domenica 18 marzo 2012

Ciancimino: "Farò il nome del signor Franco alla procura competente. Non morirò con questo segreto". - di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella



 


A margine dell’udienza di stamane (Ciancimino: la difesa deposita una consulenza sull’esplosivo) Antimafia Duemila ha incontrato Massimo Ciancimino.
Dopo mesi da quando gli è stata ridotta la libertà con il carcere, concessi i domiciliari ed infine obbligato alla dimora a Palermo (previa autorizzazione può comunque muoversi oltre i confini siciliani) per l’accusa di detenzione illegale di esplosivo e calunnia aggravata nei confronti dell’attuale direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gianni De Gennaro, questa è la sua prima apparizione pubblica ufficiale come imputato.
Gli chiediamo conto degli episodi che lo hanno visto perdere tragicamente quota sul fronte della fifducia agli occhi dell’opinione pubblica per circostanze ancora tutte da chiarire in merito all’esplosivo, alla lettera contraffatta che accusa De Gennaro di infedeltà e ai suoi legami con un commercialista indagato dalla Procura di Reggio Calabria poiché ritenuto collegato ai Piromalli. Tutte questioni più che aperte su cui i magistrati stanno indagando attraverso procedimenti separati.
Ciancimino articola il suo discorso partendo dai mesi trascorsi in carcere lo scorso anno segnalando un paradosso: protetto da detenuto e poi "mollato" da uomo libero.
Racconta che quando dalla sua cella si dirigeva nella stanza del vitto e poi in quella adibita a palestra lo accompagnavano incappucciato lungo il corridoio della prigione. L’isolamento sarebbe stato una precauzione usata dalla Polizia penitenziaria per proteggerlo da possibili ritorsioni mafiose all’interno dalla prigione palermitana Pagliarelli. Così come per i collaboratori di giustizia o per i grandi capimafia, un’ala sarebbe stata riservata soltanto a lui, seppure il figlio di don Vito non sia stato mai ritenuto né l’uno né l’altro. Cautele evidentemente adottate per un testimone di giustizia del tutto particolare, un po’ creduto, un po’ sconfessato ma pur sempre unico teste della trattativa mafia – stato fra i carabinieri del Ros e i vertici di Cosa Nostra in quella stagione di stragi e omertà politica del 1992.
Un capitolo investigativo, che secondo il rapporto della Direzione nazionale antimafia, “ha tratto ulteriore impulso” proprio “a seguito delle numerose dichiarazioni rese, a decorrere dal febbraio del 2008, dal Ciancimino” nonostante, afferma sempre la Dna, le sue dichiarazioni si siano dimostrate “molto spesso insuscettibili di riscontro ovvero riscontrate negativamente”. Di fatto c’è però che da quando Massimo Ciancimino ha iniziato a raccontare i retroscena di quelle fasi di dialogo a ridosso delle stragi del ’92 misteriosamente politici, segretari e carabinieri hanno trovato il coraggio di riferire circostanze inedite, togliendo definitivamente l’indagine dall’empasse derivata dall’apporto a senso unico delle dichiarazioni del gen. Mori e del col. De Donno. La Dna non ha scritto le ragioni su cui ha fondato le sue divergenti conclusioni ma è evidente che ha attinto al giudizio negativo attribuito al teste dalle Procure di Caltanissetta e Palermo rispetto alle dichiarazioni sull’uomo dei servizi segreti in contatto col padre legato, secondo Ciancimino jr., all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Una dichiarazione che gli ha procurato l’accusa di calunnia aggravata e il carcere, soprattutto in seguito alla consegna di un appunto ritenuto dalla scientifica di Roma rimaneggiato. Oggi Massimo Ciancimino vive nella sua casa di Palermo, gli sono state tolte scorta e auto blindata, “adesso –  ironizza nei corridoi del Tribunale - vado in giro con l’Ape”.
