domenica 21 agosto 2011

Il vero deficit è dei valori. - di Massimo Fini



In un articolo pubblicato sul Corriere il 17 agosto (Il vero disavanzo delle democrazie) il settantenne Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia contemporanea all’Università Vita-Salute del San Raffaele (curiosa parabola per uno che era partito comunista e si è scoperto, al momento opportuno, liberale e forse anche pio), storico che non ha mai scritto un libro di storia, risvegliandosi da un letargo durato quasi mezzo secolo, da quando era un giovane e promettente collaboratore dell’Einaudi, scopre che il deficit dei sistemi democratici sta nella loro mancanza di valori o, per usare il suo linguaggio contorto, nella loro “unidimensionalità economicista”. Geniale.

Nel mio spettacolo teatrale del 2004 Cirano, se vi pare… dicevo: “La democrazia è un metodo, un sistema di forme e di procedure, non è un valore in sé e non produce valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato sul quale la democrazia è nata, mentre facevano ‘tabula rasa’ dei valori precedenti, non sono stati in grado, in due secoli, di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili”. In realtà nella pièce riprendevo concetti espressi quasi un quarto di secolo primane La Ragione aveva Torto? e ribadite poi in Denaro. Sterco del demonio (1998), nel Vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (2002) e in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia(2004).

In realtà la democrazia, almeno così come si è storicamente determinata, non è che l’involucro legittimante del modello di sviluppo basato sul mercato. E il mercato, che è uno scambio di oggetti inerti, non può produrre valori, né laici né di qualsiasi altro tipo. L’unica divinità veramente condivisa è il Dio Quattrino. E la vera debolezza dell’Occidente democratico (in questo Della Loggia ha ragione, anche se arriva fuori tempo massimo), lo vediamo in rapporto con altre culture, Islam in testa, proprio in questo vuoto di valori.

Bisogna aggiungere che la democrazia, perlomeno quella rappresentativa, non solo non aiuta a costruire valori condivisi, ma sembra il sistema perfetto per demolirli. La liberal-democrazia si è infatti venuta strutturando, contro le intenzioni dei suoi padri fondatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis de Tocqueville), come un sistema di partiti in competizione fra di loro. I partiti per conquistare consensi hanno bisogno di apparati (il voto di opinione, secondo lo stesso Norberto Bobbio, gran studioso e strenuo difensore della democrazia, “è solo quello di coloro che non votano”). Per mantenere gli apparati hanno bisogno di soldi, per procurarseli li drenano illegalmente dal settore pubblico, di cui si sono impossessati, o da quello privato tenendo l’imprenditoria sotto ricatto (o mi dai la tangente o non vincerai mai un appalto). Essendo abituati a corrompere o a farsi corrompere per superiori esigenze di partito, i dirigenti politici diventano, quasi sempre, dei corrotti in nome proprio. Questa corruzione pubblica trascina fatalmente con sé i cittadini (se rubano loro perché non dovrei farlo anch’io?) spazzando così via tutta una serie di valori, onestà, lealtà, dignità, che tengono insieme una comunità.

A ciò si aggiunge che i partiti, pur di non scontentare i rispettivi elettorati, perdono completamente di vista l’interesse nazionale. E questo non è un vizio solo italiano se in America, Paese che deve le sue passate fortune a un fortissimo senso di appartenenza nazionale, repubblicani e democratici si stanno scannando da mesi mentre il loro Impero rischia di crollargli sotto i piedi. Per cui sento di poter dire che l’attuale crisi economica non è solo il segno del fallimento
di un modello di sviluppo ma anche del suo involucro legittimante: la democrazia.

sabato 20 agosto 2011

Napolitano, un presidente laico a Rimini. E al primo Meeting di Cl non berlusconiano. - di Emiliano Liuzzi


Domani la giornata di apertura con l'ospite più atteso. Pasquino: "Una scelta in linea con un capo dello Stato che vuole unire un Paese in frantumi". Ma l'obiettivo dei ciellini è sdoganare il loro leader per la corsa al post Berlusconi

Chissà come si muoverà tra quelle migliaia di ragazzi educati al grido di Comunione e liberazione, lui il presidente laico, l’ex comunista, sabaudo nei modi e nell’aspetto fisico, il custode della Costituzione, spesso duro nella sua missione, mascherato da quella sua perenne aria algebrica e perplessa. Per molti, la presenza diGiorgio Napolitano al meeting della lobby nel nome di Dio, nasconde chissà quale messaggio in codice. In realtà l’unica spinta pare sia stata quella di unire in un momento in cui tutti corrono da soli senza sapere neanche loro in chissà quale direzione.

