mercoledì 7 settembre 2011

Lele Mora in lacrime in aula per chiedere la scarcerazione: "Voglio chiarire tutto"



Milano - (Adnkronos) - Il manager dei vip èin carcere dal 20 giugno scorso per concorso in bancarotta fraudolenta. Oggi i suoi legali hanno chiesto la detenzione ai domiciliari.

Milano, 7 set. (Adnkronos) - Ha lasciato il tribunale di Milano visibilmente commosso dopo aver abbracciato per un istante la figlia Diana, Lele Mora, il manager dei vip in carcere dal 20 giugno scorso per concorso in bancarotta fraudolenta, oggi presente nell'aula del tribunale del Riesame dove i suoi legali hanno chiesto per lui la detenzione ai domiciliari.
Davanti ai giudici Mora, come riferiscono i suoi avvocati, ha fatto brevi dichiarazioni spontanee per confermare "la sua totale disponibilita' a rispondere a tutte le domande". L'udienza e' terminata poco dopo le 10 e i giudici si sono riservati una decisione che depositeranno in Cancelleria nei prossimi giorni.

Visibilmente dimagrito, abito grigio e scarpe celesti, Mora, scortato da agenti della polizia penitenziaria, entrato poco dopo le 9 nell'aula del tribunale del Riesame, chiusa al pubblico, per assistere all'udienza al termine della quale i giudici si riserveranno una decisione che comunicheranno alle parti nei prossimi giorni. Gia' il gip, nell'agosto scorso, aveva respinto la richiesta di scarcerazione per il manager, cosi' come chiedeva la Procura.

A essere indagato insieme a Mora per la bancarotta della 'LM Management', la societa' del manager dichiarata fallita nel giugno del 2010 con un buco da circa 8,5 milioni di euro, e' anche il direttore del Tg4Emilio Fede.

Proprio a lui, ha dichiarato Mora ai magistrati milanesi, l'agente dei vip avrebbe versato quella che ha definito come una "costosa intermediazione" da circa 1,2 milioni per ottenere un prestito da Silvio Berlusconi. Stando a quanto hanno ricostruito le indagini dal gennaio al settembre del 2010, in tre tranche, Mora avrebbe ricevuto attraverso Giuseppe Spinelli circa 2,8 milioni dal leader del Pdl.

Diversa la versione di Emilio Fede che agli inquirenti ha dichiarato di aver ricevuto da Mora 350 mila euro come restituzione di un prestito che aveva fatto.



Caso Ruby, Berlusconi scrive alla Giunta “Le mie intercettazioni siano inutilizzabili”



Alla vigilia della discussione alla Camera sul caso Milanese (l’ex braccio destro di Giulio Tremonti per il quale i magistrati di Napoli chiedono l’arresto nell’ambito dell’inchiesta sulla P4, ndr), mentre l’Italia è nella bufera economica presa di mira dalla speculazione e in attesa dell’approvazione finale di una manovra che è già arrivata alla sua quarta versione, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi prende carta e penna per scrivere una lettera alla Giunta per le Autorizzazioni. Il motivo? Chiedere che questa dichiari inutilizzabili le intercettazioni relative al caso Ruby.

La lettera di tre pagine, depositata in serata in Giunta dal legale del premier e deputato del PdlNiccolò Ghedini, contiene anche numerosi allegati contenenti il testo delle intercettazioni a cui si fa riferimento. La maggior parte delle quali è tra le ragazze dell’Olgettina, Nicole Minetti e altre giovani protagoniste delle feste di Arcore.

In buona sostanza, si spiega nel centrodestra, si tratterebbe della memoria già depositata a Milano dai legali di Berlusconi Niccolò Ghedini e Piero Longo che però venne ‘respinta’ dai magistrati che non accolsero, tra l’altro, la richiesta di considerare tali conversazioni inutilizzabili perchè non ‘autorizzate’. Ora, si commenta nell’opposizione, premier e avvocati ripresentano la stessa istanza alla Giunta “quasi fosse una sorta di appello”. Ed è proprio per questo, si osserva nel centrosinistra, che la lettera di Berlusconi “è a dir poco irricevibile” viste anche le competenze della Giunta “estremamente limitate” e costituzionalmente “codificate”. Un conto, si sottolinea, è individuare se ci sia stato o meno del fumus persecutionis nei confronti di un parlamentare, un altro “è intervenire a gamba tesa in un processo sostituendosi di fatto alla magistratura”. In estrema sintesi, la tesi contenuta nella lettera firmata dal Cavaliere è che sia le intercettazioni, sia l’individuazione delle celle telefoniche delle ragazze non si sarebbero potute disporre né individuare senza l’autorizzazione della Giunta visto che il vero obiettivo che si voleva raggiungere era quello di ‘colpire’ il premier che è parlamentare della Repubblica.

