venerdì 17 giugno 2011

‘Ndrangheta, quattro anni di carcere all’ex consigliere regionale Pdl Zappalà. - di Lucio Musolino


Il politico viene condannato per corruzione elettorale aggravata dalle modalità mafiose. Durante la campagna per le regionali in Calabria del 2010 incontra il boss Giuseppe Pelle. Dure condanne anche per alcuni appartenenti di spicco dei clan Pelle e Ficarra.


Il consigliere regionale Santi Zappalà (Pdl)

Quattro anni di carcere. Tanto l’ex consigliere regionale del Pdl Santi Zappalà dovrà scontare per il gup Daniela Oliva di Reggio Calabria che, ieri pomeriggio, ha emesso la sentenza di primo grado del processo “Reale”. Gli è costato carol’incontro a casa del boss della ‘ndrangheta Giuseppe Pelle durante la campagna elettorale per le regionali del 2010. Condannato, dunque, per corruzione elettorale aggravata dalle
modalità mafiose. Il giudice per le udienzepreliminari ha accolto in pieno la richiesta del pubblico ministero Giovanni Musarò, infliggendo complessivamente circa 200 anni di reclusione agli imputati che hanno scelto il rito abbreviato.

L’abitazione del mammasantissima di San Luca era diventata un luogo di pellegrinaggio per i candidati a Palazzo Campanella. Quarto degli eletti nella lista del Pdl con 11052 voti, Zappalà non si è tirato indietro davanti a una tappa obbligata per chi vuole rastrellare voti negli ambienti mafiosi. Una sorta di santuario dove chiedere consensi in cambio di appalti.

Ambienti dai quali, come ha affermato nel corso di un’intercettazione telefonica lo stesso Giuseppe Pelle, potrebbero essere eletti ben sei consiglieri regionali. Un partito della ‘ndrangheta seduto allo stesso tavolo della politica e delle istituzioni. Nel corso delle indagini, i carabinieri del Ros aveva filmato Zappalà mentre, a bordo della sua Alfa 159, arrivava a Bovalino intercettando anche le conversazioni con il boss il quale ha garantito il suo appoggio e quello della potente famiglia mafiosa dei Pelle.

“Da parte nostra, dottore, ci sarà il massimo impegno” è la frase che il figlio del patriarca ‘Ntoni Gambazza ha riferito a Zappalà che conferma la tendenza di come, oggi, siano i politici a rivolgersi ai mafiosi e non viceversa. Un impegno non disinteressato certo. Se Zappalà chiede i voti, la cosca pretende una contropartita. Un “do ut des” insomma che, oltre all’odore delle schede elettorali, aveva il sapore degli appalti.

Ed è un imprenditore, Giuseppe Antonio Mesiani, presente all’incontro tra il mafioso e il politico, a spiegare le condizioni del “patto elettorale”: “Quando sposo una causa e quindi io e gli amici miei diamo il massimo, nello stesso tempo noi desidereremmo avere quell’attenzione per come poi ce la accattiviamo, per simpatia ma per amicizia prima di tutto”.

Chiaro, gentile ma, allo stesso tempo, fermo e consapevole di fornire a Zappalà l’unica condizione possibile per usufruire dei voti dei “santolucoti”: la ‘ndrangheta garantisce l’elezione, il politico gli appalti alle ditte di riferimento della cosca. Non si scappa. L’ex sindaco di Bagnara Santi Zappalà, però, non era il solo ad aspirare al pacchetto di voti di Peppe Pelle. Con lui, a dicembre, sono stati arrestati, altri candidati (di centrodestra e di centrosinistra) al consiglio regionale della Calabria che si erano recati durante la campagna elettorale a casa del boss.

Zappalà era stato arrestato inizialmente con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Il primo reato, però, è caduto davanti al Tribunale della Libertà che, pur lasciando in carcere il consigliere regionale, aveva ridimensionato l’impianto accusatorio nei suoi confronti. Impianto accusatorio che rimane, tuttavia, grave e che oggi ha portato alla condanna a 4 anni di carcere per Santi Zappalà e di tutti gli altri candidati coinvolti nell’inchiesta.

