domenica 21 agosto 2011

Comunione Presidenziale. - di Luca Telese.



Questa sera Giorgio Napolitano va a Rimini. Fra le notizie dell’estate degne della categoria immaginifica dello strano ma vero, c’è quella di un presidente della Repubblica che inaugura solennemente il Festival di Comunione e Liberazione.

Chi scrive, in una redazione in cui albergano le opinioni più diverse sulla presidenza Napolitano, è fra quelli convinti che si tratti di uno dei migliori inquilini del Colle dopo Sandro Pertini. Proprio per questo, peró, non capisce il senso di una partecipazione al più politico dei festival politici italiani. È opportuno che uno dei presidenti più attenti alla sacralità del suo ruolo apra il meeting di un movimento che da sempre si occupa di anime, ma anche di affari? È opportuno che dia il suo imprimatur istituzionale alle opere, ma – indirettamente – anche agli appalti della Compagnia?

Troverete, in questo sito, un articolo sulle disavventure giudiziarie di Comunione & Fatturazione. Quelle inchieste non sono certo un’ombra che possa oscurare il valore di un intero movimento, ma bastano per porre un problema di opportunità per una autorità istituzionale che diventerebbe per il meeting, come già fu con Andreotti, una sorta di guida spirituale. Non c’è il rischio che il Quirinale diventi una nuova icona?

C’è infine un altro aspetto, oltre al sottotesto nobile dell’ex nemico ideologico del Novecento che si riconcilia simbolicamente con i suoi secolari avversari. Quello di un Colle che esce dalla sua terzietà per entrare di fatto nell’agone della polemica politica italiana. Se Napolitano va al meeting di Rimini, perché mai non dovrebbe andare alla festa del Pdl di Mirabello, ospite del senatore Balboni? Perché non dovrebbe partecipare alla festa nazionale del suo partito, ospite del responsabile feste del Pd, Lino Paganelli? Insomma, se Napolitano sceglie di diventare un politico come gli altri, interventista e presenzialista, non può limitare la sua presenza alla sola festa dei ciellini. Non può rischiare di diventare uno dei tanti ingredienti della collateralità trasversale che da sempre si articola intorno al meeting. E nemmeno di diventare il garante, nel nome di una necessaria unità nazionale, di un nuovo inciucio emergenziale.

Forse, dato il suo altissimo ruolo, e data la sua dichiarata aspirazione alla sobrietà, farebbe bene a vigilare di più e presenziare di meno. Oppure a spiegare pubblicamente come si può entrare a cantare in una chiesa di parte senza rischiare di essere fagocitati dal coro.


C'ERA UNA VOLTA LA POLITICA.


Oggi voglio riflettere con voi su un pensiero che mi disturba da tempo e che è andato aggravandosi in quest'ultima, calda settimana di metà agosto, a causa delle infelici manifestazioni verbali di Umberto Bossi. Può, mi chiedo, un ministro della Repubblica, investire un altro ministro, puntando addirittura sulle sue caratteristiche fisiche ed assumendo, dunque, un atteggiamento che mi permetto di definire fascista? Ebbene sì, può farlo. Ed anche senza che nessuno, per ore, lo bacchetti. Ed ecco che allora quel pensiero di cui vi parlavo si acutizza fino a diventare una certezza: la politica, quella vera, non esiste più. E' tramontata, lasciando il posto ad una classe dirigente volgare, inopportuna, oltraggiosa, incivile e, soprattutto, incapace. Il confronto politico è stato messo da parte per far spazio ad esuberanze fuor di luogo, che offendono chiunque creda ancora nella dialettica costruttiva. Io credo che le recenti, vergognose, manifestazioni del Senatur, siano, in qualche maniera, la spiegazione intrinseca della manovra inutile, controproducente e grave che il governo è stato capace di partorire, pure in netto ritardo rispetto a quando avrebbe dovuto fare. Quella volgarità espressiva spiega la politica deicondoni. Cerco di spiegarmi meglio. Ritengo che la politica economica palesemente fallimentare, oltre che scorretta, di questo governo sia il degno risultato del lavoro di una classe dirigente che politicamente non esiste e che si esprime attraverso offese indecenti. Il pensiero che mi disturba da giorni è che il fallimento della politica degli ultimi anni sia la conseguenza di unadegenerazione della classe dirigente, di cui l'incontinenza verbale e gestuale di Bossi è simbolo e che l'evidente declino del leader della Lega, affannato a metter toppe fatte di sola volgarità sulla perdita di consensi, porti con sé il tramonto di quel codice non scritto che la politica ha sempre rispettato ed ora non considera quasi più. Si pensi alle barzellette raccontate pubblicamente dal presidente del Consiglio o alle infelici sue battute sull'aspetto estetico di alcune colleghe donne, degne, per altro, del massimo rispetto in virtù di serie capacità politiche più volte dimostrate. Ed allora la speranza, ancora una volta, è che Berlusconi, Bossi e tutto il governo, portandosi dietro il turpiloquio, la gratuita volgarità, la violenza verbale e l'incapacità di fondo, si tolgano di mezzo al più presto, lasciando l'Italia libera di riprendersi la propria dignità etica, culturale ed istituzionale.