Come spiega in poche, ma efficaci parole, il politologo Gianfranco Pasquino: “Questo è il suo ruolo e il ruolo che ha scelto di imporsi”, spiega al fattoquotidiano.it, “quello di tenere insieme le varie anime del Paese. E la sua è una scelta ponderata, ma un messaggio significativo di unità, in un momento più che difficile. Vedremo poi cosa dirà, ma la lettura non può che essere questa”.

Prima di lui sul palco di Rimini, in veste di Capo dello Stato, avevano fatto brevi apparizioni Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 e Francesco Cossiga nel 1991. Ciampi venne corteggiato a lungo, in tutte le maniere, ma lui ha sempre declinato l’invito. Ha assistito a una partita di calcio del suo Livorno (contro il Chievo, sconfitta in casa degli amaranto), durante il settennato, ma a Rimini mai. Con Sandro Pertini ci provarono, ma all’ultimo momento non si presentò.

Una svolta storica, che ha proiettato al settimo cielo Roberto Formigoni, Maurizio Lupi e il loro esercito bianco: “Sarà un grande evento”, si sono limitati a dire.

Un evento sicuramente il meeting lo è già. E non perché ha raccolto un milione e mezzo di soldi pubblici in tempi di crisi lacrime e sangue, come scritto e documentato dal fattoquotidiano.it, ma perché quello che si apre domani è il primo meeting non berlusconiano da 17 anni a questa parte. Non anti, sicuramente, ma neppure nel nome di Silvio.

Ci avrà messo lo zampino Formigoni, l’amico più distante del premier? Può essere. Dentro cielle non si muove foglia senza che il presidente della Regione Lombardia sappia niente. E’ anche grazie a lui che la Lobby di Dio è diventata un colosso da 70 miliardi di fatturato all’anno, è entrata prima nella sanità lombarda e poi nelle cooperative rosse in Emilia Romagna. “Più potente dell’Opus Dei, più efficiente della massoneria, più connessa della Confindustria, un network di potere”, come scrive Ferruccio Pinotti nel suo libro-inchiesta.

Una posizione crescente, appunto. Ma buona parte del salto di qualità Cl lo deve a Formigoni, ed è lui, con cristiana riconoscenza, che i ciellini vorrebbero futuro premier. Impresa ardua, viste le posizioni di Berlusconi, ma l’arrivo di Napolitano a Rimini è capace di rimettere in discussione anche questo. Anche perché buona base del Pdl adora il governatore dalle camicie sgargianti: due mesi fa a Mirabello è stato di gran lunga il più applaudito, è riuscito a oscurare ancheAngelino Alfano alla sua prima uscita da segretario, primo segnale che la scelta di Berlusconi sul successore era gradita a metà.

Vicinissima a Formigoni è la Rete Italia, nella quale si riconoscono anche i pidiellini Raffaele Fitto,Mariastella Gelmini, Saverio Romano, Maurizio Sacconi. La Rete Italia è “un circuito di amici che, impegnati a vario titolo in politica, guardano con simpatia e desiderio di coinvolgersi nell’azione di Roberto Formigoni (..) e che desiderano aiutarsi nella responsabilità politica che hanno, comunicandosi vicendevolmente notizie, giudizi ed esperienze”. Questa è la definizione che si trova nel sito lareteitalia.it che prosegue: “Oltre a questo, la rete si propone come luogo nel quale chiedere un sostegno nella risoluzione di problemi pratici (..). Rete Italia non è allora un’associazione, né quantomeno un partito o una corrente interna e per questo ritiene di rispettare come metodo di accesso quello dell’invito personale. Per questo motivo i canali di Rete Italia saranno accessibili solo tramite un codice identificativo”. A leggere le regole degli affiliati alla rete vengono in mente le dinamiche di potere dei massoni, ma con la differenza che lo spirito di questa loggia è quello di creare un canale preferenziale tra la Chiesa e gli affari della società civile, attraverso la sussidiarietà politica.

