia, due soldati restano feriti. Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento. L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani i miliziani scappano. Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia. Il 14 a Farah una bomba capovolge un Lince: il mitragliere Alessandro Di Lisio muore, altri due parà all'interno vengono feriti in modo leggero. Il 15 cercano di lanciare un missile contro l'aeroporto di Herat. Il 20 razzi contro la base Tobruk: colpiscono anche una casa, un civile morto e tre feriti. Il giorno dopo a Bala Murghab due bambini finiscono su un ordigno destinato ai parà: uno muore, l'altro viene ferito.

Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la vita di quattro soldati, che riportano solo ferite. Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici. C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà rispondono anche con mortai. Arrivano i Mangusta che lanciano un missile «in campo aperto», poi usano il cannone: 210 proiettili contro una casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino. Recita il rapporto: «Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico». La prima stima è di 45 guerriglieri uccisi «ma non è stato possibile verificarlo perché le case erano presidiate dai talebani». Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di intelligence.

Cannoniere volanti
I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce perché il ministro Ignazio La Russa ponga la questione delle bombe sugli aerei: basterebbe aumentare il numero degli elicotteri, che hanno missili filoguidati e cannoni a tiro rapido. E che spesso - come indica il gergo Nato - "go kinetic" ossia fanno fuoco a volontà. Anche gli americani li invocano. Come quando il 16 agosto una squadra statunitense viene imbottigliata nel villaggio di Siah Vashan. I velivoli italiani gli permettono di fuggire con 400 colpi «in un campo aperto».

I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il 26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole. Il 9 luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo: ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli insorti" a cannonate. Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio per liberare una compagnia statunitense. Il 3 settembre i commandos spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.

Ma c'è chi ci aiuta
In diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri fanti. I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme: «Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle abitazioni». Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li ferma: «Attenti è pieno di talebani». Ma è troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave, gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco però a perdere il consenso della gente. Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in un'imboscata nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di colpi da 30 millimetri, due bombe, un razzo al fosforo bianco. Il rapporto indica che «tutte le coordinate colpite sono un'area abitata». Sembra che il governatore e il comando italiano vengano tenuti all'oscuro del volume di fuoco. E all'indomani nei due ospedali di Farah e Balah Baluk si presentano molti civili feriti.

Natale di bombe
La Folgore ha una singolare fantasia nello scegliere i nomi delle operazioni. Quando arriva in Afghanistan lancia l'operazione "Buongiorno", per far capire ai talebani che il clima è cambiato. Poi scatta "Bestia feroce" e con l'avvicinarsi del Natale ecco "Guastafeste". Ma il pomeriggio del 25 dicembre i talebani festeggiano a modo loro: attaccano una pattuglia Usa in un borgo non lontano dal fortino di Bala Baluk. Si muove la compagnia Cobra delle nostre forze speciali: 39 soldati e dieci Lince, in due colonne. I talebani li bloccano. Loro rispondono con 4 mila proiettili. Ma non basta. Dalla base tirano con i mortai da 120. Poi arrivano gli aerei: due bombe e tutti rientrano incolumi nell'avamposto per cena.

Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni. Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra si appostano, gli americani entrano nel paese. Ma dai tetti rispuntano i cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi. Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma controllare è troppo pericoloso. Il giorno dopo due bambini feriti si presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata. Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico: «Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia uccisa».

Chi ci spara contro
I resoconti dell'intelligence americana mostrano la sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della polizia afghana non può essere giudicata affidabile, perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle fila dei talebani. Molti lo fanno perché non vengono pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi». Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della polizia siano d'accordo".

Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di «avere un fratello nei talebani». Molto spesso sulle informative degli 007 è scritto in evidenza: «Queste notizie non devono essere condivise con il governo di Kabul e la polizia». L'episodio più grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus. Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato. Il 21 dicembre, dopo una lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani. La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab. Persino quattro uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati come complici dei talebani e rimossi. E c'è il sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia stato organizzato con la complicità di poliziotti. Molti di loro però pagano con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12 civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.

I bambini perduti
Le informative occidentali e anche quelle italiane evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni, destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe. Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole religiose che formano i quadri talebani. Temono il successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato. Ci sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della Task Force 45, l'unità speciale di commandos italiani, a Farah: le fiamme hanno fatto esplodere la scorta di munizioni e una granata ha centrato un elicottero americano parcheggiato nelle vicinanze. Ma alla fine la causa è stata individuata in un difetto del gruppo elettrogeno.

L'intelligence
I files di Wikileaks mostrano un grande attivismo dei nostri servizi segreti, sul campo e nei Paesi chiave per conoscere le mosse dei talebani. Nel 2009 il comando italiano ha ricevuto 255 rapporti su minacce di attentati e movimenti dei guerriglieri. Gli americani sembrano diffidare di molte delle nostre fonti e selezionano questi dossier, dandogli gradi di affidabilità limitati. E sul campo accadono episodi molto oscuri. Un nostro ufficiale alla guida di una colonna spara contro un agente dei servizi segreti di Kabul. Pare che gli 007 di Karzai avessero bloccato una nostra missione sul campo: dopo la sparatoria arrestano tutti gli italiani, rilasciandoli dopo alcuni giorni. Ancora più enigmatica è la consegna al governo di Roma di un prigioniero custodito dagli americani: dovrebbe trattarsi di un terrorista straniero. Lo scambio avviene il 20 dicembre 2009 all'aeroporto di Bagram e l'uomo prende il volo con un Hercules dell'Aeronautica. Chi è? Perché interessava tanto alle nostre autorità? Nel documento ci sono solo codici cifrati, e niente nomi.

Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente suggestivo: ha il titolo "Berlusconi" e racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi, in sostegno del generale Dostum, leggendario signore della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella campagna elettorale. Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere? L'ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata assegnato da governo e parlamento.



mercoledì 13 ottobre 2010

“Il 16 ottobre a Roma per il Lavoro, la Democrazia, il Sud”




Dal Mezzogiorno un appello del mondo della cultura e dell’università ad aderire alla manifestazione indetta dalla Fiom.


da sinistrasvegliati.org

Molteplici sono le ragioni per aderire il prossimo 16 ottobre alla manifestazione nazionale della FIOM CGIL, in difesa dei diritti e del lavoro. E nel Sud del nostro Paese queste ragioni sono amplificate dal sottosviluppo e dalle gravi responsabilità del governo.

Il Mezzogiorno sprofonda oggi in una crisi dalle molte facce.

C’è il cancro della criminalità, che controlla vaste aree. C’è il “paradosso della doppia migrazione”, con i migliori giovani del Mezzogiorno che se ne vanno in cerca di lavoro e tanti stranieri che arrivano, trovando ben scarsa capacità di accoglienza e, nel migliore dei casi, un lavoro irregolare. C’è la devastazione del territorio, con una teoria ininterrotta di emergenze, spesso interconnesse: dai rifiuti, all’abusivismo edilizio, al dissesto idrogeologico. C’è il crescente depauperamento del sistema delle infrastrutture, con la vicenda infinita dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria ormai diventata l’emblema stesso del fallimento dello Stato.

E tutto ciò oggi è reso ancora più drammatico dalla crisi economica in atto, che qui si infrange più duramente che altrove. Certo, tutto il Paese è in ginocchio e la stessa tenuta dell’Unione Monetaria Europea sembra a rischio. Ma altrove le forze per resistere si organizzano e provano ad uscire dal tunnel. Mentre, alle condizioni attuali, il Mezzogiorno non ce la fa. Il suo tessuto produttivo risulta troppo indebolito dagli effetti dell’apertura dei mercati, dal fallimento completo delle cosiddetta “nuova programmazione” per il Mezzogiorno, dal colpevole disimpegno del governo nazionale.

E certo non è credibile pensare di rilanciarne le sorti inseguendo una competitività da bassi salari e scarsi diritti. Ormai sappiamo bene che si tratta di una strada non solo profondamente iniqua ma anche strategicamente fallimentare.

È iniqua, perché costituisce un arretramento inaccettabile nelle condizioni di vita e nella dignità dei lavoratori meridionali. Non può esserci una democrazia “parziale”, in cui i diritti delle persone cessano di essere tutelati una volta varcata la soglia del luogo di lavoro oppure messo piede al Sud; e se è questa la premessa del federalismo fiscale sarà bene rispedirlo al mittente. Ma è anche una strada fallimentare sul piano della politica economica, perché è ormai dimostrato che non è la compressione dei salari che può consentirci di fronteggiare la concorrenza cinese o quella indiana, oppure ridare respiro ai mercati di sbocco delle piccole imprese meridionali. Ci vuole ben altro: investimenti, infrastrutture, ricerca scientifica, politiche industriali autentiche. Tornare a discutere seriamente di lavoro, sviluppo, “questione meridionale”.

Il Mezzogiorno – come il resto del Paese – ha una sola opzione di fronte a se: scommettere e investire sul capitale umano, non mortificarlo, e imparare a competere nei settori più avanzati dell’”economia della conoscenza”, quella della produzione di beni e servizi ad alta tecnologia e ad alto tasso di sapere aggiunto.
E’ necessario un radicale cambiamento di rotta che, con la creazione di una “nuova industria” fondata sulla conoscenza, consenta una maggiore e migliore occupazione e riaffermi principi di democrazia nei luoghi di lavoro e, quindi, nella società.

Per tutte queste ragioni aderiamo alla manifestazione nazionale indetta dalla FIOM CGIL. E invitiamo tutti i meridionali a farlo.

Luigi Amodio (direttore generale Fondazione IDIS)
Stefano Balassone (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa)
Sergio Brancato (Università degli Studi di Salerno)
Guido D’Agostino (Presidente Istituto Campano per la Storia della Resistenza)
Laura Capobianco (Istituto Campano per la Storia della Resistenza)
Elena Coccia (avvocato, Esecutivo Nazionale Giuristi Democratici)
Pietro Greco (giornalista scientifico e scrittore)
Carlo Iannello (Seconda Università di Napoli)
Ugo Leone (Presidente Parco Nazionale del Vesuvio)
Luigi Mascilli Migliorini (Università di Napoli l’Orientale)
Pietro Masina (Università di Napoli l’Orientale)
Vittorio Mazzone (Presidente Centro Culturale "Insieme")
Walter Palmieri (ricercatore CNR di Napoli)
Rosario Patalano (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Raffaele Porta (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Riccardo Realfonzo (Università del Sannio)
Settimo Termini (Università degli Studi di Palermo)