Ora, il Presidente del Consiglio vorrebbe che l’organismo presieduto da Pierluigi Castagnetti(Pd) si pronunciasse su questo aspetto rendendo di fatto inutilizzabile l’uso dei colloqui telefonici (anche se su persone ‘terze’) nel processo Ruby: la giovane donna di origine marocchina che, da minorenne, avrebbe partecipato ai festini di Arcore. Ma la decisione di rivolgersi alla Giunta con queste modalità e con questi scopi, secondo l’opposizione, sarebbe un’“inaccettabile forzatura” e un “precedente gravissimo”.

La lettera di Berlusconi verrà letta ufficialmente nella seduta della Giunta di domani nella quale si dovrà affrontare anche il caso di Marco Milanese. Entro il 16 di settembre, dunque entro la prossima settimana, i deputati dovranno esprimere il parere per l’aula sulla richiesta di arresto del deputato Pdl. Sul tavolo dei componenti dell’organismo presieduto da Castagnetti sono arrivate ulteriori ‘carte’ che, su richiesta dello stesso deputato, la giunta ha deciso, a maggioranza, di acquisire. Ma fino ad oggi la documentazione non era ancora completa, spiega il relatore Fabio Gava, che aggiunge: “Ritengo che domani ci sarà una riunione interlocutoria. Mi riserverò le conclusioni circa la richiesta di arresto, sulla base dell’andamento della discussione e sulla base di tutti i documenti di cui chiederò che venga sollecitata l’acquisizione. Il calendario sarà fissato dal presidente Castagnetti. Al momento ritengo non si profilino elementi per un eventuale ulteriore proroga dei termini”. In ogni caso, bisognerà anche “svolgere l’audizione dello stesso Milanese”, sottolinea ancora il relatore ricordando che la richiesta di acquisizione di alcune intercettazioni, con la richiesta della trascrizione integrale, ad esempio, di quelle relative a Viscione fra il 15 e il 26 febbraio 2010 e di quella fra Viscione e Sidoti del 22 febbraio 2011.

L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa nei confronti del deputato del Pdl lo scorso sette luglio ed è stata inoltrata alla Giunta per le Autorizzazioni della Camera. Le accuse contestate sono di corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e associazione per delinquere. L’inchiesta del pm Vincenzo Piscitelli è lo sviluppo di un’indagine che aveva portato in carcere nei mesi precedenti l’imprenditore irpino Paolo Viscione per una serie di società create anche a Malta nel settore assicurativo, in particolare la “Eig”. Milanese avrebbe ricevuto da questa società e da Viscione denaro, viaggi, orologi di lusso, gioielli e auto come Ferrari e Benthley, in cambio di notizie riservate e interventi per ostacolare le indagini della Guardia di Finanza sulle sue società.

Lo scorso 28 luglio, la Giunta aveva dato l’ok, unanime, all’acquisizione delle cassette di sicurezza in uso al deputato Pdl Marco Milanese e all’acquisizione dei tabulati telefonici ed aveva approvato, a maggioranza, la proroga fino al 16 settembre dei termini per formulare il parere per l’Aula sulla richiesta di autorizzazione. Era sato lo stesso relatore a chiedere di acquisire nuova documentazione. A favore della proroga avevano votato anche l’Udc e il presidente della Giunta Castagnetti. Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, aveva quindi accolto la richiesta di proroga e la capigruppo aveva stabilito che l’aula si sarebbe pronunciata sull’arresto la terza settimana di settembre.



Nelle telefonate di Lavitola le strategie su come aggirare il referendum sull’acqua.


Nell'inchiesta dei pm di Napoli sulle presunte estorsioni ai danni di Berlusconi spuntano alcune telefonate in cui il direttore de L'Avanti parlava con Roberto Guercio, esperto di sistemi idraulici. Che gli spiega come le multiutility possano continuare a fare profitti dopo la consultazione popolare, a cosa servirà la nuova authority sulla risorsa idrica e quali siano i rapporti tra Acea e Regione Lazio.