Il figlio di don Vito non perde la sua verve, “in carcere – continua -  mi hanno trattato come un collaboratore di giustizia, adesso invece il lampeggiante posso metterlo sul mio veicolo a tre ruote”. Sorride ma ammette di aver fatto degli errori. Prima di tutto i 13 candelotti di dinamite recuperati dagli inquirenti nel suo giardino di via Torrearsa. “Sono stato io ad autodenunciarmi – spiega – avevo ricevuto a Bologna un pacco con l’esplosivo e una lettera minatoria con una foto di mio figlio scattata con un teleobiettivo dall’alto, mentre entrava nella blindata. Dicevano che non avrei dovuto dire niente altrimenti gli avrebbero fatto del male”. “Che avrei dovuto fare? Ho detto di averlo ricevuto a Palermo per non agitare mio suocero che è ammalato”. Così prima “l’ho nascosto dentro una busta, poi ho pensato di portarlo via, volevo buttarlo in mare durante la traversata mentre scendevo in Sicilia”. “Non sapevo che con l’acqua avrei potuto far detonare il meccanismo ma la mia scorta non mi perdeva di vista e così me lo sono portato fino a Palermo”. Nella lettera di cui parla Ciancimino jr. vi sarebbe pure un riferimento a Matteo Messina Denaro e ai soldi che questi avrebbe dovuto prendere dal padre per un appalto della società del metano. Massimo Ciancimino è convinto che le minacce non arrivino però solo da Cosa Nostra ma dall’ambiente dei “man in black” legati al padre, i quali costantemente controllerebbero le sue dichiarazioni. Raccontando la sua verità, il figlio di don Vito rimarca di aver detto tutto sulla trattativa e di rimanere dell’avviso che sia stato Provenzano ad aver consegnato Riina allo Stato attraverso “la mappa in cui il capomafia ha indicato la casa di via Bernini”. Carte che sarebbero state poi consegnate dallo stesso Ciancimino jr. ai carabinieri del Ros un mese prima dell’arresto del capo di Cosa Nostra. Dietro questa regia, Massimo sottolinea per l’ennesima volta il ruolo fondamentale esercitato dai servizi segreti vicino al famigerato Signor Franco. Anello di collegamento fra i vari poteri istituzionali che appoggiò la trattativa e il cambiamento politico di quegli anni, concordando con Provenzano la consegna di Riina e l’avvento della nuova pax con Cosa Nostra. Ma l’indagine sul signor Franco si è arenata clamorosamente dopo le varie esternazioni dello stesso teste durante i riconoscimenti a Caltanissetta e Palermo creando una confusione mediatica sul punto senza precedenti. L’incertezza mostrata da Massimo ai magistrati però si dissipa quando a noi dichiara: “Quel nome non lo farò mai, non ho riscontri per dimostrarlo, sarei un uomo morto se lo facessi e mio figlio potrebbe essere ucciso e anche i magistrati si troverebbero in difficoltà perché per sostenere certe tesi bisogna avere delle prove serie”. Non solo. Il figlio di don Vito va oltre sostenendo di averlo riconosciuto nelle foto segnaletiche della Procura e di non averlo indicato per paura di ciò che una simile affermazione avrebbe scatenato intorno alla sua famiglia. “Ho sorvolato sulla foto – ammette -  ma “chi mi crederebbe?” e poi “avete visto cosa è successo quando ho fatto il nome di De Gennaro?” Per il teste della trattativa è impossibile continuare su questa linea e conferma “il nome del Signor Franco non lo farò ”. Il timore di trovarsi in un gioco troppo grande prende definitivamente il sopravvento sulle tante ragioni per raccontare la verità. E questo perché il famoso Carlo – Franco sarebbe un uomo ancora molto potente, che circola all’interno