Per aderire:
info@sinistrasvegliati.org
info@cirem.it

(12 ottobre 2010)



Nell'inferno di Terzigno.- di Arianna Ciccone



L'inchiesta sulle incredibili condizioni di vita accanto alla discarica riaperta da Bertolaso in Campania. Un reportage realizzato da Valigia Blu e finanziato dagli abitanti della zona. (11 ottobre 2010)


Questo reportage, realizzato dall'Associazione Cittadini Giornalisti e da Valigia Blu, è stato finanziato dai cittadini (soprattutto di Terzigno, Boscoreale, Napoli e Caserta) attraverso la piattaforma internet per il finanziamento solidale delle inchieste giornalistiche, YouCapital.


Ma è un'emergenza rifiuti o un'emergenza democratica? Me lo sono chiesto subito appena arrivata a Terzigno e alla discarica S.A.R.I riaperta due anni fa da Guido Bertolaso per risolvere l'emergenza rifiuti della Campania. Era una ex discarica, gli abitanti del vesuviano aspettavano da tempo la bonifica e si sono ritrovati senza fiatare la riapertura, con la promessa che entro un anno il volume dei conferimenti si sarebbe ridotto al minimo grazie all'entrata in funzione del termovalorizzatore di Acerra. Peccato però che questo, ad oggi, funzioni parzialmente: due linee su tre non sono attive mentre l'unica linea funzionante la settimana scorsa si è fermata per un guasto. Pare che accada spesso. Per quel sacrificio i comuni investiti dalla discarica avrebbero usufruito delle compensazioni, soldi che non sono mai arrivati.


Arriviamo alla discarica lungo un percorso fatto di autocompattatori dati alle fiamme durante una delle proteste e parcheggiati lì a colare percolato e liquidi scuri. Ai lati della strada quello che doveva essere uno dei più bei posti dell'Italia, chilometri di vigneti, frutteti, alberi di ulivo e di noccioline ricoperti totalmente di polveri, in un abbraccio violento tra bellezza e bruttezza. Come se un alito di morte avesse soffiato su tutto quel ben di Dio. L'odore è insopportabile, indecente, sconvolgente. La discarica S.A.R.I. è una zona protetta dai militari, inaccessibile, ma da un lato è possibile vedere tutto, alzandosi su alcune cancellate che fiancheggiano un maneggio, dove soprattutto i bambini vengono a cavalcare.


È enorme e fa impressione avere davanti l'immensità del Parco Nazionale del Vesuvio scavato da dentro da cave ormai inquinate come fossero tumori. Gli operai stanno lavorando e spostano i rifiuti in compagnia dei gabbiani, i veri padroni della zona. La loro presenza tra l'altro è la spia di una discarica "fatta male". Il Vesuvio è patrimonio dell'Unesco, la Commissione Petizioni del Parlamento europeo in visita ad aprile ha dato parere negativo all'apertura delle discariche.


Ma bastava la logica per arrivare alla stessa conclusione: in questo territorio aprire discariche è un vero e proprio "crimine" ambientale. E ora pensano di aprire la seconda: Cava Vitiello, che diventerebbe la discarica più grande d'Europa con una capacità di stoccaggio stimata ben oltre i 10 milioni di tonnellate. Questo significa che l'emergenza non si concluderà mai, che ci saranno altri 20 anni di sversamento. La gente è scesa in strada per dire basta. No alla Cava Vitiello, chiusura della S.A.R.I., rifiuti zero.


E rifuti zero è lo slogan dei comitati cittadini e dei collettivi, che hanno cercato di mettere in rete le proteste a livello regionale. A coordinarli un gruppo di ragazzi giovanissimi, che hanno anche organizzato incontri per informare la cittadinanza, come quello con Carla Poli del Centro di riciclo di Vedelago, Treviso, che riesce a riciclare il 99 per cento dei rifiuti. Quello che non fa e dovrebbe fare la politica lo fanno i cittadini. «Se i leghisti protestano stanno difendendo il territorio. Se protestiamo noi siamo camorristi», dice una signora che insieme alla figlia è all'appuntamento nella piazza di Boscoreale per la marcia di protesta. Il problema investe almeno 200 mila persone, in strada ce ne saranno un migliaio. «Io in quanto cittadina sono lo Stato», dice una ragazza : «Questa gente mi sta costringendo a combattere contro lo Stato, contro me stessa. Dicono che ci organizza la Camorra. Ma non è vero, la Camorra ha tutto l'interesse nelle aperture delle discariche. E non è vero che siamo violenti, non siamo di certo noi a bruciare i camion. Siamo gente perbene. Siamo schiacciati dalla camorra da un lato e dallo Stato dall'altro».


«Noi ai politici non ci crediamo più, non ci fidiamo più di nessuno, di Bertolaso, di Berlusconi, destra, sinistra. Noi siamo soli, soli contro di loro». Stiamo parlando di una discarica con fuoriuscite di biogas e percolato lasciato a cielo aperto, quando la legge prevede la raccolta e il trattamento, una discarica che nessuno può controllare, nel bel mezzo di un Parco Nazionale, in una zona vulcanica. E i cittadini non possono sapere.