Voi siete qui - Salviamo il piccolo Breznev della Padania.


Alessandro Robecchi, il sito ufficiale: testi, rubriche, giornali, radio, televisione, progetti editoriali e altro
Alessandro Robecchi

Basta con l’invasione! Con questa crisi economica non si può accogliere tutti! Vengono qui e pretendono di comandare. Si insediano nelle nostre belle città del nord. Hanno persino diritto alle case popolari, certe volte; li curiamo nei nostri ospedali senza nemmeno chiedere da dove vengono. Insomma, se proprio vogliamo essere compassionevoli, diciamolo una volta per tutte: i leghisti, aiutiamoli a casa loro! A Varese, a Monza, ad Adro. Gli paracadutiamo dei viveri, magari gli spediamo qualche libro, ma che stiano lì, nelle loro amate valli, a mangiare gli orsi, a far finta di fare il ministro: una targa in ottone e sono tutti contenti. Ha fatto più danni la Lega in trent’anni al nord che i Borboni in un secolo a Napoli. Non c’è italiano del nord, per quanto perbene, che possa andare in giro per l’Europa senza essere sbertucciato come elettore di Borghezio. E questo senza contare i riti pagani. Non solo l’ampolla del Po, Alberto da Giussano e consimili scemenze, ma anche il cerchio magico, Calderoli, Rosi Mauro la donna barbuta, il Maroni Bobo, per non dire del povero figliolo Renzo piazzato a guadagnare 12.000 euro mensili alla regione Lombardia dopo una vita di studi (sempre nella stessa classe, peraltro). E poi lui. Quella specie di Madonna Pellegrina che è il Bossi Umberto, ormai esposto alle plebi padane come una reliquia, un Breznev agonizzante, un Grande Timoniere simile a un pugile suonato che dice una cosa oggi e il contrario domani. E ogni tanto lo portano via nottetempo perché persino i fedeli mugugnano, povere bestie anche loro. Ora, finito di contribuire al disastro italiano questa bella classe dirigente di geni si rimette a cianciare di Padania. Al suo nord, ai suoi elettori, ai suoi fedelissimi, ha portato solo sfiga, disastro, tasse e depressione. Se la Lega farà la secessione come ha fatto il federalismo, avremo Bergamo in provincia di Viterbo. Niente di male, anzi, ma pensiamoci prima. Aiutiamoli a casa loro che, tra parentesi, è casa nostra anche quella, è Italia anche lì, finché dura.


Bossi: “Le pensioni non si toccano” E sui giornalisti: “Sono da legnare”


In un comizio ad Alzano Lombardo il Senatùr attacca la stampa e insulta Casini: "Uno stronzo". Calderoli: "Montezemolo è una scoreggia".

Non solo un nuovo stop sulle pensioni (“ho detto al premier di non toccarle”), ma più di metà del comizio serale ad Alzano Lombardo Bossi l’ha dedicata ad attacchi e insulti. Contro Casini (“uno stronzo”), colpevole di essersi dichiarato favorevole a una revisione del sistema pensionistico. E contro i giornalisti, “delinquenti da legnare”.