Formigoni quest’anno si vedrà al meeting non prima di giovedì 25. Presiederà l’incontro delle 19 intitolato “I cristiani in politica”, parallelamente Bernhard Scholz il numero uno di Compagnia delle opere farà da moderatore dell’incontro “Innovazione e competitività”. Ma più che su queste basi la saldatura del braccio economico di CL col mercato si basa sulla sussidiarietà dei favori. Il punto di congiunzione è l’intergruppo parlamentare bipartisan per la sussidiarietà. Lì i politici del Pdl più vicini a CL e alla Compagnia delle opere trovano la sponda con il mondo del cooperativismo emiliano-romagnolo. È tramite Enrico Letta, ospite fisso del meeting che Formigoni “ha di nuovo strizzato l’occhio a quell’universo delle cooperative rosse, da tempo vicino all’azione e all’impostazione ciellina”, come ha rilevato Valerio Federico ne “La peste lombarda”. E assieme a Letta, Napoletano, e Lupi domenica 21 a inaugurare la mostra 150 anni di sussidiarietà ci sarà Giorgio Vittadini, fondatore e presidente della Compagnia delle opere fino al 2003, prima di fondare e passare alla guida della fondazione per la sussidiarietà.

Oggi l’ascesa di Formigoni, chiuse le stanze del partito, non può che passare da un tentativo di scalata alla candidatura alla presidenza del consiglio. E se in qualche modo la sua sdoganatura possa passare attraverso la presenza al Meeting di Napolitano non lo sappiamo. Non è nelle intenzioni del presidente, ma che il popolo di cielle si aspetti anche questo non ne fa mistero.

Napolitano. Formigoni. Lupi. Enrico Letta. John Elkann. Gli sponsor. Tutto meno che Berlusconi. Questa sarà l’edizione del Meeting.


Manovra, la stangata è da 55 miliardi. E rischia di salire a 75. - di Stefano Feltri


Massima libertà di azione per il ministro Tremonti che ha fatto inserire nel testo la possibilità, attraverso un decreto del presidente del Consiglio, di "rimodulare le aliquote delle imposte indirette, inclusa l'accisa"

La manovra è una matriosca a rovescia: più ci entri dentro, più grande diventa. Partiamo da un trucchetto di comunicazione, semplice ma efficace, che l’economista Tito Boeri ha smascherato in una tabella del sito lavoce.info. Quanto vale la manovra? Il ministro del Tesoro Giulio Tremontiha spiegato, in conferenza stampa, che il decreto di luglio per ottenere il pareggio di bilancio nel 2014 da 40 miliardi era diventato da 45,5. Poi ha precisato che la correzione giusta era di 49,5 miliardi. Ma al 2013.

Per fare il confronto preciso, e misurare quanto peserà sui contribuenti e sugli enti locali, bisogna considerare lo stesso orizzonte temporale di luglio. E così si capisce che la manovra è diventata di 55 miliardi, altro che i 40 iniziali. Basta avvicinarsi un altro po’, per scrutare tra le righe della relazione tecnica (quella che traduce il decreto, scritto nel gergo incomprensibile dei rimandi incrociati tra articoli) per scoprire un’altra costosa sorpresa.

A guardare le tabelle della relazione tecnica del Senato, sembra che il taglio alle agevolazioni fiscali dal 2012 valga solo 16 miliardi di euro. Tradotto: se il Parlamento non approva una complessa riforma fiscale in tre mesi (eventualità quasi impossibile) scatta il taglio lineare di ogni agevolazione fiscale: da quelle per i figli a carico a quelle per le spese sanitarie a quelle per gli asili ecc. Così Tremonti, si legge nella relazione tecnica, conta di racimolare 4 miliardi nel 2012 e 12 nel 2013. Ma se si legge l’articolo 1 del decreto che modifica il provvedimento di luglio, si scopre che i tagli alle agevolazioni (cioè gli aumenti delle tasse) sono “del 5 per cento per l’anno 2012 e del 20 per cento a decorrere dall’anno successivo”. Quindi dal 2013 in poi, dunque, il taglio si può estendere anche al 2014 e oltre.

Altro dettaglio: visto che le agevolazioni fiscali valgono 160 miliardi all’anno, il 20 per cento di 160 è 32, non 20. Quindi applicando alla lettera il taglio, c’è margine per salire di altri 12 miliardi nel 2014. Non è finita. Con la manovra di Ferragosto, Tremonti si è tenuto le mani libere: se qualcosa va storto, decide lui come cambiare le tasse per raggiungere gli obiettivi che si è dato. Si legge infatti: “Al fine di garantire gli effetti finanziari [...] può essere disposta, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Economia e delle finanze, la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l’accisa”. Quando il consumatore legge l’espressione “imposte indirette” ha un brivido: è l’Iva, l’imposta sui consumi, che in tanti – a cominciare dalla Confindustria – sperano di alzare. Per far salire i prezzi, dare sollievo alle aziende, ridurre il peso del debito (se cresce l’inflazione il “valore reale” scende) a spese di un calo del potere d’acquisto dei consumatori, soprattutto dei dipendenti a reddito fisso. Può suonare inquietante anche l’accenno all’accisa, che in Italia è soprattutto quella sulla benzina appena aumentata a giugno per fronteggiare i costi di una fantomatica emergenza immigrazione (in realtà per fare cassa). Insomma: non è finita, Tremonti si è tenuto le mani libere per far salire ancora le tasse di almeno 6,5 miliardi, quanto vale un punto di Iva in più.