Mafiosi e politici alla sbarra. Ritornando alla sentenza, infatti, il gup ha condannato anche il boss Giuseppe Pelle (20 anni di reclusione), Rocco Morabito (20), Giovanni Ficara (18), Costantino Carmelo Billari (8), Domenico Pelle (12), Sebastiano Pelle (10), Giuseppe Antonio Mesiani (8 anni e 8 mesi), Antonio Pelle cl.87 (10 anni e 8 mesi), Mario Versaci (8), Pietro Antonio Nucera (8), Filippo Iaria (8), Antonio Pelle cl.86 (4), Sebastiano Carbone (4), Giuseppe Frantone (4), Giorgio Macrì (6), Francesco Iaria (2 anni e 8 mesi), Liliana Aiello (2 anni e 2 mesi).

L’inchiesta “Reale” è molto più vasta di quella che, ieri, è arrivata a sentenza. Non solo politica. Alcuni filoni dell’indagine portano alla talpa Giovanni Zumbo che, informava, i boss Giovanni Ficara e Giuseppe Pelle sull’operazione “Crimine” e “Infinito” e sulle altre attività investigative dei carabinieri sulle rispettive famiglie mafiose. Un commercialista, coinvolto in un giro di servizi segreti e ‘ndrangheta, sulla cui figura ancora aleggiano tante, troppe ombre.

Uno squarcio anche sull’Università di Reggio Calabria dove il figlio del boss Pelle era in grado di sostenere un numero elevato di esami in pochi mesi, per poi scrivere le lettere dal carcere con errori grammaticali che lasciano pensare ai compiti di uno scolaro delle elementari.




Pena di morte digitale.

I critici non hanno dubbi. La bozza della delibera (la 668/2010) dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) è una mina da disinnescare al più presto, perché mette a repentaglio la sopravvivenza di migliaia di siti.
«È la più forte minaccia alla libertà di espressione in Rete che sia mai stata fatta in Italia», sostiene Fulvio Sarzana, avvocato e curatore del Libro bianco su diritti d'autore e diritti fondamentali nella Rete internet. Per Sarzana, infatti, la bozza della delibera potrebbe «decretare la pena di morte digitale di centinaia di migliaia di siti».
TESTO DEFINITIVO ENTRO FINE MESE.La versione provvisoria del regolamento è stata rilasciata a dicembre 2010, e al momento non vi sono indicazioni ufficiali sull'approvazione di un testo definitivo. Ma secondo le fonti diLettera43.it, è lecito ipotizzare la presentazione del progetto compiuto entro fine giugno.
Un rapido passaggio in consiglio di amministrazione Agcom, la pubblicazione entro 60 giorni in Gazzetta ufficiale e il testo sarà in vigore. «Cioè verso Ferragosto», ironizza Marco Scialdone, uno degli avvocati che ha proposto l'appello all'Authority «affinché effettui una moratoria sulla nuova regolamentazione sul diritto d'autore», come recita il testo consultabile su Sitononraggiungibile.e-policy.it.

La procedura della rimozione dei contenuti.

Il nome del sito non è stato scelto a caso. Perché i siti potrebbero essere resi non raggiungibili tramite un sistema di cancellazione e inibizione degli indirizzi anche solo «sospettati», accusano i detrattori, di violare il diritto d'autore. Una procedura che, in gergo, si chiama notice and take down.
Secondo la delibera Agcom, se il titolare dei diritti di un contenuto audiovisivo dovesse riscontrare una violazione di copyright su un qualunque sito (senza distinzione tra portali, banche dati, siti privati, blog, a scopo di lucro o meno) può chiederne la rimozione al gestore. Che, «se la richiesta apparisse fondata», avrebbe 48 ore di tempo dalla ricezione per adempiere.
CINQUE GIORNI PER IL CONTRADDITTORIO. Se ciò non dovesse avvenire, il richiedente potrebbe, secondo la delibera ancora in bozza, rivolgersi all'Authority che «effettuerebbe una breve verifica in contraddittorio con le parti da concludere entro cinque giorni», comunicandone l'avvio al gestore del sito o del servizio di hosting. E in caso di esito negativo, l'Agcom potrebbe disporre la rimozione dei contenuti.
Per i siti esteri, «in casi estremi e previo contraddittorio», è prevista «l’inibizione del nome del sito web», prosegue l'allegato B della delibera, «ovvero dell’indirizzo Ip, analogamente a quanto già avviene per i casi di offerta, attraverso la rete telematica, di giochi, lotterie, scommesse o concorsi in assenza di autorizzazione, o ancora per i casi di pedopornografia».