Quello a Berlusconi suona come un ultimatum: “L’ho detto al premier: non toccare le pensioni, troveremo un’altra via”. Ma più della politica, della crisi economica e delle questioni di partito, nelle parole del ministro delle Riforme ha preso forma un problema di rapporti con i cronisti. E questo, come lui stesso ha spiegato dal palco, è dovuto principalmente al modo in cui sono state raccontate le sue vacanze in Cadore. Ma forse hanno pesato le ricostruzioni dei media su divisioni interne alla Lega moltiplicatesi nelle ultime settimane.

Il leader leghista ha ripetutamente attaccato lanciando anche insulti ai cronisti, in particolare della carta stampata. “Ai giornalisti – ha affermato Bossi – bisognerebbe dare quattro legnate, hanno inventato una grande manifestazione dei centri sociali a Calalzo, ma in verità non c’è stato niente”. A quel punto ha confessato di aver lasciato il Cadore dopo la cena di compleanno di Giulio Tremonti per evitare di stare in mezzo ai giornalisti “che rompono le palle in continuazione”, che sono dei “delinquenti”, e che questa sera ad Alzano Lombardo, a suo giudizio, sono “venuti sperando che qualcuno ci contesti”.

Bossi non si è fermato qui anche perché questi passaggi hanno suscitato l’applauso di militanti e simpatizzanti. “Bisogna che impariamo come un tempo a dare dei grandi passamano a quei delinquenti – ha infatti aggiunto -. I giornalisti vanno riportati sulla giusta strada, altrimenti vadano a fare i muratori”. Per poi definire “brutti stronzi” quei cronisti dei principali quotidiani nazionali e che hanno scritto delle vacanze in Cadore.

Quelli contro i giornalisti e contro Casini non sono stati per la verità i soli insulti della serata. Dallo stesso palco infatti il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli se l’è presa con quelli come “i Montezemolo che sono scoregge di umanità e che non hanno mai lavorato in vita loro”.


Il vero deficit è dei valori. - di Massimo Fini



In un articolo pubblicato sul Corriere il 17 agosto (Il vero disavanzo delle democrazie) il settantenne Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia contemporanea all’Università Vita-Salute del San Raffaele (curiosa parabola per uno che era partito comunista e si è scoperto, al momento opportuno, liberale e forse anche pio), storico che non ha mai scritto un libro di storia, risvegliandosi da un letargo durato quasi mezzo secolo, da quando era un giovane e promettente collaboratore dell’Einaudi, scopre che il deficit dei sistemi democratici sta nella loro mancanza di valori o, per usare il suo linguaggio contorto, nella loro “unidimensionalità economicista”. Geniale.

Nel mio spettacolo teatrale del 2004 Cirano, se vi pare… dicevo: “La democrazia è un metodo, un sistema di forme e di procedure, non è un valore in sé e non produce valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato sul quale la democrazia è nata, mentre facevano ‘tabula rasa’ dei valori precedenti, non sono stati in grado, in due secoli, di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili”. In realtà nella pièce riprendevo concetti espressi quasi un quarto di secolo primane La Ragione aveva Torto? e ribadite poi in Denaro. Sterco del demonio (1998), nel Vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (2002) e in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia(2004).

In realtà la democrazia, almeno così come si è storicamente determinata, non è che l’involucro legittimante del modello di sviluppo basato sul mercato. E il mercato, che è uno scambio di oggetti inerti, non può produrre valori, né laici né di qualsiasi altro tipo. L’unica divinità veramente condivisa è il Dio Quattrino. E la vera debolezza dell’Occidente democratico (in questo Della Loggia ha ragione, anche se arriva fuori tempo massimo), lo vediamo in rapporto con altre culture, Islam in testa, proprio in questo vuoto di valori.

Bisogna aggiungere che la democrazia, perlomeno quella rappresentativa, non solo non aiuta a costruire valori condivisi, ma sembra il sistema perfetto per demolirli. La liberal-democrazia si è infatti venuta strutturando, contro le intenzioni dei suoi padri fondatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis de Tocqueville), come un sistema di partiti in competizione fra di loro. I partiti per conquistare consensi hanno bisogno di apparati (il voto di opinione, secondo lo stesso Norberto Bobbio, gran studioso e strenuo difensore della democrazia, “è solo quello di coloro che non votano”). Per mantenere gli apparati hanno bisogno di soldi, per procurarseli li drenano illegalmente dal settore pubblico, di cui si sono impossessati, o da quello privato tenendo l’imprenditoria sotto ricatto (o mi dai la tangente o non vincerai mai un appalto). Essendo abituati a corrompere o a farsi corrompere per superiori esigenze di partito, i dirigenti politici diventano, quasi sempre, dei corrotti in nome proprio. Questa corruzione pubblica trascina fatalmente con sé i cittadini (se rubano loro perché non dovrei farlo anch’io?) spazzando così via tutta una serie di valori, onestà, lealtà, dignità, che tengono insieme una comunità.

