A margine dell’udienza di stamane (Ciancimino: la difesa deposita una consulenza sull’esplosivo) Antimafia Duemila ha incontrato Massimo Ciancimino.
Dopo mesi da quando gli è stata ridotta la libertà con il carcere, concessi i domiciliari ed infine obbligato alla dimora a Palermo (previa autorizzazione può comunque muoversi oltre i confini siciliani) per l’accusa di detenzione illegale di esplosivo e calunnia aggravata nei confronti dell’attuale direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gianni De Gennaro, questa è la sua prima apparizione pubblica ufficiale come imputato.
Dopo mesi da quando gli è stata ridotta la libertà con il carcere, concessi i domiciliari ed infine obbligato alla dimora a Palermo (previa autorizzazione può comunque muoversi oltre i confini siciliani) per l’accusa di detenzione illegale di esplosivo e calunnia aggravata nei confronti dell’attuale direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gianni De Gennaro, questa è la sua prima apparizione pubblica ufficiale come imputato.
Gli chiediamo conto degli episodi che lo hanno visto perdere tragicamente quota sul fronte della fifducia agli occhi dell’opinione pubblica per circostanze ancora tutte da chiarire in merito all’esplosivo, alla lettera contraffatta che accusa De Gennaro di infedeltà e ai suoi legami con un commercialista indagato dalla Procura di Reggio Calabria poiché ritenuto collegato ai Piromalli. Tutte questioni più che aperte su cui i magistrati stanno indagando attraverso procedimenti separati.
Ciancimino articola il suo discorso partendo dai mesi trascorsi in carcere lo scorso anno segnalando un paradosso: protetto da detenuto e poi "mollato" da uomo libero.
Racconta che quando dalla sua cella si dirigeva nella stanza del vitto e poi in quella adibita a palestra lo accompagnavano incappucciato lungo il corridoio della prigione. L’isolamento sarebbe stato una precauzione usata dalla Polizia penitenziaria per proteggerlo da possibili ritorsioni mafiose all’interno dalla prigione palermitana Pagliarelli. Così come per i collaboratori di giustizia o per i grandi capimafia, un’ala sarebbe stata riservata soltanto a lui, seppure il figlio di don Vito non sia stato mai ritenuto né l’uno né l’altro. Cautele evidentemente adottate per un testimone di giustizia del tutto particolare, un po’ creduto, un po’ sconfessato ma pur sempre unico teste della trattativa mafia – stato fra i carabinieri del Ros e i vertici di Cosa Nostra in quella stagione di stragi e omertà politica del 1992.
Un capitolo investigativo, che secondo il rapporto della Direzione nazionale antimafia, “ha tratto ulteriore impulso” proprio “a seguito delle numerose dichiarazioni rese, a decorrere dal febbraio del 2008, dal Ciancimino” nonostante, afferma sempre la Dna, le sue dichiarazioni si siano dimostrate “molto spesso insuscettibili di riscontro ovvero riscontrate negativamente”. Di fatto c’è però che da quando Massimo Ciancimino ha iniziato a raccontare i retroscena di quelle fasi di dialogo a ridosso delle stragi del ’92 misteriosamente politici, segretari e carabinieri hanno trovato il coraggio di riferire circostanze inedite, togliendo definitivamente l’indagine dall’empasse derivata dall’apporto a senso unico delle dichiarazioni del gen. Mori e del col. De Donno. La Dna non ha scritto le ragioni su cui ha fondato le sue divergenti conclusioni ma è evidente che ha attinto al giudizio negativo attribuito al teste dalle Procure di Caltanissetta e Palermo rispetto alle dichiarazioni sull’uomo dei servizi segreti in contatto col padre legato, secondo Ciancimino jr., all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Una dichiarazione che gli ha procurato l’accusa di calunnia aggravata e il carcere, soprattutto in seguito alla consegna di un appunto ritenuto dalla scientifica di Roma rimaneggiato. Oggi Massimo Ciancimino vive nella sua casa di Palermo, gli sono state tolte scorta e auto blindata, “adesso – ironizza nei corridoi del Tribunale - vado in giro con l’Ape”.