«Ma la competenza è dell'autorità giudiziaria»

Tutto chiaro? Niente affatto. I critici, infatti ritengono che l'Authority rischi di finire travolta dalle segnalazioni. La richiesta di moratoria promossa da Adiconsum, Agorà digitale, Altroconsumo, Assonet-Confesercenti, Assoprovider-Confcommercio e dallo studio legale Sarzana, è poi chiara su un'altra criticità: «L'intera procedura» si svolge «senza alcuna forma di consultazione o interazione con l'Autorità giudiziaria».
UNA DELIBERA ANTICOSTITUZIONALE. Violando così, attacca Sarzana, «i principi costituzionali di riparto dei poteri, perché l'Agcom interverrebbe in un settore riservato da un lato al parlamento», cioè introducendo «nuove forme di repressione delle violazioni del diritto d'autore», e dall'altro «all'ambito giudiziario».
Solo a quest'ultimo, argomenta l'avvocato, e non all'Authority, spetta decidere come un soggetto possa essere chiamato a rispondere di violazioni del copyright. Per questo i detrattori della delibera affermano che sia sufficiente il «sospetto» di una violazione: «Perché non si capisce chi giudica», afferma Scialdone, «e se il giudizio sia sommario e quantitativo oppure sia necessario che un determinato sito sia integralmente in violazione del diritto d'autore».
DAL DIRITTO D'AUTORE ALLA CENSURA. Incostituzionale, dunque, e tanto più grave quanto si ricorda, come fa Scialdone, che «l'Agcom è una autorità nominata dal parlamento, ed è dunque espressione di una autorità politica». Insomma, l'impressione è che il diritto d'autore «sia usato come grimaldello», dice Sarzana, per censurare contenuti scomodi.
Del resto, che si tratti di una vicenda eminentemente politica si deduce dal fatto che il suo originario relatore, il consigliere Nicola D'Angelo, è stato rimosso dal ruolo per aver manifestato delle perplessità. E sostituito da Sebastiano Sortino, ex presidente della Federazione italiana editori giornali (Fieg). Senza contare che la delibera è di fatto una costola del criticatissimo decreto Romani, che reca la firma dell'attuale ministro dello Sviluppo economico.
È forte, dunque, la sensazione che il provvedimento abbia un preciso mandante politico: il governo in carica. E che quest'ultimo, a sua volta, sia stato fortemente influenzato dalle richieste dell'industria dell'intrattenimento.

«Meno accesso per i cittadini a risorse estere»