Solo gli odori nauseabondi hanno fatto scattare l'allarme nei paesi vesuviani. Per legge una discarica dovrebbe stare ad almeno due, tre km da un centro abitato. Qui parliamo di poche centinaia di metri. Una puzza che ti rimane addosso, che ti entra negli occhi. Io dopo appena due ore avevo occhi, narici e gola che mi bruciavano. A Boscoreale la Sala consiliare del Comune è occupata dai collettivi che si battono da anni per i rifiuti zero. Il sindaco (Pdl) è in una tenda in piazza (per protesta contro l'apertura della seconda cava ha fatto lo sciopero della fame interrotto poi con una pizza subito dopo la rassicurazione del Presidente della Provincia).


«Berlusconi assicura che non aprirà la cava, verrà a parlare con noi, forse sabato prossimo. Noi speriamo, avevamo puntato per la nostra economia alla vicinanza con Pompei, il turismo... Ma come si fa con questa puzza che ha già fatto danni enormi? Lungo il Vesuvio la strada dei ristoranti è deserta, 700 posti di lavoro a rischio. Qui ora i tedeschi vengono sì ma per fotografare le nostre proteste e i cumuli di immondizia. Abbiamo sbagliato la prima volta quando non abbiamo protestato per l'apertura della S.A.R.I. e adesso ci vogliono venire ad aprire la Cava Vitiello. E pensare che siamo il territorio della pietra lavica. Al danno si aggiunge la beffa noi qui facciamo la raccolta differenziata fino al 55-60 per cento, poi arrivano i rifiuti indifferenziati di Napoli e ce li scaricano in testa a noi». Molti abitanti vengono in piazza a discutere con il sindaco, sono delusi, preoccupati, esasperati. «Dovremmo protestare perché non c'è lavoro per i nostri figli, protestiamo per l'aria che respiriamo». Con Alessio, Francesco e Antonio andiamo a "visitare" le discariche abusive. Dove sversa senza pietà ogni notte la camorra.


Il problema non è solo la S.A.R.I., non è la discarica di Stato. Qui la gente vive letteralmente immersa in una discarica. Cumuli di rifiuti, di lamiere di eternit, di immondizia ovunque. Degrado urbano, carcasse di cemento di edifici abusivi e sfarzosissimi alberghi-ristoranti si alternano lungo tutto il percorso. Un po' favelas e un po' Scarface. Sì, questa è emergenza democratica. «Sono anni che protestiamo, sono anni che aspettiamo che lo Stato ci liberi dall'Antistato», ci dice un poliziotto che ha chiesto di non essere schierato "contro" i suoi concittadini durante le manifestazioni, « e cosa ci siamo ritrovati? Uno Stato che ci impone di rinunciare al nostro diritto alla salute e al nostro diritto di sapere». È difficile veramente districarsi in questi luoghi, non è facile capire. Si intrecciano interessi a più livelli. È tutto così fumoso. Intuisci però che la partita è un'altra e tra politica e criminalità organizzata è tutta giocata sulla pelle di queste persone. Andiamo di nuovo a visitare la discarica S.A.R.I., ma si vede che qualcuno ha avvertito i militari e la polizia. Stiamo ben attenti a non oltrepassare le aree di divieto, i militari da dentro la discarica ci tengono sotto controllo. Sulla strada di ritorno, sospettando un posto di blocco, nascondiamo tutto e mettiamo in sicurezza video e foto. Evitiamo il primo posto di blocco, ma non riusciamo ad evitare il secondo. Un numero impressionante di carabinieri ci ferma, abbiamo le macchine identiche a quelle dei lanciatori di pietre contro le forze dell'ordine. Ma guarda un po'. Ci chiedono i documenti, non li registrano e dopo un po' ridendo ci dicono: «Ma voi non siete lanciatori di pietre vero? Avete le facce dei giornalisti».


Sulla strada di ritorno incrociamo la macchina della protezione civile che col megafono annuncia la supplica alla Madonna di Pompei per il giorno dopo. Ci fermiamo a parlare. Le ragazze ci spiegano che la supplica è per chiedere la Grazia per non far aprire la seconda discarica. Ma come voi siete la protezione civile, siete proprio voi che la volete aprire... «Noi non lavoriamo per Bertolaso», ci dicono, « noi lavoriamo per il sindaco».


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/nellinferno-di-terzigno/2136128//1


Il video è su:

http://espresso.repubblica.it/multimedia/video/26493119



lunedì 11 ottobre 2010

"Dalla parte del conflitto, senza interessi". Domani tutti a Palazzo Grazioli


di
Stefano Corradino

"Dalla parte del conflitto, senza interessi". Domani tutti a Palazzo Grazioli

L'articolo di Alexander Stille pubblicato ieri suRepubblica fornisce una motivazione ulteriore per condurre una battaglia senza sconti sul tema del conflitto di interessi. Analizzando la diffusione di internet nei paesi avanzati Stille rivela come il nostro Paese sia, anche su questo terreno, fanalino di coda dietro paesi come la Lettonia, la Repubblica Ceca e la Slovenia. E ci ricorda che, in nome della (presunta) austerità il governo ha tolto 900 milioni di fondi per la banda larga stanziati a suo tempo dal governo Prodi peraltro irriso dal centrodestra perché "troppo pochi" (occorrono almeno 3 miliardi). Stille commenta giustamente questa scelta con la paura del premier che la rete, e la possibilità di scaricare film possano sottrarre ascolti all'impero mediatico (e cinematografico) di Silvio Berlusconi.
Le preoccupazioni del premier sullo sviluppo della rete sono "politiche" oltre che economiche allorchè, all'indomani delle reazioni all'aggressione di Milano e del primo
"No B Day" cresciuto grazie al tam tam sulla rete furono chieste forme di regolamentazione della rete (per non chiamarla censura). "Internet - scriveva Stefano Rodotà su Repubblica nel dicembre 2009 - diventa il luogo che genera odio, secerne umori perversi. E questa sua nuova interpretazione travolge quella precedente: il "No B Day" è presentato come un momento d'incubazione dei virus che avrebbero reso possibile l'aggressione a Berlusconi, Internet come lo strumento in mano a chi incita alla violenza..." Da lì i vari tentativi di imbavagliare la rete ultimo dei quali quello relativo al ddl sulle intercettazioni con la minaccia, attraverso l'equiparazione dei giornali on line dei blog alle testate tradizionali, di multare siti e provider costringendoli alla chiusura.

L'articolo di Stille ci fornisce pertanto l'ennesima sacrosanta motivazione per promuovere una mobilitazione comune e senza steccati ideologichi contro i conflitti di interesse e per impedire che le posizioni politiche ed imprenditoriali dominanti e gli interessi personali possano nuocere alla libertà di espressione e alla libera concorrenza.

Anche per questa ragione abbiamo deciso di accogliere l'invito del magazine "
Caffeina" e di "Current tv" per partecipare martedì 12 ottobre alle ore 17 ad una tavola rotonda sulla terrazza di Palazzo Grazioli dal titolo “Dalla parte del conflitto, senza interessi”. "Sarei davvero contento - ci ha scritto Filippo Rossi - se il nostro appuntamento potesse contare sulla partecipazione e sul contributo ideale di Articolo 21, da sempre in prima linea su questi temi. Temi che ci riguardano tutti e che dobbiamo affrontare senza barricate né paraocchi, senza etichette né pregiudizi. Perché il futuro del nostro paese passa anche (o forse soprattutto) da qui. Dal coraggio di ripensare le cose dette e pensate, dalla forza d'immaginare l'Italia di domani finalmente libera da troppi conflitti d'interessi".

Qualche settimana abbiamo lanciato sul sito un appello per una legge sul conflitto di interessi (firmato da migliaia di cittadini) perchè la riteniamo una priorità non più rinviabile e condizione sine qua non per tornare ad essere un Paese normale. Il problema, o per meglio dire la metastasi, oggi si chiama Berlusconi. Ma domani potrebbe avere lo stesso nome o un altro e rappresentare gli stessi o altri interessi in palese conflitto.

corradino@articolo21.info

FIRMA L'APPELLO: "Subito una legge sul conflitto di interessi. Ora o mai più"

http://www.articolo21.org/1895/notizia/dalla-parte-del-conflitto-senza.html


Falò di tessere elettorali contro la discarica


Napoli, notte di falò e di blocchi stradali a Terzigno, dove prosegue la protesta degli abitanti contro la realizzazione di una seconda discarica nel parco nazionale del Vesuvio

domenica 10 ottobre 2010

Tecniche di manipolazione dell'informazione



di Salvo Vitale

Giornalmente se ne studiano nuove, ma i principi di fondo sono quelli di sempre:
-L’importante non è “fare”, ma “far credere di fare”;

-Una notizia non è tale, un avvenimento non esiste, se non viene comunicato.

-La comunicazione è in grado di creare colpevoli e innocenti, buoni e cattivi, eroi e vigliacchi, grandi uomini e piccoli vermi, di trasformare cattivi politici in abili statisti e abili statisti in cattivi politici, secondo l’orientamento predeterminato del giudizio da comunicare e secondo lo spazio dato alla notizia.