Ufficialmente questi margini di azione sono necessari perché, nei 60 giorni tra il decreto e la sua conversione in legge, gli scontri interni alla maggioranza possono portare all’annacquamento di alcune misure già previste: non quelle sui costi della politica (che nella relazione tecnica valgono 0 euro), quanto il contributo di solidarietà e i tagli da quasi 10 miliardi agli enti locali. La vera ragione è che le turbolenze sui mercati potrebbero costringere il governo a rafforzare ancora la manovra. Anche perché tutti questi interventi dal lato delle entrate avranno effetti negativi sulla crescita, visto che consumatori tartassati con meno soldi in tasca, consumano di meno. “Nel 2011 il Pil non arriverà neppure all’1 per cento di crescita previsto dal governo, se va bene saremo allo 0,7-0,8)”, prevede il professor Boeri. E se il Pil cala, la correzione è meno efficace, perché quello che conta è il rapporto tra debito e Pil (in Italia vicino al 120 per cento, mentre l’obiettivo è il 60). La manovra matriosca può quindi riservare altre sorprese. Tutte poco piacevoli.




Sul suo conto sempre più soldi Niente crisi per Dell’Utri. - di Marco Lillo


Il senatore, con i conti in rosso, comprava immobili e libri antichi. La guardia di Finanza ne ha ricostruito i movimenti bancari

Marcello Dell'Utri

Non smette mai di stupire il senatore Marcello Dell’Utri. Non ci sono solo i 9,5 milioni di euro di Berlusconi nei suoi conti correnti spulciati dalla Procura di Roma. Ci sono anche i 25 bonifici da un milione e 600 mila euro complessivi provenienti dalla società fiduciaria Sant’Andrea, alimentata dal 2004 con stock option Mediaset per 3,6 milioni di euro. E poi i 250 mila euro che arrivano dalla Tome Advertising SI, una società pubblicitaria che fa affari con il gruppo Berlusconi in Spagna, e i 150 mila euro del suo titolare, Giuseppe Donaldo Nicosia, che secondo la Gdf è un amico del premier. E ancora i 558 mila euro ricevuti da Marino Massimo De Caro, un personaggio poliedrico che riesce ad essere nell’ordine: consigliere particolare del ministro dei beni culturaliGiancarlo Galan; amico di Massimo D’Alema e intimo di Marcello Dell’Utri, nonché socio del figlio Marco Dell’Utri e soprattutto all’epoca manager dell’oligarca russo Viktor Feliksovich Vekselberg, titolare di importanti interessi in Italia.
Le nuove carte del fascicolo P3 visionate dal Fatto raccontano meglio di mille interviste come vive un “principe decaduto”, come si è autodefinito Dell’Utri con il Corriere della Sera.

Il Fatto aveva già raccontato i tre versamenti da 9,5 milioni effettuati da Silvio Berlusconi come prestito infruttifero (il primo del 22 maggio del 2008, per 1,5 milioni sul conto acceso al Credito Fiorentino di Denis Verdini; il secondo sul conto della Banca Popolare di Milano, il 25 febbraio per un milione; il terzo sempre su Bpm dell’11 marzo 2011 per sette milioni), la Guardia di Finanza ha chiesto ai pm romani l’autorizzazione a indagare sul piano fiscale. A prescindere dall’esito penale però, nelle informative del Nucleo Valutario guidato dal generale Leandro Cuzzocrea, del dicembre 2010 e del 21 giugno del 2011, i finanzieri ricostruiscono le fonti di reddito di Dell’Utri e le sue spese.