Ma le critiche si concentrano sulle conseguenze di una simile normativa per i cittadini. «A parte l'equiparazione, molto sciocca, tra diritto d'autore e pedofilia», attacca Sarzana, «l'effetto è impedire ai cittadini italiani di avere accesso a determinate risorse estere». E «senza che lo sappiano», aggiunge.
L'avvocato ricorre a una metafora: «È come se entrassero in una biblioteca e scoprissero che mancano alcuni libri. Al loro posto, un cartello con scritto: 'Qualcuno si è lamentato che questo libro violava i diritti d'autore e non c'è più'».
OBIETTIVO: ARGINARE I DOWNLOAD.La conseguenza è chiara: «Si sta isolando il nostro Paese, e tutto questo per chiudere quattro o cinque siti». Le associazioni annunciano ricorso al Tar non appena il testo definitivo della delibera sarà approvato.
Su Avaaz.org le firme raccolte per chiedere all'Agcom di «rimettere la questione al parlamento, come prevede la nostra Costituzione», sono 64.500. Eppure la mobilitazione in Rete e da parte delle opposizioni è stata sommessa rispetto alle levate di scudi contro il comma «ammazza-blog» del disegno di legge Alfano, il decreto Pisanu (che limitava la diffusione del Wi-fi libero) e lo stesso decreto Romani.
Come mai? «L'obiettivo è evitare che la gente scarichi musica e film da Internet», risponde Sarzana, «e chi vuole raggiungerlo è molto forte. In termini di potere e di voti di determinate categorie, interessa non solo a chi è al governo».
IL PLACET DI FIMI. Intanto il cammino della delibera prosegue indisturbato, con il placet di Fimi, Confindustria cultura e del presidente Agcom, Corrado Calabrò. E perfino del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Che, dopo aver definito internet «strumento di democrazia» e difeso la libertà di espressione sul web, introducendo la relazione dell'Authority alla Camera, si è limitato ad affermare che la riforma complessiva del diritto d'autore spetta al parlamento, anche se per il momento l'Agcom è autorizzata a proseguire il lavoro.

La replica: «Propaganda e disinformazione»

I commissari Agcom Stefano Martusciello e Stefano Mannoni, in un intervento su Milano Finanza, hanno replicato definendo i critici delle delibera degli «arruffapopolo che indulgono in tirate di propaganda e disinformazione» che hanno prodotto «una sbornia di demagogia e di pressappochismo». Aggiugendo, inoltre, di essere al contrario al lavoro per «impedire» che il web diventi un «laboratorio» per la censura.
PER I COMMISSARI AGCOM, ARGOMENTAZIONI DEBOLI. «Sarebbe davvero curioso», hanno proseguito, «che una conquista della modernità giuridica, alla base della fortuna e dell'economia e dell'inventiva europea fosse ipotecata a cuor leggero in nome di una chiamata alle armi dei moderni pirati dei Caraibi». E le critiche? «Gli argomenti farebbero arrossire uno studente al secondo anno di Giurisprudenza».
Quanto al merito delle critiche, Martusciello e Mannoni credono che «la riserva di legge sia pienamente rispettata da un quadro di fonti che conferisce all'autorità amministrativa ampio titolo per adottare provvedimenti inibitori efficace». Inoltre, secondo i commissari «la riserva di giurisdizione è rispettata dalla possibilità di chiunque di impugnare i provvedimenti davanti al giudice amministrativo».

http://www.lettera43.it/tecnologia/web/18830/pena-di-morte-digitale.htm



E’ imputato? Eleggiamolo. - di LIana Milella


Contraddizione? No, è solo il solito scandalo. Nel giorno in cui l’ennesimo parlamentare del Pdl, Alfonso Papa, diventa co-protagonista di un’inchiesta giudiziaria, al Senato la maggioranza vota un ddl anti-corruzione che è acqua fresca. Nel quale spunta, per via di un emendamento proposto dal pidiellino Malan, anche un nuovo e delicatissimo potere attribuito sempre a palazzo Chigi. Saranno loro ad avere la delega per scrivere le norme sulla non candidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per chi ha sulle spalle sentenze di condanna definitiva. Già questa sarebbe di per sé una forte limitazione perchè resterebbero candidabili tutti gli imputati anche per reati gravi.

Una regola assurda quella di palazzo Chigi autore della nuova norma. Perché toccherebbe a Berlusconi medesimo, anche nella sua qualità di imputato, decidere il codice di comportamnento per chi si troverà sotto processo. Niente male. Un nuovo conflitto nel conflitto.

http://milella.blogautore.repubblica.it/2011/06/15/e-imputato-eleggiamolo/



Fonti riservate, ville di lusso e Rolex così si muoveva la "talpa" di Bisignani.

