La manovra è una matriosca a rovescia: più ci entri dentro, più grande diventa. Partiamo da un trucchetto di comunicazione, semplice ma efficace, che l’economista Tito Boeri ha smascherato in una tabella del sito lavoce.info. Quanto vale la manovra? Il ministro del Tesoro Giulio Tremontiha spiegato, in conferenza stampa, che il decreto di luglio per ottenere il pareggio di bilancio nel 2014 da 40 miliardi era diventato da 45,5. Poi ha precisato che la correzione giusta era di 49,5 miliardi. Ma al 2013.
Per fare il confronto preciso, e misurare quanto peserà sui contribuenti e sugli enti locali, bisogna considerare lo stesso orizzonte temporale di luglio. E così si capisce che la manovra è diventata di 55 miliardi, altro che i 40 iniziali. Basta avvicinarsi un altro po’, per scrutare tra le righe della relazione tecnica (quella che traduce il decreto, scritto nel gergo incomprensibile dei rimandi incrociati tra articoli) per scoprire un’altra costosa sorpresa.
A guardare le tabelle della relazione tecnica del Senato, sembra che il taglio alle agevolazioni fiscali dal 2012 valga solo 16 miliardi di euro. Tradotto: se il Parlamento non approva una complessa riforma fiscale in tre mesi (eventualità quasi impossibile) scatta il taglio lineare di ogni agevolazione fiscale: da quelle per i figli a carico a quelle per le spese sanitarie a quelle per gli asili ecc. Così Tremonti, si legge nella relazione tecnica, conta di racimolare 4 miliardi nel 2012 e 12 nel 2013. Ma se si legge l’articolo 1 del decreto che modifica il provvedimento di luglio, si scopre che i tagli alle agevolazioni (cioè gli aumenti delle tasse) sono “del 5 per cento per l’anno 2012 e del 20 per cento a decorrere dall’anno successivo”. Quindi dal 2013 in poi, dunque, il taglio si può estendere anche al 2014 e oltre.
Altro dettaglio: visto che le agevolazioni fiscali valgono 160 miliardi all’anno, il 20 per cento di 160 è 32, non 20. Quindi applicando alla lettera il taglio, c’è margine per salire di altri 12 miliardi nel 2014. Non è finita. Con la manovra di Ferragosto, Tremonti si è tenuto le mani libere: se qualcosa va storto, decide lui come cambiare le tasse per raggiungere gli obiettivi che si è dato. Si legge infatti: “Al fine di garantire gli effetti finanziari [...] può essere disposta, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Economia e delle finanze, la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l’accisa”. Quando il consumatore legge l’espressione “imposte indirette” ha un brivido: è l’Iva, l’imposta sui consumi, che in tanti – a cominciare dalla Confindustria – sperano di alzare. Per far salire i prezzi, dare sollievo alle aziende, ridurre il peso del debito (se cresce l’inflazione il “valore reale” scende) a spese di un calo del potere d’acquisto dei consumatori, soprattutto dei dipendenti a reddito fisso. Può suonare inquietante anche l’accenno all’accisa, che in Italia è soprattutto quella sulla benzina appena aumentata a giugno per fronteggiare i costi di una fantomatica emergenza immigrazione (in realtà per fare cassa). Insomma: non è finita, Tremonti si è tenuto le mani libere per far salire ancora le tasse di almeno 6,5 miliardi, quanto vale un punto di Iva in più.
Ufficialmente questi margini di azione sono necessari perché, nei 60 giorni tra il decreto e la sua conversione in legge, gli scontri interni alla maggioranza possono portare all’annacquamento di alcune misure già previste: non quelle sui costi della politica (che nella relazione tecnica valgono 0 euro), quanto il contributo di solidarietà e i tagli da quasi 10 miliardi agli enti locali. La vera ragione è che le turbolenze sui mercati potrebbero costringere il governo a rafforzare ancora la manovra. Anche perché tutti questi interventi dal lato delle entrate avranno effetti negativi sulla crescita, visto che consumatori tartassati con meno soldi in tasca, consumano di meno. “Nel 2011 il Pil non arriverà neppure all’1 per cento di crescita previsto dal governo, se va bene saremo allo 0,7-0,8)”, prevede il professor Boeri. E se il Pil cala, la correzione è meno efficace, perché quello che conta è il rapporto tra debito e Pil (in Italia vicino al 120 per cento, mentre l’obiettivo è il 60). La manovra matriosca può quindi riservare altre sorprese. Tutte poco piacevoli.