Il principe decaduto ha i conti in rosso e deve correre a pagare studi della figlia e conti del fratello e del figlio. Ma continua a comprare libri antichi e a spendere milioni di euro per la sua villa. Alla fine poi arriva a pagare tutto il Cavaliere. Il 15 marzo del 2011 Dell’Utri paga 1 milione e 350 mila euro alla società Nessi e Maiocchi che sta ristrutturando la sua villa a Torno, sul lago di Como. Altri quattro bonifici arrivano alla Nessi & Majocchi “per un totale di Euro 1.145.210 tra il gennaio e il settembre 2007.
La parte più interessante dell’informativa riguarda i rapporti con Marino Massimo De Caro. L’attuale consigliere del ministro Galan che allora era vicepresidente della società dell’oligarca russo Viktor Feliksovich Vekselberg, Avelar Energy. De Caro era stato intercettato nel 2008 dalla Procura di Reggio Calabria mentre parlava con Aldo Micciché, un faccendiere di origini calabresi emigrato in Venezuela ma in ottimi rapporti con gli uomini della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Micciché, con l’aiuto della massoneria, cercava di farsi strada nel trading di petrolio tra Venezuela e Russia, e usava i suoi rapporti fraterni con Marcello Dell’Utri che lo aveva messo in contatto con De Caro, amico anche di Massimo D’Alema perché la madre ha lavorato per anni con la moglie del leader Pd, Linda Giuva, all’Istituto Gramsci. Ora De Caro, ex consigliere PDS a Orvieto fino al 2000, ha tagliato i ponti con la sinistra.

La Guardia di Finanza segnala l’arrivo di due assegni “sul conto intestato a Marcello Dell’Utri presso il Credito Cooperativo Fiorentino”, provenienti dal conto di De Caro Marino Massimo eSacco Rossella (sua moglie) per un totale di Euro 414.000. Il secondo dei due assegni per 250 mila euro, secondo la Guardia di Finanza, “è risultato impagato”.
La movimentazione del conto di De Caro “è stata segnalata da Deutsche Bank”, prosegue la Guardia di Finanza, “poiché caratterizzata da consistenti movimenti a mezzo assegni e dall’accredito in data 8 aprile 2009 di un bonifico di euro 1.178.204,00 disposto dalla Greenock Consultants Limited tramite la Hellenic Bank PLC di Nicosia – Cipro a titolo di prima rata per il finanziamento del 2 aprile 2009”. La Finanza segnala che i pagamenti per 245 mila euro sono stati fatti “a titolo di saldo: pagamento lettera di Colombo 1492”. Massimo De Caro al Fatto spiega: “Ho pagato Dell’Utri per un libro rarissimo che riporta la lettera del 1493 scritta da Colombo a Isabella d’Aragona. In realtà”, aggiunge De Caro, “al senatore ho pagato quel libro molto di più: un milione di euro in tutto. In parte in contanti, come risulta, e in parte con altri libri. I soldi vengono dal conto di Cipro del mio amico russo Vekselberg ma gli affari del petrolio non c’entrano nulla. Anche Vekselberg è un amante dei libri antichi. Mi ha prestato”, spiega De Caro al Fatto, “1,3 milioni che non gli ho ancora restituito. Tanto ha in garanzia le opere comprate”.



Metà dei Parlamentari ha il doppio incarico e diserta l'Aula. - di M. Antonietta Calabrò


Più che una norma ben scritta e prima ancora pensata, l'articolo 13 del decreto legge sulla manovra aggiuntiva entrato in vigore il 13 agosto, sembra una grida manzoniana, «una grida fresca» che «son quelle che fanno più paura», come commentava Azzeccagarbugli nel terzo capitolo dei Promessi Sposi . Ma che poi alla fine hanno poco effetto.

Il decreto prevede che, per deputati e senatori che svolgano attività che fruttino loro un reddito pari o superiore al 15 per cento dell'indennità della carica parlamentare, essa venga dimezzata. Alla Camera attualmente corrisponde a 5.486,58 euro netti (cui vanno aggiunti i rimborsi forfettari per le spese telefoniche, di viaggio e per i collaboratori, che costituiscono gran parte dello «stipendio», che arriva a 14 mila euro netti per un qualsiasi peone, ma è molto di più per un presidente di commissione o un segretario d'aula o chiunque abbia un altro incarico interno).