Il figlio di don Vito non perde la sua verve, “in carcere – continua - mi hanno trattato come un collaboratore di giustizia, adesso invece il lampeggiante posso metterlo sul mio veicolo a tre ruote”. Sorride ma ammette di aver fatto degli errori. Prima di tutto i 13 candelotti di dinamite recuperati dagli inquirenti nel suo giardino di via Torrearsa. “Sono stato io ad autodenunciarmi – spiega – avevo ricevuto a Bologna un pacco con l’esplosivo e una lettera minatoria con una foto di mio figlio scattata con un teleobiettivo dall’alto, mentre entrava nella blindata. Dicevano che non avrei dovuto dire niente altrimenti gli avrebbero fatto del male”. “Che avrei dovuto fare? Ho detto di averlo ricevuto a Palermo per non agitare mio suocero che è ammalato”. Così prima “l’ho nascosto dentro una busta, poi ho pensato di portarlo via, volevo buttarlo in mare durante la traversata mentre scendevo in Sicilia”. “Non sapevo che con l’acqua avrei potuto far detonare il meccanismo ma la mia scorta non mi perdeva di vista e così me lo sono portato fino a Palermo”. Nella lettera di cui parla Ciancimino jr. vi sarebbe pure un riferimento a Matteo Messina Denaro e ai soldi che questi avrebbe dovuto prendere dal padre per un appalto della società del metano. Massimo Ciancimino è convinto che le minacce non arrivino però solo da Cosa Nostra ma dall’ambiente dei “man in black” legati al padre, i quali costantemente controllerebbero le sue dichiarazioni. Raccontando la sua verità, il figlio di don Vito rimarca di aver detto tutto sulla trattativa e di rimanere dell’avviso che sia stato Provenzano ad aver consegnato Riina allo Stato attraverso “la mappa in cui il capomafia ha indicato la casa di via Bernini”. Carte che sarebbero state poi consegnate dallo stesso Ciancimino jr. ai carabinieri del Ros un mese prima dell’arresto del capo di Cosa Nostra. Dietro questa regia, Massimo sottolinea per l’ennesima volta il ruolo fondamentale esercitato dai servizi segreti vicino al famigerato Signor Franco. Anello di collegamento fra i vari poteri istituzionali che appoggiò la trattativa e il cambiamento politico di quegli anni, concordando con Provenzano la consegna di Riina e l’avvento della nuova pax con Cosa Nostra. Ma l’indagine sul signor Franco si è arenata clamorosamente dopo le varie esternazioni dello stesso teste durante i riconoscimenti a Caltanissetta e Palermo creando una confusione mediatica sul punto senza precedenti. L’incertezza mostrata da Massimo ai magistrati però si dissipa quando a noi dichiara: “Quel nome non lo farò mai, non ho riscontri per dimostrarlo, sarei un uomo morto se lo facessi e mio figlio potrebbe essere ucciso e anche i magistrati si troverebbero in difficoltà perché per sostenere certe tesi bisogna avere delle prove serie”. Non solo. Il figlio di don Vito va oltre sostenendo di averlo riconosciuto nelle foto segnaletiche della Procura e di non averlo indicato per paura di ciò che una simile affermazione avrebbe scatenato intorno alla sua famiglia. “Ho sorvolato sulla foto – ammette - ma “chi mi crederebbe?” e poi “avete visto cosa è successo quando ho fatto il nome di De Gennaro?” Per il teste della trattativa è impossibile continuare su questa linea e conferma “il nome del Signor Franco non lo farò ”. Il timore di trovarsi in un gioco troppo grande prende definitivamente il sopravvento sulle tante ragioni per raccontare la verità. E questo perché il famoso Carlo – Franco sarebbe un uomo ancora molto potente, che circola all’interno delle Istituzioni fra le stanze del Quirinale e quelle degli altri organi statali, come un punto di collegamento di questo Sistema di potere. E oggi “con la discesa del Governo Monti è molto più visibile di prima” ci confida. Ragione di più per starsene zitti. Ma allora perché “suicidarsi” accusando l’ex collaboratore di Giovanni Falcone di appartenere a quell’ambiente con un documento falso? Scivola con le parole Massimo Ciancimino ma poi accenna a una polpetta avvelenata servitagli dall’entourage del Signor Franco puntualizzando, “mio padre aveva opinioni