"Living Architecture", ovvero come trasformare i nostri edifici in strutture dinamiche capaci di parlare con l'ambiente. A colpi di protocellule, alghe e altre tecnologie viventi. La road map nel libro di Rachel Armstrong.
UNA CITTÀ i cui edifici siano dipinti di protocellule, sistemi chimici "quasi viventi" in grado di sentire il loro ambiente. Palazzi che si fanno più forti con il passare del tempo, adattandosi alle bizzarrie di una Terra che abbiamo reso sempre più instabile. E ancora: muri capaci di assorbire anidride carbonica e trasformarla in una seconda pelle di carbonato minerale, con benefici per l'atmosfera e la struttura in sé. È così che Rachel Armstrong, docente di architettura alla University College London, immagina il futuro delle nostre città: oggi "deserti di cemento", domani (forse) sistemi dinamici più "simili alla vita". Le sue idee sono raccolte in "Living Architecture" 2, libro-manifesto dell'architettura vivente e vademecum della biologia sintetica applicata al settore edilizio. Repubblica.it l'ha incontrata per farsi raccontare i passaggi di questa sperata rivoluzione copernicana.
LE IMMAGINI 3
Oltre l'acciaio e il cemento. Il libro, pubblicato da TED, prende il via da uno dei giorni più terribili della storia recente: l'11 marzo del 2011, quando il Giappone fu scosso dal terremoto e dal successivo tsunami che distrussero l'area di Sendai. Più di 23.000 morti, 80.000 profughi, un disastro il cui costo è stato stimato attorno ai 3,2 miliardi di dollari. Per Armstrong, questa tragedia ci ha mostrato una volta per tutte che, malgrado la preparazione e le nuove tecnologie, la nostra capacità di rispondere alle sfide estreme della natura è maledettamente limitata. La regione è così diventata un caso di studio per lo sviluppo di un nuovo approccio alla costruzione, "un approccio - spiega la ricercatrice - in cui l'architettura è chiamata a svolgere un ruolo più intelligente e responsabile verso l'ambiente".
"L'architettura - continua Armstrong - potrebbe reagire diversamente alle sfide ambientali se solo le nostre case e le nostre città fossero dotate di alcune delle proprietà dinamiche che caratterizzano i sistemi viventi". Per arrivarci, però, è necessario cambiare il nostro modo di concepire le costruzioni. "Oggi tutti gli edifici sono disegnati e costruiti allo stesso modo. Sono il prodotto di processi industriali dannosi per l'ambiente: basti pensare che il settore edilizio è responsabile del 40% delle emissioni globali di anidride carbonica, un'impronta di CO2 addirittura maggiore di quella dei trasporti". Gli architetti e i designer stanno dunque iniziando a immaginare un paradigma in cui l'acciaio e il cemento non debbano per forza essere i materiali principali. La domanda può sembrare paradossale, ma a ben vedere un suo fondamento ce l'ha: "In quanto esseri viventi - si chiede la Armstrong - siamo sicuri che sia giusto vivere dentro habitat morti?".
Tra architettura e biologia: i precedenti. In alcuni contesti locali, l'integrazione tra architettura e sistemi biologici è già realtà. Senza scomodare le toilette in legno di bambù, uno degli esempi più famosi si trova a Cherrapunji, nel nordest dell'India. Qui gli abitanti hanno imparato a "guidare" le radici del Ficus elastica (anche detto fico del caucciù) per costruire ponti capaci di reggere il peso di 50 persone e raggiungere i 30 metri di lunghezza. "Il problema - spiega Armstrong - è come applicare questi principi all'architettura in generale e ai contesti urbani in particolare. Oggi le nostre città somigliano a dei deserti di cemento, dove l'elemento biologico resiste o è appositamente inserito, ma sempre con funzioni marginali".
La strada ci è già stata mostrata da alcuni pionieri dell'architettura ispirata alla vita, come Richard Buckminster Fuller e Antoni Gaudí. Quest'ultimo, nella costruzione della Sagrada Familía, lasciò che l'argilla prendesse forme primordiali, modellandosi sotto la forza di gravità e secondo la chimica della materia. In questo modo invertì l'ordine del processo di costruzione, dando alla materia la facoltà di "scegliere" la sua forma. In tempi più recenti altri esempi di "biomimicry" (innovazioni ispirate dalla natura) ci vengono dal MUSCLE (al Centre Pompidou di Parigi) e dal Times Eureka Pavilion (parte del Chelsea Flower Show 2011 di Londra). Così come dai muri viventi di Patrick Blanc, sempre a Parigi: 15.000 piante di 150 specie che si estendono dal marciapiede alla terrazza del Museé du Quai Branly, forse il più verde del mondo.