Si interessa di tutto il direttore de L’Avanti Valter Lavitola. Di grandi affari e trame, passando per le reti strategiche del nostro paese. Tra le telefonate riportate dai magistrati di Napoli per chiederne l’arresto spunta anche la strategia dei grandi azionisti delle multiutility per beffare il voto dei referendum sull’acqua dello scorso giugno, fatta di nomine pilotate e di leggi regionali progettate per garantire i profitti milionari ai grandi gestori. Una manovra già iniziata da almeno due mesi, con una strategia precisa, discussa in lunghe telefonate rimaste agli atti dei magistrati di Napoli che si occupano dell’ipotesi di estorsione ai danni del presidente del Consiglio da parte dell’imprenditore Gianpaolo Tarantini e di Lavitola stesso.

Appena sette giorni dopo il voto del 12 e 13 giugno – che ha chiesto la restituzione ai cittadini del bene comune per eccellenza – Lavitola è al telefono con Roberto Guercio, professore all’università di Roma in sistemi idraulici, nominato dal governo commissario straordinario per le emergenze idrogeologiche in moltissime regioni d’Italia. Parlano a lungo di come mettere in salvo i profitti delle aziende interessate agli acquedotti italiani, che “stanno con la merda fino al collo perché le banche gli stanno chiedendo di rientrare”, come spiega Guercio al direttore de L’Avanti. E la rete di Lavitola si mette in moto, con l’obiettivo preciso di gabbare il voto popolare.

E’ il 21 giugno scorso. Il Parlamento ha appena approvato la conversione del decreto sviluppo che introduce la creazione della neonata Agenzia dell’acqua, con il compito di decidere le tariffe del servizio idrico. Una vera e propria authority, con poteri fondamentali, soprattutto dopo il referendum: dovrà essere questo nuovo organo, ad esempio, a rivedere le tariffe dopo l’abrogazione della remunerazione del capitale sugli investimenti.

Alle nove di sera Lavitola è al telefono con Guercio, che lo informa sul decreto appena approvato: “E’ passato, però nella forma che voleva Letta, tre posti, tre anni rinnovabili una volta… ha pagato 100 mila euro all’anno”, spiega l’ingegnere idraulico.

Il Gip di Napoli, nell’ordinanza con cui ha disposto l’arresto di Tarantini e Lavitola, sintetizza qual è l’interesse di Guercio nell’agenzia appena costituita. Commentando una telefonata del 5 luglio scorso, i magistrati annotano: “Pertanto lui (Roberto Guercio, ndr) è andato e gli ha detto: abbiamo fatto l’autorità di vigilanza, per me è un sacrificio andarci perché per 3 anni non posso fare niente, piglio 100mila euro e basta e dopo un anno che sono uscito non posso fare nulla uguale, però all’interno di un disegno strategico importante posso anche sacrificarmi ovviamente”. Il riferimento è alla norma contenuta nel regolamento dell’Agenzia che vieta ai componenti di avere consulenze con società private. Un vero “sacrificio” per l’ingegnere esperto di acquedotti, abituato alle ricche consulenze pagate dai gruppi multinazionali. Ma un potere immenso, in grado di incidere sulla gestione dell’acqua nell’intero Paese.

Per il membro in pectore della neonata autority – che dovrebbe garantire e tutelare gli interessi dei cittadini su un bene essenziale per la vita – in fondo il voto di giugno non sembra essere, una volta entrato nell’agenzia, un grande problema: “Secondo me il referendum è un’opportunità”, commenta Guercio parlando con Lavitola. E spiega nei dettagli come sarà possibile perCaltagirone, il principale socio di Acea, continuare a incassare gli utili milionari della multiutility romana, bypassando il voto di giugno: “Non è detto che tu e i francesi dovete prendervi i soldi da Acea – spiega Guercio, riferendo il contenuto di un incontro con Caltagirone – dalla remunerazione del capitale, il capitale non si paga un cazzo, ma trasformiamo l’attuale concessione di gestione in una concessione di gestione e costruzione… E tu la redditività del capitale te la prendi costruendo per conto di Acea al 50% delle opere come prevede in house la normativa europea”. Se il voto ha abrogato il profitto – secondo quesito sull’acqua – stabilendo il principio della gestione pubblica, in fondo basta spostare gli utili dalla gestione al vero core business del gruppo Caltagirone, la costruzione delle infrastrutture. Questo è il piatto ricco che potrà continuare a garantire nei fatti l’interesse dei privati nell’acqua, beffando il voto del referendum.