Un «biglietto da visita»
In altre parole un deputato o un senatore che abbia un'attività professionale dovrà rinunciare solo a 2.700 euro netti al mese. A fronte di fatturati di molte decine o centinaia di migliaia, se non di milioni di euro. Sacrificando meno di 35 mila euro l'anno (2.700 per 12 mesi), insomma, un avvocato potrà utilizzare il brand «CD» (Camera dei Deputati) o «S» (Senato) con tutti i risvolti positivi che ciò comporta, a cominciare dal fatto che il marchio - cosa ben nota - funziona da moltiplicatore di parcelle. Adesso è semplicemente un biglietto da visita che costerà un po' di più. Ma che paradossalmente mette il deputato (speriamo non definitivamente) al riparo dal dover rispondere di piccoli e grandi conflitti di interesse tra la sua attività professionale e la sua attività legislativa. Come poi possa apparire l'articolo 13 una grida manzoniana è presto detto. Al di la del «quanto», è la logica che non torna, perché diciamo così, inverte «l'onore» della prestazione lavorativa. Un esempio opposto viene dal mondo accademico (che pure da sempre ha attirato critiche per la scarsa efficienza): i dottori di ricerca non possono svolgere una seconda attività che superi della metà l'importo della loro borsa. E non il contrario. Cioè si pretende che si svolga innanzitutto il lavoro per cui si è «stipendiati» e poi, se avanza del tempo, si permette una quota residuale di lavoro «autonomo».

Che la situazione non stia in piedi, se ne deve essere reso conto anche l'estensore materiale del prescritto dimezzamento dell'indennità, perché l'articolo 13 afferma che si prende questo provvedimento «in attesa della revisione costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari e della rideterminazione del trattamento economico omnicomprensivo attualmente corrisposto...». Una premessa che la dice lunga su come vanno le cose.

Metà del Parlamento ha un doppio lavoro
Il fatto è che i «doppiolavoristi» sono quasi la metà dei parlamentari. Una truppa considerevole: 446 in tutto (di cui 270 deputati e 176 senatori), su 945 eletti. Oltre a vantare le più alte dichiarazioni dei redditi, stando a uno studio che ha fatto scalpore del sito La voce.info, i «doppiolavoristi» hanno il record anche della percentuale più alta (37%) di assenteismo. Un dato che più che creare scandalo dovrebbe essere considerato banale, visto che non potrebbe essere altrimenti, perché nessuno di loro ha il dono dell'ubiquità, fornendo argomenti a quanti chiedono il coraggio di arrivare al dimezzamento del numero dei parlamentari. Come ha fatto Sergio Romano nell'editoriale di ieri del Corriere.

Ai magistrati «onorevoli» - che sono 17 - (come il neo Guardasigilli Nitto Francesco Palma che nei giorni scorsi si è dimesso dall'ordine giudiziario) è imposta per legge l'aspettativa dal lavoro. Agli avvocati no. Sapete quanti esponenti del libero Foro occupano un seggio? 134: la somma di 87 deputati e 47 senatori. Con il 14% del totale detengono il record assoluto delle professioni. Negli Stati Uniti fare l'avvocato è incompatibile con il seggio parlamentare e con ogni altra attività. Al secondo posto ci sono quelli che si qualificano genericamente «dirigenti»: 133. Al terzo gli imprenditori: 114, contro soli 4 operai. I docenti universitari sono 77, i giornalisti 89 (con i casi dei «doppiolavoristi» Guzzanti e Farina, arrivati in modo eclatante all'onore delle cronache giudiziarie e delle fiducie parlamentari) e 53 i medici.

Connesso al problema del doppio lavoro c'è quello della «buonuscita» a fine mandato che è una «liquidazione» completamente esentasse, perché tecnicamente si tratta di introito «non imponibile». Quello dell'onorevole infatti non è un Tfr (retribuzione differita): si tratta di una tantum o, più precisamente, di «assegno per il reinserimento nella vita lavorativa». Questo «assegno di fine mandato» dovrebbe infatti servire ad aiutare gli onorevoli a «reinserirsi» nel mondo professionale. È un grosso esborso di denaro (dopo cinque anni sullo scranno, 46.814 euro a parlamentare, dopo 15 anni oltre 140 mila euro) che non solo non ha paragoni negli altri Paesi (dove o non c'è o è estremamente contenuto), ma che è del tutto ingiustificato per quanti (avvocati, commercialisti, medici e professionisti di ogni colore politico) non hanno mai chiuso lo studio e restano in attività quando entrano in Parlamento. In proposito il decreto legge però non dice nulla.