negative su di lui (De Gennaro, ndr) per cui quando mi viene consegnata la lista dei nomi col riferimento proprio a De Gennaro e il Signor Franco ho pensato fosse la verità”. Di fatti “esiste un pizzino ora nelle mani dei magistrati in cui mio padre scrive a Provenzano ‘il Sp (che starebbe a ‘superpoliziotto’) dice che sarebbe meglio vederci a casa mia’”. A me hanno fatto fare il carcere per il reato di calunnia aggravata. Luigi Bisignani invece ha patteggiato davanti al gip una pena a un anno e sette mesi di reclusione nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Gli erano stati contestati dieci reati tra cui l’associazione a delinquere, la tentata concussione e il favoreggiamento. Gli ricordiamo però che la sua credibilità ha iniziato a vacillare quando è stato intercettato nello studio di un commercialista attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria, per i suoi presunti rapporti con la 'Ndrangheta. “Ho fatto uno sbaglio questo lo so, ma sfido chiunque a dimostrare i miei rapporti con la mafia calabrese”, “non ho mai avuto nessun contatto con questa gente, volevo solo cambiare un assegno tramite una persona che fa questi favori. “Ho millantato perché il mio commercialista mi ha detto che Strangi si era terrorizzato a sapere chi ero io e quindi ho cercato di tranquillizzarlo sulla mia figura, in ogni caso non mi è mai arrivato nessun avviso d’indagine sulla vicenda”. Giustificazioni che saranno discusse nelle sedi competenti come quelle che tratteranno la detenzione illegale d’esplosivo. Una tappa giudiziaria che farà ancora parlare di lui sperando un giorno possa decidersi a fare il nome del burattinaio che ha garantito Cosa Nostra a eseguire l’attentato al giudice Borsellino 57 giorni dopo dalla morte di Giovanni Falcone, seguendo probabilmente anche l’operazione sulla sottrazione dell’agenda rossa dopo lo scoppio della bomba. Tasselli mancanti indispensabili per ottenere una verità giudiziaria e storica sul quadro delle alleanze fra poteri istituzionali deviati e criminalità organizzata di cui lo stesso don Vito faceva parte. E’ forse proprio in merito alla sua funzione all’interno di questo sistema che presenziò ad alcune riunioni in Svizzera dei Bilderberg e certo, afferma suo figlio, non come portavoce della Democrazia cristiana.
Mentre sta per salutarci Ciancimino si ferma, torna indietro e dice: "Non mi porterò segreti nella tomba".
A nostra domanda diretta: "Quindi lo farà il nome del signor Franco?"
"Sì, alla procura competente che ha di fatto l’indagine sulla trattativa. Il signor Ciancimino non morirà con quel segreto".
Antimafia Duemila è nata per cercare la verità sulle stragi del ’92 e sui mandanti occulti che le hanno decise. Massimo Ciancimino con i suoi errori (che in parte sta già pagando) e le sue scelte ha avuto il merito di aver fornito una delle “chiavi”, quella della trattativa, che potrebbe aprire la cassaforte dei delitti che uomini appartenenti allo Stato hanno commesso con la mafia. Per tale ragione noi, fino a prova contraria, continueremo ad ascoltarlo.
Ciancimino articola il suo discorso partendo dai mesi trascorsi in carcere lo scorso anno segnalando un paradosso: protetto da detenuto e poi "mollato" da uomo libero.
Racconta che quando dalla sua cella si dirigeva nella stanza del vitto e poi in quella adibita a palestra lo accompagnavano incappucciato lungo il corridoio della prigione. L’isolamento sarebbe stato una precauzione usata dalla Polizia penitenziaria per proteggerlo da possibili ritorsioni mafiose all’interno dalla prigione palermitana Pagliarelli. Così come per i collaboratori di giustizia o per i grandi capimafia, un’ala sarebbe stata riservata soltanto a lui, seppure il figlio di don Vito non sia stato mai ritenuto né l’uno né l’altro. Cautele evidentemente adottate per un testimone di giustizia del tutto particolare, un po’ creduto, un po’ sconfessato ma pur sempre unico teste della trattativa mafia – stato fra i carabinieri del Ros e i vertici di Cosa Nostra in quella stagione di stragi e omertà politica del 1992.