C’è un ultimo passaggio chiave nel piano di Guercio, che viene riferito a Lavitola: va cambiata la concessione che oggi regola il rapporto tra Acea e i comuni della provincia di Roma. Un’operazione che richiede l’intervento politico della Regione Lazio, che entro la fine dell’anno deve ridisegnare il funzionamento dell’Autorità d’Ambito, ovvero la parte pubblica del sistema di gestione idrica. E anche su questo punto Guercio ha la sua road map per il dopo referendum: “Dato che lei (Renata Polverini, ndr), comunque pensa di rifare un partito con Alemanno – si legge nelle intercettazioni riportate nell’ordinanza del Gip di Napoli – e comunque con Caltagirone si vede una volta al giorno, questa operazione sul Lazio la può fare solo lui. Cioè lui gli dice: Renata preparami la legge regionale entro l’anno in cui mi dai la concessione di gestione e costruzione e concessione del Peschiera (principale acquedotto che fornisce la capitale, ndr) e noi gliela facciamo tecnicamente. Poi la partita gliela teniamo sempre per le palle… no?”. Dal contesto delle telefonate appare chiaro che il “lui” citato è il costruttore romano Caltagirone, alleato di ferro di Casini e del sindaco Alemanno. Quello che non è ancora chiaro – anzi decisamente torbido – è perché il futuro potente membro dell’autority delle acque spieghi i suoi piani a Lavitola, il trait d’union tra il sistema Tarantini e il presidente del Consiglio.

di Riccardo Gardel



Cuba, vaccino contro tumore polmoni.



Sviluppato in Centro immunologico Avana, migliora pazienti gravi.


(ANSA) - L'AVANA, 6 SET - Un vaccino terapeutico contro il cancro al polmone sarà commercializzato a breve a Cuba, dove i ricercatori stanno studiando la possibilità di una sua applicazione anche contro altre malattie oncologiche. Il prodotto, chiamato Cimavax-Egf, è stato sviluppato negli ultimi 15 anni dal Centro di Immunologia molecolare dell'Avana.

Secondo gli specialisti non può prevenire la malattia, ma migliora considerevolmente lo stato dei pazienti gravi.


martedì 6 settembre 2011

VALIDITA’ DELLA PAROLA DEMOCRAZIA. - di Ida Magli




La democrazia rappresentativa si regge su un solo principio: la validità della parola dei cittadini. I politici diventano nostri “rappresentanti”, esercitano il potere in nostro nome in quanto noi ve li abbiamo delegati tramite la nostra parola. In un sistema di potere democratico il patto fra governanti e cittadini si fonda esclusivamente sulla fiducia reciproca della “parola”, ma la reciprocità di questo patto non è simultanea: la parola dei governanti, la sua fiducia-validità dipende dalla fiducia-validità della parola dei cittadini.

Da lungo tempo i nostri politici hanno posto la scure alla base dell’albero della democrazia, forzando, travalicando, esautorando la “parola” iniziale che dà origine al loro potere: basterebbe a comprovarlo il modo con il quale è stata realizzata l’unificazione europea, quasi del tutto fuori dalla delega dei cittadini. Ieri, con la disinvolta decisione di “mettere in rete” le dichiarazioni dei redditi di tutti, è stato dato il colpo di grazia: il “patto” non esiste più perché i governanti hanno dichiarato che la parola dei cittadini non è valida, che la firma che essi appongono ai propri atti non ne garantisce la veridicità.

Sarà la “piazza” a farlo. Si tratta, insomma, di una decisione talmente fuori da qualsiasi ordinamento civile da far supporre (o almeno voglio sperarlo) che i governanti non si siano resi conto delle sue implicazioni, delle sue conseguenze. Un sistema politico, qualunque esso sia, anche non fondato sulla democrazia rappresentativa, se si libera delle proprie funzioni di regolamento e di controllo della legalità e della giustizia, consegnandole alla “piazza” (internet è appunto questo: la “piazza”), perde esso stesso ogni qualifica di civiltà, segnala l’approssimarsi di quello stato che un tempo chiamavamo “barbarie”, ma che in realtà si è più volte riprodotto nella nostra storia anche recente, nei momenti di massima angoscia collettiva e di massimo degrado delle istituzioni: quelli del “dopoguerra”.