delle Istituzioni fra le stanze del Quirinale e quelle degli altri organi statali, come un punto di collegamento di questo Sistema di potere. E oggi “con la discesa del Governo Monti è molto più visibile di prima” ci confida. Ragione di più per starsene zitti. Ma allora perché “suicidarsi” accusando l’ex collaboratore di Giovanni Falcone di appartenere a quell’ambiente con un documento falso? Scivola con le parole Massimo Ciancimino ma poi accenna a una polpetta avvelenata servitagli dall’entourage del Signor Franco puntualizzando, “mio padre aveva opinioni negative su di lui (De Gennaro, ndr) per cui quando mi viene consegnata la lista dei nomi col riferimento proprio a De Gennaro e il Signor Franco ho pensato fosse la verità”. Di fatti “esiste un pizzino ora nelle mani dei magistrati in cui mio padre scrive a Provenzano ‘il Sp (che starebbe a ‘superpoliziotto’) dice che sarebbe meglio vederci a casa mia’”. A me hanno fatto fare il carcere per il reato di calunnia aggravata. Luigi Bisignani invece ha patteggiato davanti al gip una pena a un anno e sette mesi di reclusione nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Gli erano stati contestati dieci reati tra cui l’associazione a delinquere, la tentata concussione e il favoreggiamento. Gli ricordiamo però che la sua credibilità ha iniziato a vacillare quando è stato intercettato nello studio di un commercialista attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria, per i suoi presunti rapporti con la 'Ndrangheta. “Ho fatto uno sbaglio questo lo so, ma sfido chiunque a dimostrare i miei rapporti con la mafia calabrese”, “non ho mai avuto nessun contatto con questa gente, volevo solo cambiare un assegno tramite una persona che fa questi favori. “Ho millantato perché il mio commercialista mi ha detto che Strangi si era terrorizzato a sapere chi ero io e quindi ho cercato di tranquillizzarlo sulla mia figura, in ogni caso non mi è mai arrivato nessun avviso d’indagine sulla vicenda”. Giustificazioni che saranno discusse nelle sedi competenti come quelle che tratteranno la detenzione illegale d’esplosivo. Una tappa giudiziaria che farà ancora parlare di lui sperando un giorno possa decidersi a fare il nome del burattinaio che ha garantito Cosa Nostra a eseguire l’attentato al giudice Borsellino 57 giorni dopo dalla morte di Giovanni Falcone, seguendo probabilmente anche l’operazione sulla sottrazione dell’agenda rossa dopo lo scoppio della bomba. Tasselli mancanti indispensabili per ottenere una verità giudiziaria e storica sul quadro delle alleanze fra poteri istituzionali deviati e criminalità organizzata di cui lo stesso don Vito faceva parte. E’ forse proprio in merito alla sua funzione all’interno di questo sistema che presenziò ad alcune riunioni in Svizzera dei Bilderberg e certo, afferma suo figlio, non come portavoce della Democrazia cristiana.
Mentre sta per salutarci Ciancimino si ferma, torna indietro e dice: "Non mi porterò segreti nella tomba".
A nostra domanda diretta: "Quindi lo farà il nome del signor Franco?"
"Sì, alla procura competente che ha di fatto l’indagine sulla trattativa. Il signor Ciancimino non morirà con quel segreto".
Antimafia Duemila è nata per cercare la verità sulle stragi del ’92 e sui mandanti occulti che le hanno decise. Massimo Ciancimino con i suoi errori (che in parte sta già pagando) e le sue scelte ha avuto il merito di aver fornito una delle “chiavi”, quella della trattativa, che potrebbe aprire la cassaforte dei delitti che uomini appartenenti allo Stato hanno commesso con la mafia. Per tale ragione noi, fino a prova contraria, continueremo ad ascoltarlo.