Fonti riservate, ville di lusso e Rolex così si muoveva la "talpa" di Bisignani


Raccomandazioni, regali costosi e soffiate: dalle carte dell'inchiesta napoletana emerge in maniera sempre più inquietante il ruolo di Alfonso Papa, il deputato Pdl che i pm chiedono di poter arrestare


ROMA - E' stato magistrato alla procura di Napoli, ma a un certo punto della sua carriera all'attività investigativa Alfonso Papa ha preferito anteporre quella sindacale e politica. Dopo essere stato eletto nella giunta dell'Associazione nazionale magistrati, l'attuale deputato del Pdl al centro dell'inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari il faccendiere Luigi Bisignani, con l'arrivo a via Arenula nel 2001 del leghista Roberto Castelli è stato nominato vicecapo di gabinetto del Guardasigilli. Venne sfiorato da un'inchiesta su alcune consulenze che coinvolse lo stesso ministro: ma Papa con il cambio di governo e l'arrivo di Clemente Mastella anziché essere sostituito in nome dello spoil system fu nominato alla direzione generale degli Affari civili.

Ed è proprio questa lunga frequentazione e confidenza con i magistrati di mezza Italia - ma soprattutto con quelli della procura di Napoli - acquisita attraverso l'esperienza associativa prima e quella politica poi (è stato anche membro della Commissione Antimafia) ad averlo trasformato in un protagonista dell'inchiesta che sta facendo tremare il governo. Il suo ruolo, secondo quanto ha riferito Bisignani ai pm napoletani, era quello di "talpa". Spiega il manager durante un interrogatorio: "Mi chiedete se io informassi Letta delle notizie e delle informazioni riservate di matrice giudiziaria comunicatemi da Papa. A tal riguardo vi dico - dichiara Bisignani - che sicuramente parlavo e informavo il dottor Letta delle informazioni comunicatemi e partecipatemi dal Papa e in particolare di tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente, come la vicenda riguardante il Verdini (Denis Verdini), come la vicenda inerente al procedimento che riguardava lui stesso (e cioè il Letta) e il Chiorazzo e come, da ultimo, la vicenda inerente al presente procedimento".

Ma se questo, stando alle dichiarazioni di Bisignani, era il suo compito principale, dagli atti dell'indagine napoletana emorgono anche una serie di altri inquietanti particolari di "contorno". Dettagli emersi nel corso dell'attività investigativa che secondo la procura di Napoli sono estremamente utili a tracciare i rapporti, le capacità di azione, le ambizioni e la spregiudicatezza di Papa.

Auto e orologi di lusso, appartamenti, crociere e posti di lavoro: il deputato del Pdl di cui è stato chiesto l'arresto era molto generoso con compagne, amiche e conoscenti varie. Nell'ordinanza di custodia cautelare a suo carico, vengono riportate le testimonianze di diverse donne che Papa avrebbe, in un modo o nell'altro, 'aiutato'. Tra queste Maria Roberta Darsena, che mette a verbale di aver conosciuto Papa "nel 1999 all'Università di Napoli quando io dovevo sostenere l'esame di diritto commerciale e lui era assistente... Il Papa per il mio compleanno del 2010 mi ha regalato la sua Jaguar XKR argento metallizzato", auto la cui manutenzione era però troppo onerosa. Per questo la Darsena l'ha consegnata al concessionario di fiducia di Papa in conto vendita, ma il parlamentare se l'è ripresa: "...mi disse di non preoccuparmi e che aveva falsificato la mia firma reintestandosi la macchina".

La donna lavora presso l'ufficio legale delle Poste, dove sarebbe stata inserita proprio da Papa. Sempre ai titolari dell'inchiesta napoletana riferisce: "Mi disse di mandare...un mio curriculum (peraltro il curriculum era praticamente inesistente dal momento che mi ero appena laureata) alle Poste perché lui avrebbe potuto farmi entrare essendo amico dell'ex presidente, e cioè di Cardi... sono stata assunta, dopo un colloquio, prima a tempo determinato, con uno stage di 6 mesi, e poi, automaticamente, a tempo indeterminato". Tra i regali ricevuti, un rolex, "un braccialetto tennis di oro bianco e diamanti", un anello, un altro orologio, "diverse borse": tutti oggetti che non erano contenuti nelle loro confezioni originali. A questo riguardo il giudice annota che "un orologio Rolex in genere non circola in modo 'nudo', cioè senza garanzie e certificazioni di provenienza".