A ciò si aggiunge che i partiti, pur di non scontentare i rispettivi elettorati, perdono completamente di vista l’interesse nazionale. E questo non è un vizio solo italiano se in America, Paese che deve le sue passate fortune a un fortissimo senso di appartenenza nazionale, repubblicani e democratici si stanno scannando da mesi mentre il loro Impero rischia di crollargli sotto i piedi. Per cui sento di poter dire che l’attuale crisi economica non è solo il segno del fallimento
di un modello di sviluppo ma anche del suo involucro legittimante: la democrazia.

sabato 20 agosto 2011

Napolitano, un presidente laico a Rimini. E al primo Meeting di Cl non berlusconiano. - di Emiliano Liuzzi


Domani la giornata di apertura con l'ospite più atteso. Pasquino: "Una scelta in linea con un capo dello Stato che vuole unire un Paese in frantumi". Ma l'obiettivo dei ciellini è sdoganare il loro leader per la corsa al post Berlusconi

Chissà come si muoverà tra quelle migliaia di ragazzi educati al grido di Comunione e liberazione, lui il presidente laico, l’ex comunista, sabaudo nei modi e nell’aspetto fisico, il custode della Costituzione, spesso duro nella sua missione, mascherato da quella sua perenne aria algebrica e perplessa. Per molti, la presenza diGiorgio Napolitano al meeting della lobby nel nome di Dio, nasconde chissà quale messaggio in codice. In realtà l’unica spinta pare sia stata quella di unire in un momento in cui tutti corrono da soli senza sapere neanche loro in chissà quale direzione.

Come spiega in poche, ma efficaci parole, il politologo Gianfranco Pasquino: “Questo è il suo ruolo e il ruolo che ha scelto di imporsi”, spiega al fattoquotidiano.it, “quello di tenere insieme le varie anime del Paese. E la sua è una scelta ponderata, ma un messaggio significativo di unità, in un momento più che difficile. Vedremo poi cosa dirà, ma la lettura non può che essere questa”.

Prima di lui sul palco di Rimini, in veste di Capo dello Stato, avevano fatto brevi apparizioni Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 e Francesco Cossiga nel 1991. Ciampi venne corteggiato a lungo, in tutte le maniere, ma lui ha sempre declinato l’invito. Ha assistito a una partita di calcio del suo Livorno (contro il Chievo, sconfitta in casa degli amaranto), durante il settennato, ma a Rimini mai. Con Sandro Pertini ci provarono, ma all’ultimo momento non si presentò.

Una svolta storica, che ha proiettato al settimo cielo Roberto Formigoni, Maurizio Lupi e il loro esercito bianco: “Sarà un grande evento”, si sono limitati a dire.

Un evento sicuramente il meeting lo è già. E non perché ha raccolto un milione e mezzo di soldi pubblici in tempi di crisi lacrime e sangue, come scritto e documentato dal fattoquotidiano.it, ma perché quello che si apre domani è il primo meeting non berlusconiano da 17 anni a questa parte. Non anti, sicuramente, ma neppure nel nome di Silvio.

Ci avrà messo lo zampino Formigoni, l’amico più distante del premier? Può essere. Dentro cielle non si muove foglia senza che il presidente della Regione Lombardia sappia niente. E’ anche grazie a lui che la Lobby di Dio è diventata un colosso da 70 miliardi di fatturato all’anno, è entrata prima nella sanità lombarda e poi nelle cooperative rosse in Emilia Romagna. “Più potente dell’Opus Dei, più efficiente della massoneria, più connessa della Confindustria, un network di potere”, come scrive Ferruccio Pinotti nel suo libro-inchiesta.