sabato 17 marzo 2012

Scajola, posti barca a sua insaputa? ‘Sconti da Caltagirone Bellavista. E caparre non saldate’. - di Ferruccio Sansa





Le carte dell'inchiesta sul porto di Imperia citano anche l'ex ministro e i suoi familiari. Lui (indagato solo in un altro filone dell'inchiesta) si difende: "Acquisti perfettamente leciti". L'inchiesta si allarga anche al progetto del mega-porticciolo di Fiumicino. I pm: "Fraudolenta lievitazione dei costi" 


Non c’è pace per gli investimenti immobiliari di Claudio Scajola. Prima la casa al Colosseo. Oggi posti barca, appartamenti e box. Intestati alla moglie Maria Teresa Verda e alla sorella Maria Teresa Scajola. Tutti acquistati con sconti fino al 17 per cento o addirittura, sostengono i pm, non ancora pagati. L’accusa sta cercando di capire se Francesco Bellavista Caltagirone (re dei porticcioli e patriota Alitalia) abbia in qualche modo ricompensato gli appoggi al mega-progetto del porto di Imperia.

Ecco allora che si stanno passando al setaccio tutti gli acquirenti di posti barca, soprattutto tredici, alcuni dei quali comprati dalla famiglia Scajola. L’ex ministro Claudio (indagato per associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, ma soltanto in un altro filone dell’inchiesta, mentre i suoi familiari non risultano indagati) è sempre stato uno degli sponsor del porto: “Cambierà il volto della città”. Su questo non ci sono dubbi, anche se i giudizi sono diversi. È tutto scritto a pagina 153 dell’ordinanza che ha portato all’arresto di Bellavista Caltagirone: “L’articolato meccanismo per pilotare l’attribuzione dell’appalto in favore di un imprenditore scelto nella più totale violazione delle regole… con la gravissima, fraudolenta speculazione economica che ne è seguita inducono a ritenere quanto mai verosimile l’esistenza di una sotterranea spartizione di ritorno dei profitti fraudolentemente conseguiti da Caltagirone in favore dei soggetti (ovvero dei loro familiari) che gli hanno regalato l’appalto e il porto”, scrivono i magistrati.



Sono in corso indagini su un posto barca da 40 metri, costo 2,5 milioni di euro e su ulteriori dodici posti per un valore di 4,4 milioni. Ecco, in quei tredici posti barca potrebbe essere il nocciolo dell’inchiesta: “Dall’esame del materiale sequestrato presso Acquamare (la società di Bellavista Caltagirone, ndr) emergono degli acquirenti qualificati “amici”… tra essi compaiono: Maria Teresa Verda, moglie di Scajola, acquisti per 344.000 euro di due posti barca e due posti auto coperti con sconto del 18,66%”. Poi “Maria Teresa Scajola (la sorella dell’ex ministro, ndr), acquisti per 1.510.000 euro per i posti barca e due immobili di valore di 462.000 euro (con sconti dal 5 al 17,43%)”. Infine: “Claudio Scajola risulta aver versato una mera caparra di 103.000 euro, ma non pare aver versato il saldo”.

Scajola al Fatto Quotidiano la spiega così: “Sono acquisti perfettamente leciti. I 103mila euro cui si fa riferimento sono in realtà 120mila e si riferiscono ai posti barca e ai box di mia moglie. Non ho ultimato il pagamento perché il contratto definitivo non è stato firmato e i posti non sono pronti. Non so nulla degli acquisti di mia sorella”. Ormeggerà le sue barche a Imperia? “Non ho barche, mia moglie ha comprato i posti come investimento. È tutto lecito e trasparente. Questo porto ha cambiato la faccia della città, ma sono sicuro che il tempo renderà giustizia a me e alla mia famiglia”.

Il porto di Fiumicino – Ma il passaggio più clamoroso dell’ordinanza non riguarda Imperia. Sono un paio di pagine che riguardano il mega-porticciolo di Fiumicino, il più grande del Mediterraneo. Parliamo di oltre 1.500 posti barca realizzati da Caltagirone Bellavista tra l’altro con soci pubblici e con la benedizione politica del centrodestra e del centrosinistra. Perfettamente bipartisan. Scrive il pm di Imperia: “Caltagirone ha in corso la realizzazione del porto di Fiumicino e sta utilizzando le medesime modalità di fraudolenta lievitazione dei costi sperimentate a Imperia”. Una bomba dalle conseguenze imprevedibili. I magistrati ricordano che la questione è già oggetto di istruttorie del Tribunale Civile di Civitavecchia. E aggiungono: a Fiumicino esiste una società – misto pubblico-privato – la Iniziativa Portuali che ha per oggetto la costruzione e la gestione di impianti portuali turistici e che ha ottenuto dalla Regione Lazio la concessione demaniale per la costruzione e per la gestione per novant’anni”, proprio come a Imperia, dove esiste la Porto di Imperia spa, che raccoglie soci pubblici e privati.

In entrambi i casi Caltagirone Bellavista. Non basta: in entrambi i casi si incontra l’ingresso della “stessa compagine societaria” che fa capo al gruppo Acqua Pia Antica Marcia di Caltagirone Bellavista. Ma ecco il punto centrale: anche a Fiumicino come a Imperia, si prevede la “conversione in diritti di concessione del corrispettivo monetario ottenuto dalla società costruttrice dell’opera”. Infine, sottolineano i magistrati imperiesi, a Fiumicino si ritrovano gli stessi attori: membri del cda indagati in Liguria, ma anche imprese destinatarie di subappalti, ma in realtà inattive”. Concludono i magistrati: “Come si può vedere il meccanismo è assolutamente identico”. Già, Fiumicino, un possibile terremoto economico e politico per la Roma degli affari. Con quella società, la Infrastrutture Portuali, che inizialmente era a maggioranza pubblica (di Italia Navigando, emanazione di Sviluppo Italia) e che poi, emarginando gli originari membri del cda e i primi soci privati, abbracciò Caltagirone Bellavista.