La tecnologia come sistema vivente. Per quanto ancora agli albori, Armstrong è convinta che un cambio di mentalità sia tutt'altro che impossibile. "Oggi stiamo iniziando a capire che la tecnologia può possedere alcune delle proprietà dei sistemi viventi", ci racconta. A catalizzare questa rivoluzione è la biologia sintetica, nuova branca delle scienze biologiche il cui sviluppo si deve ai progressi delle biotecnologie negli ultimi trent'anni. Progressi che hanno permesso alla biologia di trasformarsi da una disciplina fondamentalmente descrittiva a una scienza capace di "immaginare e costruire nuovi sistemi viventi".
Arrivati fin qui, il salto alla "Living Architecture" è breve: "Applicando all'architettura i principi della biologia sintetica, le nostre strutture potrebbero diventare oggetti viventi capaci di intrattenere relazioni dinamiche con l'ambiente". Piuttosto che rimanere inerti, insomma, gli edifici potrebbero adattarsi per rispondere alle stagioni, come fanno i parchi e i giardini, sviluppando una loro "sensibilità" al mutare degli elementi.
Tutti i poteri delle protocellule. Uno degli approcci della biologia sintetica consiste nella creazione di sistemi chimici protoviventi, come ad esempio le cosiddette protocellule. Si tratta - spiega la ricercatrice - di sistemi chimici privi di DNA ma capaci di assemblarsi da soli. Il bello di questi sistemi è che sorgono spontaneamente quando si mischia una sostanza oleosa a una soluzione alcalina. Dall'unione di questi due elementi si genera un'entità capace di muoversi, percepire l'ambiente e produrre microstrutture (VIDEO).
Obiettivo dei sostenitori dell'architettura vivente è dare a questi sistemi il diritto di cittadinanza nei materiali edili del futuro. La ricercatrice è in prima fila in questa battaglia: "Le protocellule permettono di immaginare nuove soluzioni di design e architettura", sostiene. "Questi microsistemi possono essere impiegati nello sviluppo di materiali e metodologie di design in ambienti complessi, offrendo un ponte tra il design fatto dall'uomo e il mondo naturale". E poiché le protocellule possono essere programmate, è anche possibile dotarle del potere di agire positivamente su un determinato ambiente, riducendo l'impatto negativo dell'intera costruzione.
Un progetto per Venezia. Per funzionare, le protocellule hanno bisogno di un mezzo oleoso o dell'acqua, un aspetto che le ha rese particolarmente interessanti per risolvere i problemi di Venezia. La città, infatti, potrebbe dover intraprendere un "sollevamento forzato" di 30 centimetri, così da guadagnare un po' di terreno rispetto alle alte maree e all'innalzamento del livello del mare. Tale operazione (che verrebbe praticata "gonfiando" le falde acquifere) farebbe però emergere dall'acqua le cataste di legno su cui poggia la città, esponendole all'aria e, di fatto, al rischio di decomposizione. Per questo l'Unione Europea ha finanziato un progetto di ricerca 4 il cui compito consiste, appunto, nel valutare la fattibilità di un simile scenario.
È qui che, secondo il gruppo di Armstrong, le tecnologie viventi potrebbero fare la differenza. "Le protocellule - spiega la ricercatrice - potrebbero creare uno strato protettivo capace di impedire la decomposizione del legno o addirittura favorirne la pietrificazione. Basterebbe aggiungere alle protocellule due reazioni chimiche: la prima di avversione alla luce, la seconda di fissaggio del carbonio, per consentire alle gocce di creare, usando i minerali nell'acqua e l'anidride carbonica disciolta, un livello di carbonato che vada a coprire direttamente le pile di legno. La forza di questo sistema è che funzionerebbe in maniera dinamica, ossia adattandosi al livello dell'acqua, alle correnti e alla vita marina".
Pitture viventi e scenari futuri. Una delle applicazioni più promettenti delle protocellule consiste però nelle "pitture intelligenti", vernici fatte di protocellule che possono assorbire l'anidride carbonica e formare carbonato inorganico. Questi rivestimenti potrebbero aumentare la capacità di isolamento termico degli edifici, migliorando così la loro efficienza energetica. Alcune aziende di vernici stanno avviando progetti di ricerca in questo senso, nella convinzione che nell'arco dei prossimi 5-10 anni le prime "pitture viventi" saranno già in commercio.