Un capitolo investigativo, che secondo il rapporto della Direzione nazionale antimafia, “ha tratto ulteriore impulso” proprio “a seguito delle numerose dichiarazioni rese, a decorrere dal febbraio del 2008, dal Ciancimino” nonostante, afferma sempre la Dna, le sue dichiarazioni si siano dimostrate “molto spesso insuscettibili di riscontro ovvero riscontrate negativamente”. Di fatto c’è però che da quando Massimo Ciancimino ha iniziato a raccontare i retroscena di quelle fasi di dialogo a ridosso delle stragi del ’92 misteriosamente politici, segretari e carabinieri hanno trovato il coraggio di riferire circostanze inedite, togliendo definitivamente l’indagine dall’empasse derivata dall’apporto a senso unico delle dichiarazioni del gen. Mori e del col. De Donno. La Dna non ha scritto le ragioni su cui ha fondato le sue divergenti conclusioni ma è evidente che ha attinto al giudizio negativo attribuito al teste dalle Procure di Caltanissetta e Palermo rispetto alle dichiarazioni sull’uomo dei servizi segreti in contatto col padre legato, secondo Ciancimino jr., all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Una dichiarazione che gli ha procurato l’accusa di calunnia aggravata e il carcere, soprattutto in seguito alla consegna di un appunto ritenuto dalla scientifica di Roma rimaneggiato. Oggi Massimo Ciancimino vive nella sua casa di Palermo, gli sono state tolte scorta e auto blindata, “adesso – ironizza nei corridoi del Tribunale - vado in giro con l’Ape”.
Il figlio di don Vito non perde la sua verve, “in carcere – continua - mi hanno trattato come un collaboratore di giustizia, adesso invece il lampeggiante posso metterlo sul mio veicolo a tre ruote”. Sorride ma ammette di aver fatto degli errori. Prima di tutto i 13 candelotti di dinamite recuperati dagli inquirenti nel suo giardino di via Torrearsa. “Sono stato io ad autodenunciarmi – spiega – avevo ricevuto a Bologna un pacco con l’esplosivo e una lettera minatoria con una foto di mio figlio scattata con un teleobiettivo dall’alto, mentre entrava nella blindata. Dicevano che non avrei dovuto dire niente altrimenti gli avrebbero fatto del male”. “Che avrei dovuto fare? Ho detto di averlo ricevuto a Palermo per non agitare mio suocero che è ammalato”. Così prima “l’ho nascosto dentro una busta, poi ho pensato di portarlo via, volevo buttarlo in mare durante la traversata mentre scendevo in Sicilia”. “Non sapevo che con l’acqua avrei potuto far detonare il meccanismo ma la mia scorta non mi perdeva di vista e così me lo sono portato fino a Palermo”. Nella lettera di cui parla Ciancimino jr. vi sarebbe pure un riferimento a Matteo Messina Denaro e ai soldi che questi avrebbe dovuto prendere dal padre per un appalto della società del metano. Massimo Ciancimino è convinto che le minacce non arrivino però solo da Cosa Nostra ma dall’ambiente dei “man in black” legati al padre, i quali costantemente controllerebbero le sue dichiarazioni. Raccontando la sua verità, il figlio di don Vito rimarca di aver detto tutto sulla trattativa e di rimanere dell’avviso che sia stato Provenzano ad aver consegnato Riina allo Stato attraverso “la mappa in cui il capomafia ha indicato la casa di via Bernini”. Carte che sarebbero state poi consegnate dallo stesso Ciancimino jr. ai carabinieri del Ros un mese prima dell’arresto del capo di Cosa Nostra. Dietro questa regia, Massimo sottolinea per l’ennesima volta il ruolo fondamentale esercitato dai servizi segreti vicino al famigerato Signor Franco. Anello di collegamento fra i vari poteri istituzionali che appoggiò la trattativa e il cambiamento politico di quegli anni, concordando con Provenzano la consegna di Riina e l’avvento della nuova pax con Cosa Nostra. Ma l’indagine sul signor Franco si è arenata clamorosamente dopo le varie esternazioni dello stesso teste durante i riconoscimenti a Caltanissetta e Palermo creando una confusione mediatica sul punto senza precedenti. L’incertezza mostrata da Massimo ai magistrati però si dissipa quando a noi dichiara: “Quel nome non lo farò mai, non ho riscontri per dimostrarlo, sarei un uomo morto se lo facessi e mio figlio potrebbe essere ucciso e anche i magistrati si troverebbero in difficoltà perché per sostenere certe tesi bisogna avere delle prove serie”. Non solo. Il figlio di don Vito va oltre