I costi gonfiati di Imperia – La storia dell’amore tra Bellavista Caltagirone e Imperia comincia addirittura nel 2003. Caltagirone Bellavista già vola sopra la città in elicottero sognando affari. Con lui ci sono Claudio Scajola e Gianpiero Fiorani che in Liguria sogna di reinvestire i soldi delle sue operazioni finanziarie. Alla fine ecco il via libera: 1440 posti barca più capannoni e residenze. L’ordinanza ripercorre ogni tappa. Al centro c’è il contratto di permuta (il modello Imperia che sarebbe stato “esportato” a Fiumicino) con cui le società costruttrici in cambio della realizzazione del porto hanno ottenuto la concessione su gran parte delle opere. Lasciando, sostiene l’accusa, il socio pubblico a becco quasi asciutto: secondo gli accordi, hanno ricostruito la Polizia Postale e la Finanza, i privati avrebbero ottenuto il 70% dell’opera.

Alla società Porto di Imperia spa (di cui il comune detiene appena un terzo) sarebbe rimasto il restante 30%. Racconta Beppe Zagarella (Pd), una delle poche voci critiche: “Le società realizzatrici hanno ottenuto l’85% della parte residenziale del progetto, alla Porto di Imperia sono restati i capannoni destinati alla cantieristica e una discoteca. Poi c’è il porto: ai privati sarebbero andati il grosso dei posti barca, mentre al pubblico restano i moli destinati alle imbarcazioni in transito e quelli per la nautica sociale”. Non basta: i pm si sono anche concentrati sui costi del mega-progetto. Si è passati da 80 a 200 milioni. Le banche si mangiano il porto – C’è poi il capitolo legato al mutuo da 140 milioni ottenuto dalle società realizzatrici (oggetto di polemiche politiche, ma non ancora oggetto formale di indagine). Ricorda Zagarella: “Finora le rate non sono state ancora pagate. Gli istituti hanno concesso una proroga”. Il finanziamento è garantito con un’ipoteca da 280 milioni, ma i creditori cominciano a essere impazienti. Tra le banche interessate all’operazione la parte del leone spetta alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Carige). L’opposizione ricorda che il vicepresidente è Alessandro Scajola, fratello dell’esponente Pdl, mentre nella fondazione siede Pietro Isnardi (consuocero di Alessandro Scajola). Il vice-presidente è Pierluigi Vinai, uomo stimato dagli Scajola e appena scelto come candidato sindaco del centrodestra a Genova.

Ma che cosa succederà adesso? Lo ipotizzano i pm: “Se Acquamare (Caltagirone Bellavista, ndr) non dovesse rientrare nel finanziamento, la ovvia conseguenza sarà che la banca… farà pignorare il diritto di superficie concesso alla Porto di Imperia e le relative aree su cui è stato realizzato il porto e se ne approprierà”. Insomma, il porto diventerà delle banche. Come la Carige. Un Comune in mano a Caltagirone Bellavista (e a Scajola) – Cinque volte risponde “sì”. Due volte “bene”. Due volte “certo”, ma anche “certo, certo, certo”. Poi: “Assolutamente”, “d’accordo” e via discorrendo. L’intercettazione della telefonata tra Paolo Strescino (non indagato), sindaco scajoliano di Imperia, e Francesco Bellavista Caltagirone merita di essere letta (pagina 148). In altre conversazioni l’imprenditore si spinge ancora più in là: “Devi attaccare proprio l’opposizione”, dice a Strescino. Che risponde con un doppio “assolutamente”. Tanto che gli inquirenti chiosano: Caltagirone si trova in compagnia del sindaco e “detta i propri suggerimenti da inserire nella bozza della delibera comunale monotematica sul Porto di Imperia”. Ma i magistrati lo scrivono ancora più chiaramente: “La cosa più grave sarà riscontrare come il Comune di Imperia, lungi dal tutelare gli interessi pubblici, non è altro che uno strumento agli ordini e nelle mani di Bellavista Caltagirone il quale addirittura interviene sui tempi e i contenuti delle delibere”.