Una posizione crescente, appunto. Ma buona parte del salto di qualità Cl lo deve a Formigoni, ed è lui, con cristiana riconoscenza, che i ciellini vorrebbero futuro premier. Impresa ardua, viste le posizioni di Berlusconi, ma l’arrivo di Napolitano a Rimini è capace di rimettere in discussione anche questo. Anche perché buona base del Pdl adora il governatore dalle camicie sgargianti: due mesi fa a Mirabello è stato di gran lunga il più applaudito, è riuscito a oscurare ancheAngelino Alfano alla sua prima uscita da segretario, primo segnale che la scelta di Berlusconi sul successore era gradita a metà.

Vicinissima a Formigoni è la Rete Italia, nella quale si riconoscono anche i pidiellini Raffaele Fitto,Mariastella Gelmini, Saverio Romano, Maurizio Sacconi. La Rete Italia è “un circuito di amici che, impegnati a vario titolo in politica, guardano con simpatia e desiderio di coinvolgersi nell’azione di Roberto Formigoni (..) e che desiderano aiutarsi nella responsabilità politica che hanno, comunicandosi vicendevolmente notizie, giudizi ed esperienze”. Questa è la definizione che si trova nel sito lareteitalia.it che prosegue: “Oltre a questo, la rete si propone come luogo nel quale chiedere un sostegno nella risoluzione di problemi pratici (..). Rete Italia non è allora un’associazione, né quantomeno un partito o una corrente interna e per questo ritiene di rispettare come metodo di accesso quello dell’invito personale. Per questo motivo i canali di Rete Italia saranno accessibili solo tramite un codice identificativo”. A leggere le regole degli affiliati alla rete vengono in mente le dinamiche di potere dei massoni, ma con la differenza che lo spirito di questa loggia è quello di creare un canale preferenziale tra la Chiesa e gli affari della società civile, attraverso la sussidiarietà politica.

Formigoni quest’anno si vedrà al meeting non prima di giovedì 25. Presiederà l’incontro delle 19 intitolato “I cristiani in politica”, parallelamente Bernhard Scholz il numero uno di Compagnia delle opere farà da moderatore dell’incontro “Innovazione e competitività”. Ma più che su queste basi la saldatura del braccio economico di CL col mercato si basa sulla sussidiarietà dei favori. Il punto di congiunzione è l’intergruppo parlamentare bipartisan per la sussidiarietà. Lì i politici del Pdl più vicini a CL e alla Compagnia delle opere trovano la sponda con il mondo del cooperativismo emiliano-romagnolo. È tramite Enrico Letta, ospite fisso del meeting che Formigoni “ha di nuovo strizzato l’occhio a quell’universo delle cooperative rosse, da tempo vicino all’azione e all’impostazione ciellina”, come ha rilevato Valerio Federico ne “La peste lombarda”. E assieme a Letta, Napoletano, e Lupi domenica 21 a inaugurare la mostra 150 anni di sussidiarietà ci sarà Giorgio Vittadini, fondatore e presidente della Compagnia delle opere fino al 2003, prima di fondare e passare alla guida della fondazione per la sussidiarietà.

Oggi l’ascesa di Formigoni, chiuse le stanze del partito, non può che passare da un tentativo di scalata alla candidatura alla presidenza del consiglio. E se in qualche modo la sua sdoganatura possa passare attraverso la presenza al Meeting di Napolitano non lo sappiamo. Non è nelle intenzioni del presidente, ma che il popolo di cielle si aspetti anche questo non ne fa mistero.

Napolitano. Formigoni. Lupi. Enrico Letta. John Elkann. Gli sponsor. Tutto meno che Berlusconi. Questa sarà l’edizione del Meeting.


Manovra, la stangata è da 55 miliardi. E rischia di salire a 75. - di Stefano Feltri


Massima libertà di azione per il ministro Tremonti che ha fatto inserire nel testo la possibilità, attraverso un decreto del presidente del Consiglio, di "rimodulare le aliquote delle imposte indirette, inclusa l'accisa"

La manovra è una matriosca a rovescia: più ci entri dentro, più grande diventa. Partiamo da un trucchetto di comunicazione, semplice ma efficace, che l’economista Tito Boeri ha smascherato in una tabella del sito lavoce.info. Quanto vale la manovra? Il ministro del Tesoro Giulio Tremontiha spiegato, in conferenza stampa, che il decreto di luglio per ottenere il pareggio di bilancio nel 2014 da 40 miliardi era diventato da 45,5. Poi ha precisato che la correzione giusta era di 49,5 miliardi. Ma al 2013.