Purtroppo le cose stanno proprio così: stiamo vivendo un momento di massima angoscia collettiva e di massimo degrado delle istituzioni, anche se sono pochi coloro che sembrano essersene accorti e che, soprattutto, lo denuncino. La stretta del “debito” ha coperto, o meglio è stata usata per giustificare e per coprire sia l’angoscia inespressa dei popoli che lo stravolgimento delle istituzioni. Con quest’ultimo gesto, però, anche la copertura è venuta meno. Il pungolo spietato dei banchieri non si nasconde più dietro ai politici, ma anzi si esibisce nella sua qualità di unico potere effettivo, al di là, al di sopra, di qualsiasi patto democratico. Non la parola dei cittadini, ma il denaro è il valore posto alla base del loro sistema di potere. Cosa naturalissima, ovviamente: sono loro ad amarlo sopra ogni altra cosa, loro a produrlo, loro a regolarne la gestione, ed è evidente che si sono convinti di non aver più bisogno di “coperture”: ai politici è stato lasciato esclusivamente il compito di assicurare l’esecuzione della loro volontà.

La “prigione per i debitori”, vecchio strumento medioevale, percepito già nei cosiddetti secoli bui come troppo incivile per poterlo sopportare, è ritornato. Il limite fissato in base alla ricchezza non ne cambia né il principio né il significato. Allora furono i predicatori popolari, proprio in Italia, rimasti unici “rappresentanti” del popolo e suoi difensori nel generale degrado del potere, a denunciarne la barbarie e a creare i Monti di Pietà pur di non consentirne la presenza. Oggi possiamo soltanto constatare che il pericolo della barbarie è sempre dietro l’angolo e che, se non ci sarà un soprassalto di dignità e di consapevolezza da parte di tutti, dobbiamo prepararci a vivere un nuovo secolo buio.

Ida Magli

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8927&mode=thread&order=0&thold=0


Com'è rossa la mia tangente. - di Paolo Biondani


Filippo Penati

Ora l'indagine su Penati punta dritta a uno 'steccone' di svariati milioni. Che sarebbe stato pagato dal gruppo Gavio per poter vendere a prezzo altissimo le azioni Milano-Genova alla Provincia.

Ci mancava solo la maxitangente rossa. L'accusa più grave partorita dall'inchiesta sul "sistema Penati" nasce da un affare che rischia di minare la credibilità politica della segreteria nazionale del Pd: una presunta corruzione di proporzioni imponenti, concordata nell'estate 2005 in "riunioni riservate", con versamenti proseguiti fino all'autunno 2008. Mazzette pluri-milionarie pagate dal gruppo Gavio, secondo i pm, per un'operazione da sempre chiacchierata: la vendita del 15 per cento dell'autostrada Milano-Serravalle, a un prezzo vantaggiosissimo per il privato, alla Provincia di Milano, quando presidente era Filippo Penati, indagato con il suo ex braccio destro Giordano Vimercati.

L'accusa è documentata nel decreto che ha portato la Guardia di finanza a perquisire gli uffici e i computer di un dirigente di Banca Intesa, indagato come presunto intermediario della corruzione. La Procura di Monza per ora non quantifica l'importo della maxitangente: l'unica certezza, per i pm, è che solo l'ultima rata è di due milioni tondi, ma la cifra totale sarebbe molto più alta, perché corrisponde a una percentuale dell'intero superprofitto ottenuto dal gruppo Gavio con l'affare Serravalle. La fetta destinata ai politici, insomma, di una torta economica da 176 milioni.

La nuova accusa si inserisce in una Tangentopoli locale che già insidia il partito a livello nazionale. Il giudice delle indagini, per cominciare, ha considerato "dimostrati numerosi e gravissimi fatti di corruzione posti in essere prima al Comune di Sesto e poi alla Provincia di Milano da Penati e Vimercati", che hanno evitato il carcere solo grazie alla legge berlusconiana sulla prescrizione (la ex Cirielli). E per il più ricco affare edilizio, sull'area ex Falck, il costruttore Giuseppe Pasini, seguito da suo figlio Luca e dal genero Diego Cotti, ha ammesso di aver dovuto pagare non solo i politici di Sesto, ma anche due emissari della cooperativa Ccc (2,4 milioni "per lavori mai eseguiti"), imposta da Penati e Vimercati "per garantire la parte romana del partito". Il tutto mentre resta da scoprire, come certifica il giudice, chi abbia intascato almeno 710 mila euro di tangenti sicuramente versate dall'immobiliarista Luigi Zunino e dal suo alleato Giuseppe Grossi per raddoppiare il cemento sempre sull'ex Falck. A questo punto i pm sospettano un "doppio binario di finanziamento: un primo flusso a Penati e Vimercati per la federazione milanese del partito e un secondo per il livello nazionale", attraverso le coop rosse.