E andiamo a casa nostra: è accertato da “Reporter sans frontière” che l’Italia occupa il cinquantaduesimo posto,( credo che quest’anno siamo scesi giù di altri quattro posti), tra i paesi semiliberi, per quel che riguarda la libertà di stampa e d’informazione. Peggio delle peggiori dittature africane o arabe. Attraverso il meccanismo della distribuzione pubblicitaria, quasi interamente dirottata su Mediaset e grazie ai finanziamenti statali, i giornali, soprattutto quelli di partito, hanno creato una rete di “giornalisti dipendenti”, proni alle direttive dei partiti che li pagano o dei padroni di testate che fanno riferimento a questi partiti o ricevono da essi commesse pubblicitarie. Giornalmente, una equipe di cervelli decide quali devono essere le notizie da prima pagina, quale la notizia d’apertura, quali sono i termini da usare per rendere il fatto appetibile o poco credibile, importante o irrilevante. Sulla base della linea giornaliera, per lo più indicata dai giornali al soldo del governo, gli altri si allineano riproducendone l’impostazione, con lievi differenze. E’ ormai passata come cosa abituale la foto giornaliera del premier, a dimensioni diverse, a colori o in bianconero, in abito blu su uno sfondo bianco o azzurro, in primo piano o in compagnia, col sorriso o con lo sguardo truce, a seconda degli eventi del giorno. Tutti i giornali, di maggioranza, di opposizione o quelli che si professano equidistanti, sono schiavi di questo ritratto, reso obbligatorio dal principio semplicissimo che il personaggio è ormai penetrato in ogni angolo e diventato indispensabile nell’immaginario collettivo: pertanto parlarne o diffonderne l’immagine aiuta a vendere.. In tal senso uno dei giornali più recidivi, è Repubblica, (e il suo partner settimanale, “L’Espresso”), la quale spesso pubblica, sul quotidiano o sul magazine tre o quattro foto del premier, cui si associano altrettante foto dei suoi lacchè, chiamali ministri o leccaculo di vario genere. Anche “Il Fatto quotidiano” di Travaglio cade spesso in questa trappola. In televisione, secondo una mia recente ricerca, il 28% dei telegiornali inizia con la parola “Berlusconi”, o, in ogni caso lo cita in secoda o terza notizia: segue una sorta di rassegna degli “uomini di regime” che ricorda, per molti aspetti il Politbureau e i sistemi di comunicazione sovietici. Non c’è proporzione con le immagini dell’opposizione, spesso inesistenti o irrilevanti. Una volta stabilita l’impostazione del notiziario del giorno, lanciato in prima stesura da Canale 5 e dal Giornale, questo viene passato, per lo più attraverso l’Ansa, a tutti i telegiornali, da Sky alla Rai, alla 7, che si allineano pedissequamente alla direttiva di regime. Pertanto il tutto è omogeneizzato in una dimensione monocromatica: stesse notizie, stesse parole, stessi giudizi, spesso nello stesso momento. Ci sono poi tecniche più raffinate, sino a rasentare il ridicolo, che caratterizzano i giornali interamente schiavizzati dai soldi del premier, ma non solo quelli:

1) Lanciare la notizia, possibilmente gossip, come un’esca all’amo. Aspettare che il giornalista, di opinione possibilmente opposta, abbocchi e poi stroncarlo come uno che invece di fare giornalismo serio cerca calunnie per infangare il nemico politico. La vicenda di Noemi, tirata fuori per prima dai giornali del Berlusca, o quella delle orge di Villa Certosa, disegna chiaramente questa strategia del boomerang che non torna ai furbi che lanciano lo strumento, ma a coloro che lo raccolgono per rilanciarlo, convinti di fare lo scoop.

2) Ribaltare la notizia, rivoltarla nel suo opposto, specie se essa è scarsamente credibile. “Libero” del 16-6 ce ne da un esempio: Berlusconi va alla corte di Obama, dopo avere ricevuto alla propria corte, con incredibili buffonate, Gheddafi. Obama non lo caca se non per quel che si può fare con un alleato ininfluente e da sempre asservito alle direttive americane. Il giornale del “duce”, Libero, spara un titolone in prima pagina: “Obama a Silvio: Aiutami”. Grandi risate: il capo della nazione più grande e più ricca del mondo chiede aiuto al guitto di una nazione che ha il debito pubblico più alto del mondo!!!! Eppure, chi ha studiato questo titolo ha cercato di trasmettere l’immagine del ragazzino Obama davanti allo scafato e saggio Berlusconi che dispensa consigli, gli fa il piacere (vedi che sforzo!!!) di mettere in prigione in Italia tre criminali del campo di concentramento americano di Guantanamo e gli mette a disposizione, come già deciso mesi fa, altri ottocento baldi soldati per rialzare le sorti languenti della guerra americana contro i talebani dell’ Afghanistan. “Silvio, Aiutami”. Figurarsi!!! Si può arrivare a questo grado di cialtroneria? Sì, e si può andare ancora oltre: si noti: per gli americani, dire, quando si incontra una qualsiasi persona conoscente la frase “Nice to see you, my friend” è un’abituale frase di saluto: i giornali schiavi hanno voluto far credere che Obama avesse detto a Berlusconi “E’ bello vederti amico mio”, come se fosse una spontanea dichiarazione d’amicizia, una sorta di “M’illumino d’immenso” davanti alla faccia splendente del Silvio internazionale. A proposito, anche quella di usare il nome, anziché il cognome o il titolo, è una tecnica per rendere più vicino il soggetto, per farlo sentire di casa: anche Repubblica, a “Silvio” dedica spesso esortazioni e comprensioni per le sue gaffe o per i commenti dei suoi cortigiani.

3) Tecnica del panino: inventata dal fedelissimo berlusconiano Mimun, ripristinata dal fedelissimo Minzolin, consiste nel dire l’opinione del governo, nel far seguire una critica, spesso “potata” e inconsistente dell’opposizione, e nel far seguire ancora la controreplica dei portavoce governativi: in tal senso i più gettonati e i peggiori sono nell’ordine Gasparri, Cicchitto , Bonaiuti e Capezzone; seguono, a distanza, Tremonti, La Russa, Maroni, Bossi, Calderoli, Bricolo e Quagliarella. Molto spesso i devotissimi della RAI, dopo una dichiarazione di qualche politico d’opposizione, si premurano di avvisare gli interessati della maggioranza per avere la controreplica e annullare subito il senso di qualche intervento timidamente polemico.