Ma le protocellule non sono le sole a trainare l'avanzata dell'architettura vivente. Le alghe, ad esempio, diventeranno presto una componente abituale di diverse tecnologie 5. In questo caso, non si tratta tanto di costruire particolari performance cellulari, quanto piuttosto di inserirle nello spazio e nel tempo del contesto architettonico. Altre tecnologie su cui si punta molto sono i batteri bioluminiscenti, che verosimilmente rimpiazzeranno alcuni aspetti della nostra illuminazione esterna e domestica, una strada su cui sta lavorando anche la Philips 6. Alla domanda su se non stia guardando troppo in là, viste le condizioni non proprio smaglianti in cui versa l'economia mondiale, Armstrong risponde con un sorriso e citando uno dei suoi maestri, il poliedrico architetto futurista R. Buckminster Fuller. "Non è combattendo la realtà esistente che si cambiano le cose. Per cambiare qualcosa, è necessario costruire un nuovo modello che renda obsoleto quello esistente".
(http://architettura24.com/archives/110)
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Oltre l'acciaio e il cemento. Il libro, pubblicato da TED, prende il via da uno dei giorni più terribili della storia recente: l'11 marzo del 2011, quando il Giappone fu scosso dal terremoto e dal successivo tsunami che distrussero l'area di Sendai. Più di 23.000 morti, 80.000 profughi, un disastro il cui costo è stato stimato attorno ai 3,2 miliardi di dollari. Per Armstrong, questa tragedia ci ha mostrato una volta per tutte che, malgrado la preparazione e le nuove tecnologie, la nostra capacità di rispondere alle sfide estreme della natura è maledettamente limitata. La regione è così diventata un caso di studio per lo sviluppo di un nuovo approccio alla costruzione, "un approccio - spiega la ricercatrice - in cui l'architettura è chiamata a svolgere un ruolo più intelligente e responsabile verso l'ambiente".
"L'architettura - continua Armstrong - potrebbe reagire diversamente alle sfide ambientali se solo le nostre case e le nostre città fossero dotate di alcune delle proprietà dinamiche che caratterizzano i sistemi viventi". Per arrivarci, però, è necessario cambiare il nostro modo di concepire le costruzioni. "Oggi tutti gli edifici sono disegnati e costruiti allo stesso modo. Sono il prodotto di processi industriali dannosi per l'ambiente: basti pensare che il settore edilizio è responsabile del 40% delle emissioni globali di anidride carbonica, un'impronta di CO2 addirittura maggiore di quella dei trasporti". Gli architetti e i designer stanno dunque iniziando a immaginare un paradigma in cui l'acciaio e il cemento non debbano per forza essere i materiali principali. La domanda può sembrare paradossale, ma a ben vedere un suo fondamento ce l'ha: "In quanto esseri viventi - si chiede la Armstrong - siamo sicuri che sia giusto vivere dentro habitat morti?".
Tra architettura e biologia: i precedenti. In alcuni contesti locali, l'integrazione tra architettura e sistemi biologici è già realtà. Senza scomodare le toilette in legno di bambù, uno degli esempi più famosi si trova a Cherrapunji, nel nordest dell'India. Qui gli abitanti hanno imparato a "guidare" le radici del Ficus elastica (anche detto fico del caucciù) per costruire ponti capaci di reggere il peso di 50 persone e raggiungere i 30 metri di lunghezza. "Il problema - spiega Armstrong - è come applicare questi principi all'architettura in generale e ai contesti urbani in particolare. Oggi le nostre città somigliano a dei deserti di cemento, dove l'elemento biologico resiste o è appositamente inserito, ma sempre con funzioni marginali".
La strada ci è già stata mostrata da alcuni pionieri dell'architettura ispirata alla vita, come Richard Buckminster Fuller e Antoni Gaudí. Quest'ultimo, nella costruzione della Sagrada Familía, lasciò che l'argilla prendesse forme primordiali, modellandosi sotto la forza di gravità e secondo la chimica della materia. In questo modo invertì l'ordine del processo di costruzione, dando alla materia la facoltà di "scegliere" la sua forma. In tempi più recenti altri esempi di "biomimicry" (innovazioni ispirate dalla natura) ci vengono dal MUSCLE (al Centre Pompidou di Parigi) e dal Times Eureka Pavilion (parte del Chelsea Flower Show 2011 di Londra). Così come dai muri viventi di Patrick Blanc, sempre a Parigi: 15.000 piante di 150 specie che si estendono dal marciapiede alla terrazza del Museé du Quai Branly, forse il più verde del mondo.
La tecnologia come sistema vivente. Per quanto ancora agli albori, Armstrong è convinta che un cambio di mentalità sia tutt'altro che impossibile. "Oggi stiamo iniziando a capire che la tecnologia può possedere alcune delle proprietà dei sistemi viventi", ci racconta. A catalizzare questa rivoluzione è la biologia sintetica, nuova branca delle scienze biologiche il cui sviluppo si deve ai progressi delle biotecnologie negli ultimi trent'anni. Progressi che hanno permesso alla biologia di trasformarsi da una disciplina fondamentalmente descrittiva a una scienza capace di "immaginare e costruire nuovi sistemi viventi".