sostenendo di averlo riconosciuto nelle foto segnaletiche della Procura e di non averlo indicato per paura di ciò che una simile affermazione avrebbe scatenato intorno alla sua famiglia. “Ho sorvolato sulla foto – ammette - ma “chi mi crederebbe?” e poi “avete visto cosa è successo quando ho fatto il nome di De Gennaro?” Per il teste della trattativa è impossibile continuare su questa linea e conferma “il nome del Signor Franco non lo farò ”. Il timore di trovarsi in un gioco troppo grande prende definitivamente il sopravvento sulle tante ragioni per raccontare la verità. E questo perché il famoso Carlo – Franco sarebbe un uomo ancora molto potente, che circola all’interno delle Istituzioni fra le stanze del Quirinale e quelle degli altri organi statali, come un punto di collegamento di questo Sistema di potere. E oggi “con la discesa del Governo Monti è molto più visibile di prima” ci confida. Ragione di più per starsene zitti. Ma allora perché “suicidarsi” accusando l’ex collaboratore di Giovanni Falcone di appartenere a quell’ambiente con un documento falso? Scivola con le parole Massimo Ciancimino ma poi accenna a una polpetta avvelenata servitagli dall’entourage del Signor Franco puntualizzando, “mio padre aveva opinioni negative su di lui (De Gennaro, ndr) per cui quando mi viene consegnata la lista dei nomi col riferimento proprio a De Gennaro e il Signor Franco ho pensato fosse la verità”. Di fatti “esiste un pizzino ora nelle mani dei magistrati in cui mio padre scrive a Provenzano ‘il Sp (che starebbe a ‘superpoliziotto’) dice che sarebbe meglio vederci a casa mia’”. A me hanno fatto fare il carcere per il reato di calunnia aggravata. Luigi Bisignani invece ha patteggiato davanti al gip una pena a un anno e sette mesi di reclusione nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Gli erano stati contestati dieci reati tra cui l’associazione a delinquere, la tentata concussione e il favoreggiamento. Gli ricordiamo però che la sua credibilità ha iniziato a vacillare quando è stato intercettato nello studio di un commercialista attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria, per i suoi presunti rapporti con la 'Ndrangheta. “Ho fatto uno sbaglio questo lo so, ma sfido chiunque a dimostrare i miei rapporti con la mafia calabrese”, “non ho mai avuto nessun contatto con questa gente, volevo solo cambiare un assegno tramite una persona che fa questi favori. “Ho millantato perché il mio commercialista mi ha detto che Strangi si era terrorizzato a sapere chi ero io e quindi ho cercato di tranquillizzarlo sulla mia figura, in ogni caso non mi è mai arrivato nessun avviso d’indagine sulla vicenda”. Giustificazioni che saranno discusse nelle sedi competenti come quelle che tratteranno la detenzione illegale d’esplosivo. Una tappa giudiziaria che farà ancora parlare di lui sperando un giorno possa decidersi a fare il nome del burattinaio che ha garantito Cosa Nostra a eseguire l’attentato al giudice Borsellino 57 giorni dopo dalla morte di Giovanni Falcone, seguendo probabilmente anche l’operazione sulla sottrazione dell’agenda rossa dopo lo scoppio della bomba. Tasselli mancanti indispensabili per ottenere una verità giudiziaria e storica sul quadro delle alleanze fra poteri istituzionali deviati e criminalità organizzata di cui lo stesso don Vito faceva parte. E’ forse proprio in merito alla sua funzione all’interno di questo sistema che presenziò ad alcune riunioni in Svizzera dei Bilderberg e certo, afferma suo figlio, non come portavoce della Democrazia cristiana.
Mentre sta per salutarci Ciancimino si ferma, torna indietro e dice: "Non mi porterò segreti nella tomba".
A nostra domanda diretta: "Quindi lo farà il nome del signor Franco?"
"Sì, alla procura competente che ha di fatto l’indagine sulla trattativa. Il signor Ciancimino non morirà con quel segreto".
Antimafia Duemila è nata per cercare la verità sulle stragi del ’92 e sui mandanti occulti che le hanno decise. Massimo Ciancimino con i suoi errori (che in parte sta già pagando) e le sue scelte ha avuto il merito di aver fornito una delle “chiavi”, quella della trattativa, che potrebbe aprire la cassaforte dei delitti che uomini appartenenti allo Stato hanno commesso con la mafia. Per tale ragione noi, fino a prova contraria, continueremo ad ascoltarlo.