I pm Walter Mapelli e Franca Macchia avrebbero voluto tenere segreta l'accusa di corruzione per l'affare Serravalle, che infatti non avevano inserito nella richiesta di arresti, coprendo con "omissis" anche i primi verbali depositati alle difese. Agli atti c'era solo un'ipotesi di finanziamento illecito al partito, che in Italia è un reato minore: due milioni versati nel 2008 da Bruno Binasco, manager del gruppo Gavio, all'imprenditore Piero Di Caterina, presunto tesoriere segreto di Penati per 15 anni e ora suo primo accusatore. L'importanza dell'affare Serravalle però non è sfuggita al gip, Anna Magelli, che potendo consultare i verbali integrali, ha inserito nell'ordinanza anche le prime rivelazioni sulla maxi-corruzione. A quel punto i pm hanno ordinato d'urgenza di perquisire l'unico indagato che si potesse ancora sperare di sorprendere: Maurizio Pagani, responsabile dell'area infrastrutture e trasporti per il gruppo Intesa. Nella sede della banca, la Guardia di finanza ha acquisito le carte e i documenti informatici sul prestito concesso proprio da Intesa alla Provincia di Milano per acquistare la quota di Gavio. Ora gli inquirenti stanno ricostruendo l'intero percorso di quel bonifico. Per verificare dove e a chi siano finiti i soldi pagati dall'ente pubblico guidato da Penati.

La magistratura aveva cominciato a indagare sulla Serravalle già nel 2004, quando presidente della Provincia era la berlusconiana Ombretta Colli. Nel mirino un ipotetico patto occulto per svendere il controllo dell'autostrada pubblica sempre al gruppo Gavio. Un'inchiesta demolita da una provvidenziale fuga di notizie, che fece saltare in extremis la consegna di una presunta busta di denaro a un assessore provinciale di destra. Prima di dover archiviare, la Guardia di finanza documenta indubbi "favoritismi illegittimi" concessi dalla giunta Colli al socio privato. E nel giugno 2004 registra in diretta le reazioni di Marcellino Gavio e Bruno Binasco ai risultati elettorali. A sorpresa, vince Penati con il 54 per cento. Persa la sponda di destra, Gavio cambia strategia: "Sto facendo un pensierino a vendere tutto per 4 euro", confida al fidato Binasco. Che gli risponde: "Sicuramente portiamo a casa dei bei soldi". Gavio: "E non facciam sangue cattivo, che questi ci fan diventar matti". Attenzione al prezzo: nel giugno 2004 Gavio, che aveva comprato a 2,9 euro per azione, si sarebbe accontentato di 4. E sembra ottimista: "Il problema non è Penati, con lui un accordo si trova".

Il 30 giugno 2004, tre giorni dopo le elezioni, Gavio viene intercettato al telefono con Pier Luigi Bersani, che oggi è il segretario nazionale del Pd. Per rispetto all'immunità, il colloquio non è trascritto, ma solo riassunto dal maresciallo. "Bersani dice a Gavio che ha parlato con Penati. Dice a Gavio di cercarlo per incontrarsi in modo riservato, tra una decina di giorni". Il 5 luglio il neopresidente chiama il re delle autostrade. Penati: "Buongiorno, mi ha dato il suo numero di telefono l'onorevole Bersani...". Gavio: "Sì, volevo fare due chiacchiere con lei quando possibile". Penati: "Beviamo un caffè". Quindi Gavio conferma al suo manager che "Bersani ha dato il via a incontrarsi in un luogo riservato", ma Penati "non decide niente".

Quando scoppia la polemica, Penati minimizza sia l'incontro che il ruolo di Bersani: "Io non conoscevo Gavio, Bersani sì, perché era stato ministro dei Trasporti. Tutto qui". In ballo, all'epoca, c'è solo la nomina del nuovo presidente della Serravalle. Ma il 29 luglio 2005, dopo mesi di trattative segrete, Penati annuncia l'acquisto della quota di Gavio. Prezzo pattuito: 8,8 euro ad azione, per un totale di 238 milioni lordi. Un affare che assicura al gruppo privato una plusvalenza da favola: 176 milioni netti.
Proprio qui si inseriscono le rivelazioni di Piero Di Caterina, l'imprenditore di Sesto che ha confessato di aver pagato tangenti a Penati e Vimercati, per appalti di trasporti e affari immobiliari, nell'arco di ben 15 anni, per un totale di almeno 3 milioni e mezzo. "Prestiti", come lui li definisce, che i due politici s'impegnavano a fargli restituire da "altri impreditori" da cui avrebbero "ottenuto tangenti". Tornando al 2005, l'accusatore spiega: "Mi fu detto da Penati, per convincermi ad aspettare, che di lì a poco sarebbero arrivate somme consistenti per l'affare Serravalle". "Mi sono incontrato con lui, credo, il giorno precedente alla notizia dell'acquisto della partecipazione". Di Caterina ignora l'importo della tangente, ma sa che "era molto rilevante, per milioni di euro" e fu calcolato come "percentuale del sovrapprezzo pagato dalla provincia per il pacchetto di maggioranza".