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Ustica, fermati i risarcimenti. Motivo: il danno economico che subirebbe lo Stato. - di Antonella Beccaria



Non saranno versati, almeno non ora, gli oltre 100 milioni di euro a carico dei ministeri dei Trasporti e del Tesoro riconosciuti dalla terza sezione civile del tribunale di Palermo.

È uno stop in attesa che ricominci il processo di secondo grado sui risarcimenti ai familiari delle vittime della strage di Ustica, avvenuta in 27 giugno 1980. Causa: il danno economico che lo Stato subirebbe. Sembra un paradosso, ma è così. Sciogliendo la riserva, infatti, la prima sezione civile della Corte d’appello di Palermo ha fissato la ripresa del dibattimento al 15 aprile 2015, fra oltre 3 anni, e ha sospeso l’esecutività della sentenza pronunciata lo scorso settembre “per il grave danno che il debitore potrebbe ricevere”.

Non saranno versati, almeno non ora, gli oltre 100 milioni di euro a carico dei ministeri dei Trasporti e del Tesoro riconosciuti dalla terza sezione civile del tribunale di Palermo, presieduta dal giudice Paola Proto Pisani, a una quarantina di parenti delle 81 vittime della strage. E respinta al mittente anche l’istanza che il pool legale – composto dagli avvocati Daniele Osnato,Alfredo Galasso e Vanessa Fallica – aveva presentato perché si procedesse alla liquidazione immediata degli importi anche sotto forma di buoni del Tesoro.

Ad avere la meglio, in questa fase, è stata l’avvocatura di Stato, che lo scorso 1 febbraio aveva presentato una richiesta di sospensione. Nelle ragioni presentate dal tribunale di Palermo, si legge infatti che “ritenuto che con l’appello principale non è contestato solo il quantum ma anche l’an(cioè il sendr) della condanna risarcitoria; che avuto riguardo alla considerevole entità della somma oggetto della condanna ricorrono i gravi motivi richiesti per l’accoglimento dell’istanza avanzata; che in considerazione della solvibilità della parte appellante non ricorrono i presupposti per prevedere specifiche forme di cauzione a garanzia del credito, per questi motivi si dispone la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza”.

Per Daria Bonfietti, presidente dell’associazione che riunisce i familiari delle vittime, questa sentenza “indica la difficoltà che governo e avvocatura di Stato hanno nel rapportarsi alla veritàdi quella strage”. Una verità che, in base a quanto sentenziato lo scorso settembre, parla in termini espliciti di “omissioni e negligenze” che precedettero e seguirono la sciagura aerea. Da un lato, infatti, secondo il giudice Proto Pisani non era stata messa in sicurezza la tratta del velivolo soprattutto nel cosiddetto Punto Condor, dove si concentravano attività militari. E dall’altro, dopo il disastro, venne negata ai familiari la possibilità di conoscere l’esatto accadimento dei fatti a causa di di alterazioni di documenti, omissioni, segreti di Stato tali o presunti, menzogne. Di depistaggi, insomma.

“Se si decidesse una volta per tutte ad accettare che il Dc9 dell’Itavia è stato abbattuto nel corso di un atto di guerra”, ha aggiunto Bonfietti, “allora le istituzione dovrebbero presentarsi come responsabili degli ostacoli all’accertamento della verità. Responsabili che vanno ricercati proprio tra coloro che avrebbero dovuto comportarsi molto diversamente, cioè gli uomini che avevano ruoli nei ministeri e nelle amministrazioni dello Stato”.

La presidente delle vittime ex parlamentare sottolinea anche un altro fatto. “Governo e avvocatura”, dice, “sono stati rapidissimi nel chiedere il blocco dei risarcimenti. Tuttavia non abbiamo assistito alla stessa rapidità nel sollecitare le risposte alle rogatorie internazionaliattualmente ancora inevase”. Il riferimento è a GermaniaFrancia e Gran Bretagna, interrogate nel 2008 dopo l’indicazione di presunte responsabilità materiali di Parigi nell’abbattimento dell’aereo.