Arrivati fin qui, il salto alla "Living Architecture" è breve: "Applicando all'architettura i principi della biologia sintetica, le nostre strutture potrebbero diventare oggetti viventi capaci di intrattenere relazioni dinamiche con l'ambiente". Piuttosto che rimanere inerti, insomma, gli edifici potrebbero adattarsi per rispondere alle stagioni, come fanno i parchi e i giardini, sviluppando una loro "sensibilità" al mutare degli elementi.
Tutti i poteri delle protocellule. Uno degli approcci della biologia sintetica consiste nella creazione di sistemi chimici protoviventi, come ad esempio le cosiddette protocellule. Si tratta - spiega la ricercatrice - di sistemi chimici privi di DNA ma capaci di assemblarsi da soli. Il bello di questi sistemi è che sorgono spontaneamente quando si mischia una sostanza oleosa a una soluzione alcalina. Dall'unione di questi due elementi si genera un'entità capace di muoversi, percepire l'ambiente e produrre microstrutture (VIDEO).
Obiettivo dei sostenitori dell'architettura vivente è dare a questi sistemi il diritto di cittadinanza nei materiali edili del futuro. La ricercatrice è in prima fila in questa battaglia: "Le protocellule permettono di immaginare nuove soluzioni di design e architettura", sostiene. "Questi microsistemi possono essere impiegati nello sviluppo di materiali e metodologie di design in ambienti complessi, offrendo un ponte tra il design fatto dall'uomo e il mondo naturale". E poiché le protocellule possono essere programmate, è anche possibile dotarle del potere di agire positivamente su un determinato ambiente, riducendo l'impatto negativo dell'intera costruzione.
Un progetto per Venezia. Per funzionare, le protocellule hanno bisogno di un mezzo oleoso o dell'acqua, un aspetto che le ha rese particolarmente interessanti per risolvere i problemi di Venezia. La città, infatti, potrebbe dover intraprendere un "sollevamento forzato" di 30 centimetri, così da guadagnare un po' di terreno rispetto alle alte maree e all'innalzamento del livello del mare. Tale operazione (che verrebbe praticata "gonfiando" le falde acquifere) farebbe però emergere dall'acqua le cataste di legno su cui poggia la città, esponendole all'aria e, di fatto, al rischio di decomposizione. Per questo l'Unione Europea ha finanziato un progetto di ricerca 4 il cui compito consiste, appunto, nel valutare la fattibilità di un simile scenario.
È qui che, secondo il gruppo di Armstrong, le tecnologie viventi potrebbero fare la differenza. "Le protocellule - spiega la ricercatrice - potrebbero creare uno strato protettivo capace di impedire la decomposizione del legno o addirittura favorirne la pietrificazione. Basterebbe aggiungere alle protocellule due reazioni chimiche: la prima di avversione alla luce, la seconda di fissaggio del carbonio, per consentire alle gocce di creare, usando i minerali nell'acqua e l'anidride carbonica disciolta, un livello di carbonato che vada a coprire direttamente le pile di legno. La forza di questo sistema è che funzionerebbe in maniera dinamica, ossia adattandosi al livello dell'acqua, alle correnti e alla vita marina".
Pitture viventi e scenari futuri. Una delle applicazioni più promettenti delle protocellule consiste però nelle "pitture intelligenti", vernici fatte di protocellule che possono assorbire l'anidride carbonica e formare carbonato inorganico. Questi rivestimenti potrebbero aumentare la capacità di isolamento termico degli edifici, migliorando così la loro efficienza energetica. Alcune aziende di vernici stanno avviando progetti di ricerca in questo senso, nella convinzione che nell'arco dei prossimi 5-10 anni le prime "pitture viventi" saranno già in commercio.
Ma le protocellule non sono le sole a trainare l'avanzata dell'architettura vivente. Le alghe, ad esempio, diventeranno presto una componente abituale di diverse tecnologie 5. In questo caso, non si tratta tanto di costruire particolari performance cellulari, quanto piuttosto di inserirle nello spazio e nel tempo del contesto architettonico. Altre tecnologie su cui si punta molto sono i batteri bioluminiscenti, che verosimilmente rimpiazzeranno alcuni aspetti della nostra illuminazione esterna e domestica, una strada su cui sta lavorando anche la Philips 6. Alla domanda su se non stia guardando troppo in là, viste le condizioni non proprio smaglianti in cui versa l'economia mondiale, Armstrong risponde con un sorriso e citando uno dei suoi maestri, il poliedrico architetto futurista R. Buckminster Fuller. "Non è combattendo la realtà esistente che si cambiano le cose. Per cambiare qualcosa, è necessario costruire un nuovo modello che renda obsoleto quello esistente".
(http://architettura24.com/archives/110)