Alle "trattative riservate con il gruppo Gavio", aggiunge Di Caterina, avrebbe assistito anche Antonio Princiotta, segretario generale prima del comune di Sesto e poi della Provincia. Nove giorni dopo, l'imprenditore consegna ai pm "un foglio dattiloscritto consegnatomi da Princiotta nel marzo-aprile 2010 in un ristorante di Lugano, con il testo delle trattative". Sul retro, Di Caterina ha annotato a penna i nomi dei partecipanti "riferiti da Princiotta": "Lui, Vimercati, Binasco e un rappresentante di Banca Intesa, tal Pagani". Che "nello studio di un commercialista milanese" avrebbero "discusso sia dei profili palesi sia del sovrapprezzo da pagare a Penati e Vimercati".

Interrogato a Monza, Princiotta ora smentisce tutto. Come Penati. E come Vimercati, citato da Di Caterina come sua terza fonte. "Ho saputo da Vimercati che Penati lo avrebbe fregato nell'operazione Serravalle. E che Penati avrebbe ricevuto il suo guadagno a Montecarlo, Dubai e Sudafrica". Per questo "Penati e Vimercati hanno litigato", mentre "Princiotta si lamentava di non aver avuto nulla".
L'ultima rata della presunta maxi-tangente, a questo punto, sono i due milioni versati da Binasco, nel 2008, a Di Caterina. Mascherati da caparra per il mancato acquisto di un immobile. Sentendosi ancora in credito di un milione, nell'aprile 2010 Di Caterina scrive un'email minatoria, rivendica dal manager Binasco le "somme consistenti" versate al politico. Analizzando il caso, il giudice esclude il finanziamento illecito, ma solo perché non è certo che i due milioni siano finiti davvero al partito. Piuttosto, secondo il gip, quel regalo di Binasco a Di Caterina è "l'indizio principe" dei rapporti di corruzione con Penati. Anche perché la lettera minatoria risulta "ricevuta dai destinatari", ma nessuno ha risposto: neppure Penati ha fatto "contestazioni di sorta".

Per i pm di Monza ci sono fin d'ora "gravi indizi di illiceità nell'operazione Serravalle". Già la Corte dei conti aveva contestato a Penati di aver versato a Gavio "almeno 76 milioni in più del prezzo di mercato". Il giudizio sull'inchiesta ora spetta al tribunale del riesame: i pm chiedono il carcere per Penati e Vimercati, ipotizzando la concussione (non prescritta), mentre i due arrestati, l'ex assessore Di Leva e l'architetto Magni, invocano la libertà. Ad onore di Penati va registrato un impegno che lo differenzia da plotoni di inquisiti del Pdl: "Non mi nasconderò dietro la prescrizione o leggi ad personam". E intanto Di Caterina, circondato dai suoi bus tra i capannoni della Caronte trasporti a Sesto, si sente "un compagno che lotta per la legalità": "Io non ho attaccato i comunisti, ma i ladri".



Nessuno manovra per la crescita. - di Fabrizio Onida


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sollecitato il gotha di Cernobbio a preoccuparsi non solo del vincolo del debito pubblico, ma anche delle mancate riforme per rilanciare produttività e crescita. La Confindustria ha giudicato l'ultima versione della manovra «debole e inadeguata», invitando il Governo a «ridurre le tasse su chi produce (lavoratori e imprese)» spostando il carico su tutto il resto «nulla escluso» (Il Sole 24 Ore del 2 settembre).

In effetti dov'è finita la "scossa" promessa qualche mese fa da Berlusconi per contrastare il pauroso prolungato ristagno dell'economia? Eppure senza stimoli alla crescita la manovra di aggiustamento dei nostri conti pubblici rischia di fallire miseramente per mancanza di credibilità.