4) Tecnica della mistificazione: basta accompagnare l’informazione taroccata con espressioni o finte cifre per renderla più credibile: per esempio “Ci siamo adeguati alla normativa europea…”, che non esiste, ma non importa, basta inventarsela; oppure “Secondo un sondaggio diffuso da….(segue il nome della società cui è stato commissionato sia il sondaggio, sia il risultato da esibire) ; oppure “secondo voci di corridoio…” “pare che….” : una volta trasmesso l’input, ritirare la mano non è più possibile: il lancio della notizia falsa ottiene sempre risultati maggiori di quanto non ne ottenga una successiva smentita o rettifica. In pratica il pubblicitario “tipico dei finlandesi…” per dire che i finlandesi hanno tutti denti perfetti, non è stato confermato da alcuna seria ricerca, ma è dato come un’affermazione acquisita universalmente.

5) Tecnica del complotto: D’Alema, che ha parlato di un indebolimento dell’immagine del premier dopo le europee, Napolitano, presidente comunista, Bersani che ogni tanto si concede qualche blanda critica, si sono visti accusare di un complotto ordito, nientemeno che per destabilizzare il governo e sostituire il suo capo, che invece resta impavido in sella “tetragono ai cimenti e al fato avverso”. Artefici del complotto diventano, a turno, i giornalisti, i magistrati, i partiti d’opposizione, i mafiosi, gli industriali o non meglio identificati “poteri forti” che vogliono sbarazzarsi con l’inganno di chi invece merita solo rispetto e devozione ed è stato eletto dal popolo che lo ama. Appartiene anche a questa categoria la “tecnica del mandante occulto”, che non esiste, ma cui si da esistenza nell’immaginario collettivo, in modo da potere individuare in un referente misterioso il colpevole. Persone dignitose, come Scalfari, De Benedetti, Draghi, si sono a turno viste associare a questo ruolo. Che il complotto per liquidare la democrazia sia da tempo in atto è vero, ma a farlo non è D’Alema, il quale, tuttalpiù o è complice o non si è ancora reso conto che l’acquiescenza porta ogni giorno alla perdita di un pezzo di libertà. A farlo è proprio la cricca che gironzola attorno al neoduce, dalla mafia, alla P2, ai cosiddetti “padroni del vapore”, che, nonostante la crisi, non vogliono perdere nessuno dei privilegi goduti.

6) L’aggressione dell’avversario con il ribaltamento, su di lui dell’eventuale accusa infamante: il povero Di Pietro è stato, sin dai tempi di Tangentopoli, vittima di campagne di campagne di diffamazione studiate a tavolino, di false immagini che lo hanno presentato come pervertito, ladro, corrotto, arricchitosi indebitamente con i soldi del partito. Idem dicasi della Veronica, che dopo il suo atto di coraggio e la sua denuncia si è vista aggredire da infami calunnie, accreditare pretesi amanti ed è stata sbattuta, sempre sui giornali del padrone, con le tette al vento. Per non parlare della povera D’Addario, che, da puttana alla corte del gran Sultano è stata trasformata in invidiosa bugiarda prezzolata. O del povero Boffo, costretto alle dimissioni dall’Avvenire per una nota informativa successivamente dichiarata falsa dallo stesso killer Feltri che l’aveva tirata fuori. In pratica quello che tu dici a me lo rigetto su di te: vince chi ha più strumenti e giornali per far passare la propria posizione.

7) E’ il principio di Goebbels: “Una bugia detta mille volte diventa una verità”. Così sin dai tempi di Nerone, che incolpò i cristiani dell’incendio di Roma, per arrivare al caso di Telecom Serbia, il piano studiato a tavolino, con un falso testimone che avrebbe dovuto testimoniare che Prodi era un corrotto anche lui: addirittura sul caso Mitriomtikin si fece anche una commissione parlamentare che, grazie all’onesta di alcuni suoi componenti, non accertò nulla. Ma si pensi anche ai complotti dei magistrati “comunisti” che volevano e vogliono, a comando e a qualsiasi costo criminalizzare il premier verginello e innocente. Da Telecinco a Mills. Oppure ai giudici carogna di Mani Pulite che hanno causato il suicidio di tanti poveri innocenti, o l’esilio del nobile socialista Craxi. In altri termini il revisionismo storico si lega al principio della storia è scritta dai vincitori.

8) Tecnica dell’antipolitica: Berlusconi è uno cui si può perdonare tutto, perché non è un politico di professione, ma un imprenditore prestato alla politica. Grasse e grosse risate ci siamo fatti quando Obama è stato eletto presidente: Silvio, secondo il solito “Libero”, è l’ Obama italiano, , l’uomo nuovo che sa conquistare la gente. Non conosce il linguaggio e i trucchi della politica e perciò spesso si lascia andare a gaffe e a minchiate che, a seconda delle reazioni, vengono smentite subito dopo. Ma anche questa è una tecnica: lanciare la pietra e ritirare la mano.Per questo bisogna avere comprensione nei suoi riguardi: Tutta la fila dei suoi devotissimi, pronti sempre a dire “Il capo ha sempre ragione” si è astenuta dal fare commenti quando il padrone, in un raro accesso di sincerità ha sussurrato: “Certe volte quello che faccio mi fa schifo”. In questo caso “il capo è sincero”.