Per fare il confronto preciso, e misurare quanto peserà sui contribuenti e sugli enti locali, bisogna considerare lo stesso orizzonte temporale di luglio. E così si capisce che la manovra è diventata di 55 miliardi, altro che i 40 iniziali. Basta avvicinarsi un altro po’, per scrutare tra le righe della relazione tecnica (quella che traduce il decreto, scritto nel gergo incomprensibile dei rimandi incrociati tra articoli) per scoprire un’altra costosa sorpresa.

A guardare le tabelle della relazione tecnica del Senato, sembra che il taglio alle agevolazioni fiscali dal 2012 valga solo 16 miliardi di euro. Tradotto: se il Parlamento non approva una complessa riforma fiscale in tre mesi (eventualità quasi impossibile) scatta il taglio lineare di ogni agevolazione fiscale: da quelle per i figli a carico a quelle per le spese sanitarie a quelle per gli asili ecc. Così Tremonti, si legge nella relazione tecnica, conta di racimolare 4 miliardi nel 2012 e 12 nel 2013. Ma se si legge l’articolo 1 del decreto che modifica il provvedimento di luglio, si scopre che i tagli alle agevolazioni (cioè gli aumenti delle tasse) sono “del 5 per cento per l’anno 2012 e del 20 per cento a decorrere dall’anno successivo”. Quindi dal 2013 in poi, dunque, il taglio si può estendere anche al 2014 e oltre.

Altro dettaglio: visto che le agevolazioni fiscali valgono 160 miliardi all’anno, il 20 per cento di 160 è 32, non 20. Quindi applicando alla lettera il taglio, c’è margine per salire di altri 12 miliardi nel 2014. Non è finita. Con la manovra di Ferragosto, Tremonti si è tenuto le mani libere: se qualcosa va storto, decide lui come cambiare le tasse per raggiungere gli obiettivi che si è dato. Si legge infatti: “Al fine di garantire gli effetti finanziari [...] può essere disposta, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Economia e delle finanze, la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l’accisa”. Quando il consumatore legge l’espressione “imposte indirette” ha un brivido: è l’Iva, l’imposta sui consumi, che in tanti – a cominciare dalla Confindustria – sperano di alzare. Per far salire i prezzi, dare sollievo alle aziende, ridurre il peso del debito (se cresce l’inflazione il “valore reale” scende) a spese di un calo del potere d’acquisto dei consumatori, soprattutto dei dipendenti a reddito fisso. Può suonare inquietante anche l’accenno all’accisa, che in Italia è soprattutto quella sulla benzina appena aumentata a giugno per fronteggiare i costi di una fantomatica emergenza immigrazione (in realtà per fare cassa). Insomma: non è finita, Tremonti si è tenuto le mani libere per far salire ancora le tasse di almeno 6,5 miliardi, quanto vale un punto di Iva in più.

Ufficialmente questi margini di azione sono necessari perché, nei 60 giorni tra il decreto e la sua conversione in legge, gli scontri interni alla maggioranza possono portare all’annacquamento di alcune misure già previste: non quelle sui costi della politica (che nella relazione tecnica valgono 0 euro), quanto il contributo di solidarietà e i tagli da quasi 10 miliardi agli enti locali. La vera ragione è che le turbolenze sui mercati potrebbero costringere il governo a rafforzare ancora la manovra. Anche perché tutti questi interventi dal lato delle entrate avranno effetti negativi sulla crescita, visto che consumatori tartassati con meno soldi in tasca, consumano di meno. “Nel 2011 il Pil non arriverà neppure all’1 per cento di crescita previsto dal governo, se va bene saremo allo 0,7-0,8)”, prevede il professor Boeri. E se il Pil cala, la correzione è meno efficace, perché quello che conta è il rapporto tra debito e Pil (in Italia vicino al 120 per cento, mentre l’obiettivo è il 60). La manovra matriosca può quindi riservare altre sorprese. Tutte poco piacevoli.