E per sollecitare quelle risposte Daria Bonfietti si era rivolta lo scorso autunno al parlamento europeo, dove aveva trovato in prima istanza il supporto di Salvatore CaronnaSergio Cofferati e David Sassoli. Oltre a esaminare la possibilità che Ustica diventi oggetto di una commissione istituita ad hoc a Bruxelles, era stato raccolto in breve il sostegno di Roberta Angelilli, del Pdl ed esponente del Ppe, oltre che vicepresidente dell’europarlamento. Inoltre all’inizio di marzo 2012 erano stato 32 i deputati italiani avevano presentato un’interrogazione alla Commissione e al Consiglio d’Europa perché a quelle rogatorie si rispondesse. Motivo: ulteriore silenzio avrebbe violato “la cooperazione giudiziaria penale sia tra i Paesi membri sia tra l’Unione e Paesi terzi”.

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L'ultimo sospetto. - di Massimo Giannini





L'ultimo sospetto 



Diciassette anni per coronare un'avventura autocratica e populista, e trentotto leggi ad personam per piegare il codice penale all'interesse personale, non sono ancora bastati. Come l'ombra di Banco, l'ossessione giudiziaria di Silvio Berlusconi continua a dominare la scena. E grava pesantemente anche sulla "convergenza tripartita" che sostiene il governo "strano" di Mario Monti. 

Il vertice di giovedì sera a Palazzo Chigi registra "passi avanti". Si parla di correzioni al disegno di legge anti-corruzione, con l'introduzione di nuovi reati (corruzione privata, traffico d'influenza), ma accompagnata dalla soppressione di altri più gravi (concussione). Si ipotizzano opportune modifiche al disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ma accompagnate dall'insensato rilancio della legge-bavaglio sulle intercettazioni. Segnali contraddittori, che fanno pensare. E ancora una volta fanno sospettare. Siamo di nuovo davanti a un Grande Ricatto, che presuppone un Grande Baratto? Il Cavaliere è pronto a rinunciare alla "vendetta" contro le toghe, in cambio di un'ultima norma su misura che lo salvi dal processo Ruby? 

La giustizia penale e civile va riformata. Questo non è in discussione. Il valore politico e simbolico di questa riforma, soprattutto all'estero e soprattutto per le imprese, è pari a quella dell'articolo 18. Dunque, il presidente del Consiglio fa benissimo a imporla nell'agenda, e ad esigere che Alfano, Bersani e Casini ne discutano com'è avvenuto due giorni fa. Il nodo vero è capire perché si fa e a chi giova la riforma. Sul fronte penale, l'Italia tuttora martoriata dagli scandali ha una priorità assoluta: varare al più presto una seria legge contro la corruzione, un cancro che secondo la Corte dei conti "costa" ogni anno più di 60 miliardi.


Il disegno di legge varato dal Pdl prima della caduta del governo Berlusconi giace alla Camera, in Commissione Giustizia e Affari Costituzionali. Il Guardasigilli Paola Severino, su mandato di Monti, vuole rafforzare e migliorare quel testo. Su come rafforzarlo nel merito, i tre leader di Pdl, Pd e Udc durante il vertice di maggioranza pare non siano scesi ufficialmente in dettaglio. Avrebbero convenuto sul metodo, cioè sull'opportunità di procedere con un emendamento, che assicura un iter più rapido rispetto a una legge delega. E questo sarebbe tutto. 

Ma le diplomazie dei partiti, più o meno segretamente, sono al lavoro da tempo. Ed è qui che si nascondono il ricatto, e forse anche il baratto. Dietro lo specchietto delle allodole di un inasprimento delle pene per la corruzione e per l'estorsione aggravata, oltre che dell'introduzione di nuove fattispecie di reato come la corruzione privata e il traffico d'influenze, la norma-chiave del pacchetto di modifiche di cui si sta discutendo riguarda la soppressione del reato di concussione. 

Una modifica alla quale l'avvocato-parlamentare del Cavaliere, Niccolò Ghedini, tiene più che a ogni altra. Si tratta di abolire l'articolo 317 del codice penale, che prevede una pena fino a 12 anni per chiunque, abusando della propria posizione di pubblico ufficiale, ottenga da un altro soggetto denaro o altri vantaggi per sé o per un terzo. Perché sia così utile cancellare questa norma è evidente: la concussione (insieme alla prostituzione minorile) è uno dei due reati per i quali è imputato Berlusconi, nel processo su Ruby Rubacuori. 