9) Tecnica del vittimismo: Si comincia sin dal primo giorno dell’elezione: “E adesso lasciamolo lavorare”. L’opposizione viene vista come un fastidioso disturbo che ostacola le giuste manovre del premier. Addirittura può diventare “eversiva” se si permette di dire che è ora di cambiare uomini e politica. Invece il Silvio passa per uno nei cui confronti si ordiscono complotti, si fabbricano false prove, si truccano i risultati elettorali, si inventano episodi inesistenti, insomma gli si appioppa tutto il male del mondo, mentre lui meriterebbe di essere santificato. Le veline al Parlamento europeo? Niente vero. I voli di stato carichi di puttanelle? Ma quando mai!!! Noemi che passa tre giorni nella sua villa? Calunnie. Veronica che si decide finalmente a chiedere il divorzio? E’ una poveraccia imbeccata dall’opposizione, ma la pagherà. Le orde dei comunisti si mobilitano in ogni parte della nazione per diffondere il male e l’odio, ma per fortuna c’è il partito dell’amore che trionfa.

10) Tecnica dell’apoteosi: Quella della santificazione è una strategia conforme a quelle che usavano e usano i regimi totalitari: il premier visto come colui che non dorme, ma riposa, con la finestra illuminata di notte, che sfibra le sue stanche ossa per servire il paese, che sa quando intervenire, che risolve con la bacchetta magica i problemi della monnezza napoletana o quelli del post-terremoto abruzzese, che siede tra i grandi accreditando l’immagine di statista di levatura mondiale, quando tutti invece ridono di lui. E giù oscene canzoni, dichiarazioni al limite dell’esaltazione religiosa, il tutto con contorno di pubblicazioni con foto truccate, al cui centro c’è sempre lui, il divino, l’ineffabile, il prescelto dal signore, con la storia commovente di chi si è fatto da sé.

11) Tecnica dell’oscuramento: un personaggio esiste finchè esiste in televisione: oscurarne l’immagine è come cancellarlo dal novero delle persone “esistenti”: esempi come quelli di Prodi, Veltroni, Bertinotti, Previti, Luttazzi, Guzzanti, scomparsi o eliminati dai teleschermi, ci danno l’idea di quanto la visibilità d’un personaggio ne confermi l’esistenza e la notorietà. Il suo contrario è dato dalla tecnica della sovraesposizione, in cui quotidianamente bisogna parlare del personaggio, qualsiasi cosa esso combini, sia quella di avere il torcicollo o di acchiappare a volo una mosca.

12) Tecnica del particolare come elemento per confermare la tesi di partenza: si tratta di inserire, in un contesto di dati citati a dimostrazione di un assunto, un particolare, spesso casuale, altre volte presunto, per dare un colore più forte alla dimostrazione: se Fini ha ammesso di avere fumato uno spinello, Fini diventa un individuo “sospetto” e non moralmente integro; se tra le persone che organizzano feste di vip c’è implicato un amico di un trafficante di cocaina, la cocaina diventa un elemento da associare all’insieme, anche se non giudiziariamente provato: esiste una verità giudiziaria, spesso calpestata, e una verità di fatto, maturata nell’opinione pubblica attraverso la gestione dei mass media, che finisce col prevalere sull’altra.

13) Tecnica del “pompaggio”: si individua tavolino la notizia, per lo più di cronaca, che si vuole gonfiare e verso la quale far convogliare l’attenzione della gente: in genere si tratta di situazioni che coinvolgono gli affetti familiari, come nel caso di Cogne, o dei fratellini Pappalardo, oppure piccole orge tra amici di una tranquilla provincia, come nel caso di Meredith, oppure mostri e serial killers pronti a colpire nell’ombra. Non è il pubblico a mostrare le sue “morbose” curiosità verso un fatto, ma il giornalista che, “pompando” quel fatto lo fa diventare oggetto d’interesse. Spesso tutto ciò serve a distrarre da problemi più gravi dai quali si vuole distogliere l’attenzione. Più sottile e perverso è il rapporto di cronaca con gli stranieri o gli extra-comunitari: se qualcuno di essi è coinvolto in un delitto, se ne trae occasione per montare una campagna di stampa sulla sicurezza e sulla necessità di chiudere le frontiere. Se si tratta di italiani, la cosa finisce col rientrare nella “normalità” della cronaca. Il pompaggio riguarda infiniti altri argomenti, come ad esempio la guerra di cifre dei partecipanti alle manifestazioni, tra quelle della questura e quelle denunciate dagli organizzatori.

Esistono naturalmente altre sottili strategie, con l’uso sapiente delle quali si può fare giornalmente campagna elettorale e procacciare consensi in modo spregiudicato. Gli americani ne hanno studiato tante, ma almeno, tra di essi esistono persone e testate giornalistiche in grado di ritagliarsi una certa indipendenza e di denunciare e mettere in crisi gli intoccabili, a cominciare dal presidente. In Italia questo è ormai un principio irrimediabilmente perduto. Il dilagante “neofascismo morbido” si intrufola negli spazi della democrazia per eroderli giornalmente, lasciando credere che tutto è interno al contesto delle regole democratiche.

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/31009/78/