Le incompatibilità elettive
Si contano infine sulle dita di una mano i parlamentari per cui scatta l'incompatibilità prevista dal terzo comma del medesimo articolo 13 che recita: «La carica di parlamentare è incompatibile con qualsiasi altra carica pubblica elettiva. Tale incompatibilità si applica a decorrere dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto». Per i parlamentari l'incompatibilità insomma non scatta (come direbbero i giuristi) né ex tunc (dal 1 gennaio 2011) e neppure ex nunc (dalla data di entrata in vigore del decreto). Quindi sono «salvi» i 6 parlamentari che attualmente hanno un doppio incarico: Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti e deputata del Pdl; Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania e senatore del Pdl; il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, deputato del Pdl; Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli e deputato del Pdl; Francesco Rutelli, senatore di Api e consigliere comunale a Roma e Antonio Pepe (deputato pdl) presidente della Provincia di Foggia. In base al decreto in futuro potrebbero fare gli assessori «esterni», come Bruno Tabacci, deputato di Api e al contempo assessore al Bilancio, Patrimonio e Tributi di Milano, che anche se sarà deputato nella prossima legislatura, potrà rimanere tranquillamente al suo posto di Montecitorio perché «chiamato» (dal sindaco Pisapia) e non «eletto» dai milanesi.



Da quello tombale a Mondadori. Tutti i condoni di Berlusconi


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Fiscali, edilizi, tombali, integrativi o a scudo, pendenti o potenziali: quella dei condoni è per il governo Berlusconi il record della vergogna ma a ben guardare anche il primato della fantasia (applicata alla vergogna). Insomma, come trovare i modo per sanare le ignobili imprese dell’abuso e dell’evasione con invenzioni anche lessicali degne di un cruciverba. Il governo Berlusconi-Tremonti- Bossi ha letteralmente massacrato la legislatura 2001-2006 con le sanatorie più varie, conosciute o meno. La parte del leone è quella dell’operazione fiscale del2002, un maxi documento con il quale si è «perdonato» di tutto in cambio di un risibile obolo. Già il nome che viene dato all’operazione la dice lunga: «condono tombale».

In pratica, pagando una piccola multa si sana ogni violazione fiscale negli ultimi cinque anni. Nella stessa manovra, c’è una sanatoria specifica per le piccole e media imprese e per i professionisti («condono per reddito imprese e autonomi »). Poi la sanatoria per «omessi o ritardati versamenti»(si paga senza interessi o sanzioni). E ancora quella per le«chiusure delle liti pendenti»:pagando una piccola quota ci si tutela senza interessi esanzioni. E quella per«liti potenziali »,quando con un modesto versamento si blocca l’accertamento (in corso) dell’Agenzia delle Entrate. Poi c’è l’integrazione:chi aumenta percentualmente l’imponibile (paga solo l’imposta, niente interessi e multe) non è perseguibile (norma servita a molte grandi aziende soprattutto per l’Iva).

Di seguito, la sanatoria per i «redditi all’estero non dichiarati» - niente multe né interessi - e quella per le «scritture contabili » (ripulisce il bilancio irregolare). Anche il bacino elettorale della Lega Nord reclama attenzione: scatta così l’operazione «quote latte». Il pagamento delle multe viene a lungo rinviato, ma quando stanno per scattare ipoteche e sequestri, ilgovernoBossi-Berlusconi- Tremonti toglie la competenza della riscossione a Equitalia. Insomma, tutto da rifare, con sentore di insabbiamento... Dello scudo per i capitali all’estero si sta parlando in questi giorni, ma ci si è forse dimenticati del condono edilizio 2003, o della norma Mondadori, attraverso la quale, due anni fa la maggioranza sana (tra l’altro) il contenzioso in Corte di Cassazione per il pagamento delle imposte che dura da anni: inveceche170milioni, se ne pagano solo 5. E via così.


Tasse, i “santissimi” privilegi del Vaticano. - di Caterina Perniconi


Alberghi, bus e turismo religioso: le attività della Santa Sede esentasse costano allo Stato fino a 3 miliardi l'anno. La denuncia dei Radicali: "Non vogliamo l'ici per le chiese, ma se vogliono fare gli imprenditori allora paghino le imposte come tutti.

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Alberghi di lusso con terrazze sulla Capitale, società che organizzano viaggi per i turisti della fede, scuole e ospedali. Tutto esentasse o quasi, grazie ai privilegi di cui gode il Vaticano. La denuncia del segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini è chiara: con qualche ritocco alle esenzioni della Chiesa cattolica, lo Stato potrebbe risparmiare fino a 3 miliardi l’anno. Nel mirino del partito radicale, Ici, Ires e 8 x mille.

