Se esiste un caso Tremonti, ha un corollario. È l'idea che finora ha "disegnato", nell'ambito delle politiche economiche, il concetto di sviluppo e di crescita. E, per questa via, anche i poteri e il raggio d'azione del ministero ad esso preposto (lo Sviluppo economico, appunto) e degli altri dicasteri orientati alle misure per l'avanzamento economico del Paese.
Poteri sempre meno, risorse quasi zero.
Una china che ha portato al progressivo deterioramento della portata strategica delle idee di rilancio dell'azione economica, anche se a costo zero.
L'idea che la manovra da 54 miliardi ha degli investimenti nella banda larga è emblematica di una intera cultura di governo. I pochi fondi ancora destinati all'ammodernamento delle reti tecnologiche di base (con l'obiettivo di colmare il digital divide italiano) sono la prima voce di "garanzia" nel caso in cui venisse a mancare il gettito previsto per l'incremento dell'Iva o se non funzionassero i tagli ai ministri. Basta questa clausola di salvaguardia contabile a rendere quel "tesoretto", destinato in apparenza allo sviluppo, una voce solo virtuale e non spendibile.
È questa la considerazione di fondo nel Governo per gli investimenti nella modernità. Piccoli bluff, come questo del fondo per la banda larga, e grandi bluff come la conclamata azione di revisione costituzionale dell'articolo 41, in nome del "tutto è permesso tranne ciò che sia espressamente vietato", la madre di tutte le liberalizzazioni che altro non produrrebbe se non una marea di "leggi di divieto", con buona pace delle semplificazioni.
È in atto – per dirla con parola tristemente in voga – un downgrading del peso politico di quei ministri e di quelle azioni volte alla crescita, creato, giorno dopo giorno, in nome di una doverosa ma ambigua preoccupazione per il rigore nei conti. Le idee – dalla più incisiva riforma delle pensioni, con l'obiettivo di superare quelle di anzianità, alla spinta alle liberalizzazioni soprattutto dei servizi locali, regno del socialismo municipale; dall'attenzione alla ricerca e alla diffusione di know how tecnologico tra università e imprese alla messa in atto delle infrastrutture sempre invocate, ma mai cantierate – ancora una volta trovano sede di discussione nei molti tavoli aperti con le parti sociali.
Si tratta di altrettanti argomenti proposti e riproposti in altre stagioni, quando ci sarebbero state anche più risorse – nel rispetto del rigore finanziario – per poterle far attecchire. Ora è alto il rischio che questa riedizione dell'azione riformatrice sia un colpo d'immagine per dare un belletto a un Esecutivo dilaniato dalle polemiche e incerto nelle alleanze.
L'inchiesta pubblicata a pagina 2 e 3 dimostra che la strada dello sviluppo è lastricata di incompiute, di mezze riforme, di riformine, di ripicche tra ministri e di tira-e-molla sulle risorse. Con un'idea sfuocata su quale debba essere il Paese tra 10 anni e dove l'Italia debba indirizzare le sue eccellenze e i suoi talenti nel futuro medio lungo.
Il recente passato ha triturato Industria 2015 e il suo corredo di 600 milioni di euro per i settori innovativi, lo Statuto dell'impresa e il riordino degli incentivi, la revisione della rete di assistenza per l'export, la legge annuale sulla concorrenza (mai varata). E ancora i crediti d'imposta al Sud, gli stessi fondi Fas destinati al Mezzogiorno.
Di energia non si parla in modo organico e razionale da anni: si giocano partite un po' casuali sugli incentivi, si guarda poco ai grandi temi come sono i protocolli europei, ma anche ai piccoli temi come sarebbe stato un piano casa ben calibrato con le regioni per arrivare all'efficienza energetica e al risparmio sui consumi.
È noto che il rilancio di un'economia e di un intero Paese non si fa per decreto. Ma con riforme serie di struttura dal welfare, al fisco alla pubblica amministrazione come Il Sole 24 Ore chiede da tempo nel suo Manifesto per la crescita, Manifesto mutuato in gran parte anche dalle parti sociali, pronte a rilanciare con forza i temi delle riforme.
Ora la casa brucia, i mercati ci attaccano quotidianamente in nome di una crisi di fiducia e credibilità e, nostro tramite, attaccano l'euro e l'Europa tutta. Il Paese è smarrito e assiste, un po' assuefatto un po' impotente, all'imbarbarimento del costume pubblico, al degrado della vita istituzionale cui solo l'alto magistero del Quirinale cerca quotidianamente di porre freno con gli atti e con lo stile.
Nel sentire comune dei tecnici della finanza globale la traslazione tra Italia e Grecia è quasi nelle cose: ma è un errore marchiano che non considera i fondamentali di un'economia manifatturiera di eccellenza, di un'industria che esporta nel mondo un intero stile di vita, di un patrimonio di intelletti e di saperi, oggetto di una diaspora che deve far pensare tutti. Per primo chi mette a punto la politica economica.
Con la casa in fiamme, il Governo corre ai ripari e riunisce quelle energie che non ha finora voluto considerare; ripropone quelle ricette finora disconosciute con alterigia; chiede un'impossibile supplenza a un'autorevolezza persa e irrecuperabile. Più passano le ore, più sembra tardi.