Per fare il confronto preciso, e misurare quanto peserà sui contribuenti e sugli enti locali, bisogna considerare lo stesso orizzonte temporale di luglio. E così si capisce che la manovra è diventata di 55 miliardi, altro che i 40 iniziali. Basta avvicinarsi un altro po’, per scrutare tra le righe della relazione tecnica (quella che traduce il decreto, scritto nel gergo incomprensibile dei rimandi incrociati tra articoli) per scoprire un’altra costosa sorpresa.
A guardare le tabelle della relazione tecnica del Senato, sembra che il taglio alle agevolazioni fiscali dal 2012 valga solo 16 miliardi di euro. Tradotto: se il Parlamento non approva una complessa riforma fiscale in tre mesi (eventualità quasi impossibile) scatta il taglio lineare di ogni agevolazione fiscale: da quelle per i figli a carico a quelle per le spese sanitarie a quelle per gli asili ecc. Così Tremonti, si legge nella relazione tecnica, conta di racimolare 4 miliardi nel 2012 e 12 nel 2013. Ma se si legge l’articolo 1 del decreto che modifica il provvedimento di luglio, si scopre che i tagli alle agevolazioni (cioè gli aumenti delle tasse) sono “del 5 per cento per l’anno 2012 e del 20 per cento a decorrere dall’anno successivo”. Quindi dal 2013 in poi, dunque, il taglio si può estendere anche al 2014 e oltre.
Altro dettaglio: visto che le agevolazioni fiscali valgono 160 miliardi all’anno, il 20 per cento di 160 è 32, non 20. Quindi applicando alla lettera il taglio, c’è margine per salire di altri 12 miliardi nel 2014. Non è finita. Con la manovra di Ferragosto, Tremonti si è tenuto le mani libere: se qualcosa va storto, decide lui come cambiare le tasse per raggiungere gli obiettivi che si è dato. Si legge infatti: “Al fine di garantire gli effetti finanziari [...] può essere disposta, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Economia e delle finanze, la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l’accisa”. Quando il consumatore legge l’espressione “imposte indirette” ha un brivido: è l’Iva, l’imposta sui consumi, che in tanti – a cominciare dalla Confindustria – sperano di alzare. Per far salire i prezzi, dare sollievo alle aziende, ridurre il peso del debito (se cresce l’inflazione il “valore reale” scende) a spese di un calo del potere d’acquisto dei consumatori, soprattutto dei dipendenti a reddito fisso. Può suonare inquietante anche l’accenno all’accisa, che in Italia è soprattutto quella sulla benzina appena aumentata a giugno per fronteggiare i costi di una fantomatica emergenza immigrazione (in realtà per fare cassa). Insomma: non è finita, Tremonti si è tenuto le mani libere per far salire ancora le tasse di almeno 6,5 miliardi, quanto vale un punto di Iva in più.
Ufficialmente questi margini di azione sono necessari perché, nei 60 giorni tra il decreto e la sua conversione in legge, gli scontri interni alla maggioranza possono portare all’annacquamento di alcune misure già previste: non quelle sui costi della politica (che nella relazione tecnica valgono 0 euro), quanto il contributo di solidarietà e i tagli da quasi 10 miliardi agli enti locali. La vera ragione è che le turbolenze sui mercati potrebbero costringere il governo a rafforzare ancora la manovra. Anche perché tutti questi interventi dal lato delle entrate avranno effetti negativi sulla crescita, visto che consumatori tartassati con meno soldi in tasca, consumano di meno. “Nel 2011 il Pil non arriverà neppure all’1 per cento di crescita previsto dal governo, se va bene saremo allo 0,7-0,8)”, prevede il professor Boeri. E se il Pil cala, la correzione è meno efficace, perché quello che conta è il rapporto tra debito e Pil (in Italia vicino al 120 per cento, mentre l’obiettivo è il 60). La manovra matriosca può quindi riservare altre sorprese. Tutte poco piacevoli.
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