La legge istitutiva dell’Ici aveva previsto precise esenzioni per gli immobili destinati al culto e ad usi “meritevoli” (come le attività assistenziali, didattiche o ricreative). Nel 2004, la Cassazione ha dovuto precisare che tale dispensa poteva essere applicata solo fino a quando nell’immobile fosse esercitata in via esclusiva una delle attività “meritevoli”. Nel 2007 fu bocciato un emendamento socialista che proponeva di abbattere l’Ici per gli immobili della Chiesa adibiti a scopi commerciali e grazie a un provvedimento del governo di centrosinistra, adesso basta che non siano “esclusivamente dedicati” al commercio. Quindi sono ancora migliaia gli istituti religiosi in Italia che non pagano questa tassa, convertiti in veri e propri alberghi. E non solo. Basta un chiostro dedicato alla preghiera e qualsiasi immobile o attività può dirsi salvo dalla tassa. A pagare, secondo l’Associazione nazionale dei comuni italiani, sono meno del 10 per cento di chi dovrebbe farlo, con un danno erariale di circa 500 milioni l’anno. Il caso che ha fatto più volte parlare è ilconvento delle suore brigidine, nella storica cornice di piazza Farnese a Roma, diventato uno degli hotel tra i più gettonati dai turisti stranieri. “Per non parlare dell’incompiuto del Bernini a Trastevere – racconta Staderini – dato in concessione a una catena alberghiera che l’ha trasformato in una residenza 4 stelle, Villa Donna Camilla Savelli”.

Tra i privilegi a cui il Vaticano non rinuncia e che i radicali contestano c’è anche l’abbattimento dell’Ires del 50 per cento nei confronti degli enti di assistenza e beneficenza. Per arrivare al contributo dell’8 x mille del gettito Irpef dei cittadini, che supera i 900 milioni l’anno, e viene usato per il sostentamento dei sacerdoti, per interventi caritativi in Italia e nel terzo mondo, per le iniziative nelle diocesi e la nuova edilizia di culto.

“Noi non pretendiamo di rimettere l’Ici sulle chiese – spiega ancora Staderini – ma almeno sulle attività commerciali. Lo Stato, in un momento di crisi come questo potrebbe risparmiare fino a 3 miliardi l’anno e il Vaticano pagare con i profitti ricavati dalle attività come tutti gli altri imprenditori”.

Il turismo religioso viene valutato dai radicali un giro d’affari da 4,5 miliardi euro l’anno solo in Italia (e considerando esclusivamente i servizi di carattere ricettivo e di trasporto). Sono 35 i milioni di turisti che ogni anno partecipano ad attività di turismo di carattere religioso nel nostro paese, il 30 per cento dei quali viene dall’estero, impegnando 120.000 camere, pari al 15 per cento della capacità ricettiva nazionale. In Italia ci sono oltre 200 mila i posti letto gestiti da enti religiosi, per un totale di 3.300 indirizzi, con circa 55 milioni di presenze ogni anno.

Ma gli alberghi non sono l’unica fonte d’introito da turismo per la Chiesa cattolica. L’Opera romana pellegrinaggi, “un’attività del Vicariato di Roma, organo della Santa Sede, alle dirette dipendenze del Cardinale Vicario del Papa”, come si legge nel sito di presentazione, organizza da 75 anni tour per i pellegrini da e per tutto il mondo. Quasi esentasse, nonostante una sede in pieno centro a Roma, in via dei Cestari, e i 7 pullman gialli a due piani che imperversano nelle vie della Capitale, alla cifra di 18 euro a passeggero, noti alle cronache per la denuncia da parte dei lavoratori che venivano pagati in nero.

Il meccanismo, raccontato da Valeria Pireddu, una hostess dei bus di “Roma cristiana” al programma Le Iene, era semplice: lei prendeva un euro su ogni biglietto venduto, quindi non era assunta dal gruppo ma in pratica una libera volontaria. In teoria, invece, avrebbe dovuto emettere fattura anche per i 30-40 euro al giorno guadagnati. Che le avrebbero permesso trasparenza, contributi, ferie, maternità. Naturalmente non compresi nel lavoro che le era stato affidato.

“L’appiglio di Opr alla deroga derivante dai Patti Lateranensi relativa al servizio di trasporto è palesemente non corretto – conclude Staderini – in primo luogo perche le garanzie previste dalla citata legge fanno riferimento ai soggetti che si recano nella Città del Vaticano per finalità religiose, mentre non comprendono le attività di carattere commerciale quale il servizio di trasporto di linea turistica Roma Cristiana. Poi perché il servizio opera sul territorio della città di Roma e solo incidentalmente lambisce il Vaticano, al pari delle altre linee di bus a due piani, di cui ripercorre i percorsi e le fermate”.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/18/santissimo-privilegio/152104