Gli inquirenti hanno anche indagato su quella che viene definita una "anomala" disponibilità da parte dell'onorevole Papa di alcuni immobili che non sono di sua proprietà e il cui affitto viene pagato da altri: o "noti imprenditori" o parenti, come il suocero. "Non so chi e come pagasse tutte queste case", dice ai pm l'ex assistente del parlamentare, Maria Elena Valanzano, che parla in particolare di una "villa all'Olgiata" dove Papa viveva "con tale Luda", una ragazza dell'est che "tramite il Bisignani, ha fatto assumere in Eni".

Nelle varie testimonianze vengono citati un appartamento in in via Giulia, nel centro di Roma, una casa a Talenti, un altro "prestigioso appartamento" in via Capo Le Case.
I pm hanno ascoltato anche 'Luda', vale a dire Ludmyla Spornyk, che non parla solo di case, ma dei soggiorni pagati per lei da Papa in alberghi prestigiosi - dal De Russy a Roma al Mareblu di Ischia, al Principe di Savoia di Milano - oltre a crociere e regali vari (ancora una volta un Rolex: sul punto Luigi Bisignani, anche lui destinatario di due orologi, spiega agli inquirenti che "lo stesso Papa mi ha più volte detto che a Napoli c'è un buon mercato di orologi ed ottimi prezzi...").

Gli inquirenti hanno sentito anche un'altra donna, "legata in qualche modo a Papa" e destinataria sia di somme di denaro, sia di altre utilità, secondo gli inquirenti corrisposte, anche in questo caso, da imprenditori vicini al parlamentare. La giovane - Gianna Sperandio - ammette di aver "attaccato bottone" con Papa nell'agosto scorso in spiaggia, vicino a Latina, dove si era trasferita dopo essere stata prima un periodo a Milano, poi a Roma. Dopo averla conosciuta il deputato ha cominciato ad "aiutarla": "Papa mi riconosce 700 euro al mese", ha detto ai pm, aggiungendo di avere avuto in regalo anche una Jaguar, ma "bollo e assicurazione sono molto cari perciò ugualmente se la vede Papa". "L'onorevole Papa - ha detto ancora la Sperandio - mi ha fornito una tessera di riconoscimento emessa dalla Camera dei deputati per poter accedere a Montecitorio". Tessera che però non aveva con sé quando, in una occasione, è stata fermata dalla polizia. "Non facevo una bella figura - ha ammesso - che una persona che poteva accedere a Montecitorio si facesse le canne...".

Un "ritratto" a dir poco pesante che portato oggi l'Associazione nazionale magistrati a dichiarare che "i fatti che emergono dall'inchiesta di Napoli, nei confronti del magistrato in aspettativa per mandato parlamentare Alfonso Papa, appaiono oggettivamente gravi e inquietanti". Per questo, spiega ancora una nota, "l'Anm chiederà al collegio dei probiviri di valutare con urgenza la compatibilità di alcuni comportamenti con l'appartenenza all'Anm". Ben peggiori per Papa potrebbero essere però le conseguenza dell'inchiesta disciplinare avviata presso il Csm dalla procura generale della Cassazione.