Vanno benissimo le "riforme strutturali", purtroppo solo annunciate, come liberalizzazione dei servizi professionali, privatizzazioni di alcuni servizi pubblici locali, semplificazione amministrativa, allungamento dell'età di pensione di vecchiaia, promozione delle energie alternative: ma quasi tutti questi interventi sono privi di effetti sull'economia reale nell'immediato orizzonte temporale e quindi sul rilancio della crescita.

È possibile immaginare una manovra di "rigore e crescita", in cui accanto ai tagli di spesa pubblica e temporanei maggiori prelievi su redditi e patrimoni medio-alti (necessari!) vi sia una combinazione d'interventi capaci di agire contemporaneamente come stimolo alla domanda e all'offerta? Sì, una manovra che poggi su vari strumenti capaci di stimolare reddito e occupazione agendo su entrambi i lati della domanda e dell'offerta.

1) Come già proposto da Prometeia e altri, sgravi contributivi in busta paga e/o parziale riduzione dell'Irap finanziati con innalzamento di aliquote Iva. Le imprese sarebbero incoraggiate a creare nuovi posti di lavoro regolari (non in nero), mentre il maggior reddito disponibile dei lavoratori, solo molto parzialmente neutralizzato dai modesti rincari di prezzi dovuti all'Iva in questa fase di congiuntura depressa, agirebbe da spinta ai consumi. Incidentalmente, dato il rimborso Iva alle esportazioni ma la sua piena traslazione sui prezzi all'importazione, la manovra avrebbe effetti favorevoli sulle esportazioni nette e dunque sul Pil.

2) Sgravi fiscali permanenti, almeno fino all'uscita dalla fase peggiore della crisi, sull'assunzione di giovani, al Sud come al Centro-Nord: di nuovo un efficace incentivo alle aziende sane (che fanno profitti tassabili) a ridurre la disoccupazione giovanile, con effetto neutrale se non positivo sul gettito fiscale complessivo.

3) Rilancio da parte degli enti locali (in esenzione dal patto di stabilità) delle tante piccole-medie opere infrastrutturali (strade, trasporti, acqua, edilizia popolare e scolastica, ecc.) il cui stallo continua a penalizzare imprese e cittadini.

4) Accelerazione di alcuni grandi programmi infrastrutturali (banda larga in primis) con effetti positivi immediati sulla domanda d'investimenti e sui redditi (anche nell'indotto), ma in prospettiva anche sull'offerta (rimozione di molte strozzature e costi per le imprese). Alcuni studi della Banca mondiale (Cambini su La Voce.info del 2 settembre) stimano un moltiplicatore di queste spese sul Pil dell'1-1,5% all'anno.

5) Un'azione forte del Governo sui sindacati (tutti!) per favorire con appropriati incentivi fiscali la negoziazione collettiva di "salari di produttività", con effetti favorevoli indubbi sulla competitività basata sui costi del lavoro, che ormai da un decennio ci vede perdere terreno rispetto all'Europa.

6) Un programma decisamente più massiccio di sostegno pubblico (crediti d'imposta e finanziamenti diretti) a grandi programmi d'innovazione tecnologica nelle grandi filiere in cui giocano i vantaggi competitivi dell'industria italiana in molte nicchie a media e alta tecnologia. Si tratta, come ormai chiesto anche da Confindustria, di sostituire incentivi a pioggia di dubbia efficacia (come mostrano diversi studi microeconomici della Banca d'Italia) con un radicale rilancio di programmi come Industria 2015, unica iniziativa coraggiosamente disegnata più di cinque anni fa sulla scia dei "programmi strategici" (nulla a che fare con antichi e fallimentari "piani di settore") e poi colpevolmente mutilata.

Da anni Germania, Francia, Regno Unito, Olanda inducono aggregazione di grandi, medie e piccole imprese intorno a progetti di lungo respiro, nel contesto favorevole del Programma quadro della Ue, con approccio "bottom up" e senza assurde procedure come il "click day". Il premio Nobel Edmund Phelps ha suggerito anche in Italia una "banca dell'innovazione" sul modello israeliano. Anche con strumenti simili, oltre che con il "Fondo strategico" da poco varato da ministero dell'Economia e delle Finanza e Cassa depositi e prestiti, si possono incoraggiare le tanto sbandierate "reti di impresa", inclusi i 700 (!) "distretti hi-tech" ricordati nella Giornata della ricerca di Confindustria (Il Sole 24 Ore dell'11 luglio). Rilanciare la crescita combattendo il nanismo delle imprese: si può!

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-06/nessuno-manovra-crescita-063942.shtml?uuid=AanYJt1D