Fu esattamente abusando della sua posizione di pubblico ufficiale (nel caso specifico, presidente del Consiglio) che il Cavaliere chiese ed ottenne da un funzionario, durante la famosa telefonata notturna alla Questura di Milano, il rilascio della ragazza marocchina perché "nipote di Mubarak". 

Se dunque nel disegno di legge anti-corruzione passasse l'emendamento che cancella il reato di concussione dal codice, Berlusconi sarebbe salvo anche da questo processo incardinato a Milano. Questa sarebbe per lui una causa immediata di proscioglimento. Resterebbe il reato di prostituzione minorile, più difficile da provare, con pena inferiore e termini di prescrizione ridotti. A questo punta Ghedini, il Dottor Stranamore del Pdl. Il paradosso è che, a dargli una mano, è stato il Pd, come ha anticipato il "Sole 24 Ore" il 2 marzo.

In commissione i democratici (dopo averlo presentato una prima volta e poi ritirato a Palazzo Madama nel giugno 2011) hanno infatti ri-presentato un emendamento che abroga la concussione, e ne riassorbe la fattispecie nei reati di corruzione allargata ed estersione aggravata. Una mossa incomprensibile, che da quanto si sa ha destato persino una certa "attenzione" da parte del Quirinale. Donatella Ferranti e Andrea Orlando, come altri colleghi del Pdl e dell'Udc, la giustificano con i ripetuti richiami degli organismi europei e sovra-nazionali, che da oltre due anni chiedono all'Italia di rafforzare le norme contro la corruzione e a correggere quelle sulla concussione. 

L'argomento è debole. Gli obiettivi voluti dall'Ocse hanno un'impronta restrittiva, e non vanno nella direzione abrogativa voluta dal Pd. Nella concussione italiana il "concusso" è considerato vittima e dunque non è punibile, e questo (secondo l'Organizzazione dei Paesi industrializzati) può rappresentare un freno all'investigazione e alla repressione dei fenomeni di corruzione internazionale. 

C'è allora da chiedersi il perché, di questa convergenza trasversale sul colpo di spugna della concussione, che avrebbe un effetto immediato su un processo in corso molto delicato e imbarazzante per il "Papi" di Arcore. C'è da chiedersi perché ci si concentri su questo, invece di riscrivere le norme scellerate come la ex Cirelli sulla prescrizione, che ogni anno "brucia" 169 mila processi e "scagiona" soprattutto gli imputati per corruzione. 

E c'è da chiedersi perché, mentre alla Camera la "convergenza tripartita" si applica a questa nuova ipotesi di compromesso "ad personam", al Senato il Pdl è pronto a mitigare di molto le norme di un altro disegno di legge che ha spaccato le istituzioni e il Paese, quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Un blitz del leghista Pini, nella prima lettura di Montecitorio, lo aveva incattivito in modo intollerabile, aggiungendo alle cause di responsabilità diretta e personale delle toghe non solo il dolo e la colpa grave, ma anche la "manifesta violazione del diritto". 

Ora il Popolo delle Libertà, come ha annunciato Alfano al vertice di giovedì sera da Monti, fa retromarcia e ri-rompe l'asse con la Lega. Ridicolo pensare che lo abbia convinto il parere unanime del Csm, che giudica questa  norma tanto "devastante" da causare "l'implosione del sistema giudiziario". E allora perché lo fa? Cosa è cambiato dal mese scorso, quando la ex maggioranza forzaleghista si ricompose per un giorno, mandando sotto il governo?

Sono domande che per ora non hanno risposta. Ma se i fatti hanno ancora una logica, una risposta si può trovare. Nello schema da Grosse Koalition all'italiana, che pure sta obiettivamente salvando l'Italia dalla tempesta finanziaria, forse c'è ancora bisogno di un altro salvacondotto per il Cavaliere. C'è ancora bisogno di un ultimo atto da "stato di eccezione", che ha drammaticamente segnato il quasi Ventennio berlusconiano. Se è così, almeno lo si dica ai cittadini italiani. La politica ci metta la faccia. Alla luce del sole. Non al buio dei vertici notturni della "non-maggioranza".