Bisignani, l'uomo che Silvio ha definito «più potente di me»

luigi bisignani box

Per avere 57 anni ne ha viste e fatte di tutti i colori, ha attraversato logge, banche, comitati d’affari, interi blocchi di potere dei cui segreti è tuttora depositario nonchè legale rappresentante.
Ha smentito di essere stato iscritto alle P2 («conosco bene Gelli ma non c’entro con la sua loggia» disse all’epoca mentre ne era addirittura «un reclutatore»), è stato condannato (nel ‘98) a due anni e sei mesi per il tangentone Enimont , è riuscito a trasferire 108 miliardi nelle casse dello Ior.
E’ stato giornalista, a 23 anni era già capo ufficio stampa del ministro del tesoro Gaetano Stammati, e a 39 anni capo delle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi-Montedison.
Dato per spacciato tre o quattro volte, è sempre sopravvissuto e risorto grazie ad una invidiabile capacità di tessere relazioni, coltivarle e “usarle”. Di sè ha sempre parlato pochissimo. Non compare nei salotti, in giro ci sono pochissime foto e leggenda vuole che utilizzi un taxi, sempre lo stesso, anzichè sfoggiare un troppo vistoso autista. Lo conosciamo di più attraverso quello che dicono gli altri. Chicchi Pacini Battaglia, ad esempio, ai tempi di Tangentopoli, disse in una telefonata: «Qualunque cosa ti faccia comodo sul serio, la vera forza di Bisignani si chiama Ior». Il sottosegretario Gianni Letta, il 23 febbraio 2011, ai magistrati diNapoli: «Bisignani è persona estroversa, brillante, bene informata e talvolta è possibile che dica anche più di quello che sa. E’ amico di tutti, è l’uomo più conosciuto, è un uomo di relazione ». Una carriera, la sua, costruita all’ombra della Dc.
Milanese, figlio di un importante dirigente della Pirelli, eredita dal padre un prezioso lascito di relazioni politiche. Uno che, per dire, da ragazzo si permetteva di giocare a carte con Andreotti ». Il legame con il sette volte presidente del consiglio è certamente uno dei suoi segreti. «Presso la banca Vaticana - ricorda in un libro Angelo Caiola, alla guida dell’istituto dal 1989 al 2009 - Bisignani disponeva da anni di un conto personale». La condanna per il tangentone Enimont gli è costata anche la radiazione dall’albo dei giornalisti. «Ha svolto - è stata la motivazione - con continuità attività lucrose costituenti reato e afferenti a compiti del tutto estranei alla professione giornalistica ». Era già fuori, dunque, quando il suo nome fini nell’inchiesta dei pm Colombo e Boccassini sull’Alta Velocità e, anni dopo, in «Why not», l’indagine dell’attuale sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, allora pm a Catanzaro, in cui entrarono anche Romano Prodi e Clemente Mastella. Ora il suo nome torna ad essere accostato ai palazzi del potere: Bisignani, scrivono i magistrati nell’ordinanza, è «ascoltato consigliere dei vertici aziendali delle più importanti aziende controllate dallo Stato (Eni, Poligrafico dello Stato, Rai ecc), di ministri della Repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali ». Bisignani è «un lobbista» dice l’ad di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini. Che ancora oggi, nonostante tutto, ha un ufficio dentro palazzo Chigi. Stona, nella sua biografia inquietante ma sicuramente brillante, che si sia ridotto ad avere rapporti così stretti con un personaggio così poco onorevole come Alfonso Papa. Un errore, forse, fatale.



giovedì 16 giugno 2011

Royalty petrolio:4% all'Italia, 85% alla Libia, 80% alla Russia.


La Transunion ha già annunciato ai comuni iblei che a fine aprile inizierà a sondare il fondale dello specchio d'acqua davanti a Pozzallo, a 27 chilometri dalla costa. L'Audax, invece, di sonde non ha più bisogno: in estate, si legge sul suo sito web, potrebbe cominciare a trivellare a 13 miglia da Pantelleria. Non molto lontano, nei dintorni delle Isole Egadi, anche la Northern Petroleum riscalda i motori delle sue piattaforme.

Sotto l'ombra dell'inferno libico e quella di un possibile blackout energetico, la primavera delle trivelle sul mar Mediterraneo - esorcizzata dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo che prometteva di difendere a spada tratta il Canale di Sicilia, costi quel che costi - è oramai alle porte.

Secondo i dati delle associazioni ambientaliste, sarebbero più di cento i permessi di ricerca di idrocarburi richiesti o vigenti nel Mediterraneo. Alcuni concessi a un tiro di schioppo da sabbie dorate e banchi corallini. Le piattaforme, che - secondo quanto riportato dai bollettini pubblicati sui siti delle compagnie petrolifere - potrebbero già entrare in azione tra poche settimane, confermano i timori manifestati negli ultimi mesi dagli ambientalisti: il decreto anti-trivella, firmato e fortemente voluto dal ministro Prestigiacomo, emanato lo scorso 26 agosto, non servirà a proteggere le acque del Mediterraneo.

La Northern Petroleum lo sa e lo scrive: "La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa - si legge nel comunicato - avrà un effetto irrilevante sugli assetti della compagnia". Così, in barba al no della Regione e a quello dei sindaci, la Northern fa sapere di poter estrarre dai suoi giacimenti ben 4 miliardi di barili che tradotti in quattrini significano 400 miliardi di euro nelle tasche dei petrolieri. Briciole o nulla per lo Stato italiano dove le royalty che le compagnie minerarie lasciano al territorio dove estraggono senza imporre franchigie arrivano a malapena al 4 per cento contro l'85 di Libia e Indonesia, l'80 di Russia e Norvegia, il 60 in Alaska, e il 50 per cento in Canada.

"Al di là dell'aspetto ecologico, per l'Italia le trivelle sono anche antieconomiche" spiega Mario Di Giovanna, portavoce di "Stoppa la Piattaforma". "Se ci adeguassimo agli standard delle royalty degli altri paesi, facendo i conti della serva, potremmo estinguere, solo con una minima parte del canale di Sicilia, il 25 per cento del debito pubblico italiano".

In Italia, la franchigia per le piattaforme off-shore è di circa 50.000 tonnellate di greggio l'anno, equivalenti a 300 mila barili di petrolio. Sotto questo tetto di estrazione, le società non sono tenute a pagare nemmeno l'esiguo 4 per cento di royalty. La piattaforma Gela 1, a 2 km dalle coste siciliane, dal 2002 al 2008 ha prodotto petrolio e gas sempre sotto la soglia di franchigia. La Prezioso e la Vega producono invece il doppio oltre il limite (circa 100/120 mila tonnellate), pagando la franchigia solo per la metà della loro produzione. Forti delle agevolazioni fiscali italiane, le società le decantano ai loro investitori. A pagina 7 del rapporto annuale della Cygam (società petrolifera con interessi nell'Adriatico) si parla del nostro paese come il "migliore per l'estrazione di petrolio off-shore", sottolineando la totale "assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti".

Intanto Atwood Eagle, la contestatissima trivella dell'Audax che dall'11 luglio scorso galleggiava a 13 miglia dalle coste di Pantelleria, dopo un temporaneo abbandono dell'area, tra qualche mese potrebbe riprendere i sondaggi, mentre Shell ha già detto di aspettarsi dal Canale di Sicilia 150mila barili al giorno. Qualche settimana fa la Transunion Petroleum Italia ha inviato ad alcuni comuni della zona iblea, tra cui Pozzallo, Modica e Ragusa, un'istanza di avvio della procedura di valutazione d'impatto ambientale relativa ad un'area con un'estensione di 697,4 km quadrati, situata nel Canale di Malta. Le autorità locali hanno tempo fino al 27 aprile per le dovute osservazioni.

Il decreto anti-petrolio potrebbe non salvare nemmeno il mare agrigentino, dove la Hunt Oil Company ha avanzato una richiesta di permesso a poche miglia dall'Isola Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino: il regno di Empedocle, l'Etna marino, il gigante sommerso che fa ancora tremare i fondali.


http://www.facebook.com/notes/antonio-grazia-romano/royalty-petrolio4-allitalia-85-alla-libia-80-alla-russia/155568194512606



BRUNETTA FANNULLONE!!!! INCHIESTA SHOK!!!