martedì 17 luglio 2012

Vent’anni di trattativa Stato-mafia. Episodio 2: dal giugno 1992 al 10 gennaio 1993.




17 luglio 2012
Guarda anche

Noi stiamo con Ingroia.




OGGI E' UNA GIORNATA TRISTE, MOLTO SCORAGGIANTE... NON FACCIO COMMENTI...
 — 


Giorgio Ghirello




https://www.facebook.com/photo.php?fbid=3671995003339&set=a.1038129678352.2007099.1378807775&type=1&theater

Neonata muore, i medici intercettati "Cambiate le cartelle cliniche". - Amalia De Simone


«Vedete di apparare questa cartella nel migliore dei modi». La piccola Antonia lottava tra la vita e la morte, forse a causa di errori commessi durante il parto e intanto i medici e l'ostetrica dell'ospedale di Boscotrecase, in provincia di Napoli, che l'avevano fatta venire al mondo, decidevano come “apparare” e cioè aggiustare, truccare la sua cartella clinica per nascondere le loro responsabilità, se si fosse verificato il peggio. Il peggio arrivò pochi giorni dopo: Antonia lasciò i suoi genitori, Giusi e Michele che decisero di sporgere denuncia perché fosse fatta chiarezza sulle circostanze della morte della bimba. La verità venne fuori solo molti mesi dopo, quando uno dei medici che aveva partecipato al parto confessò al pm di Torre Annunziata Emilio Prisco, di aver effettuato una intercettazione ambientale registrando parte dell'incontro avuto con il primario e l'ostetrica presenti al parto, mentre si decideva di “confezionare” una nuova cartella clinica che garantisse loro l'impunità. E così il procuratore aggiunto Raffaele Marino e il pm Prisco, chiesero e ottennero dal gip alcune misure cautelari a carico di medici e paramedici ritenuti responsabili a vario titolo, della morte della neonata e di averne falsificato la cartella clinica.
I magistrati in questi giorni hanno formulato anche la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati. Le intercettazioni che è possibile ascoltare nella videoinchiesta, sono sconcertanti: «Vediamo di metterla a posto ora che si può fare, domani potrebbero sequestrarla...»; senza contare l'inclusione nella documentazione ospedaliera di un falso tracciato e il turpiloquio irrispettoso usato anche per indicare la povera bimba, per giustificare il loro operato: «... quella puttana non si è voluta riprendere e noi lo abbiamo preso in culo...». Gli indagati, attraverso i loro legali di fiducia si difendono e si accusano vicendevolmente: «La manomissione della cartella non è avvenuta per iniziativa del mio assistito – spiega l'avvocato Pasquale Russo – anzi, la misura cautelare, che è successiva al primo avviso di chiusura delle indagini, è avvenuta dopo le dichiarazioni rese da noi al pm». «Il mio assistito, il primario dell'ospedale – spiega l'avvocato Nicolas Balzano - è intervenuto per pochi minuti e quindi non avrebbe mai avuto interesse a falsificare la cartella clinica. La manomissione è invece avvenuta da parte di chi ha effettuato la registrazione. L'ostetrica invece ha subito gli ordini del medico e quando si è resa conto che la cosa si metteva male ha chiamato il primario». La mamma di Antonia dice di essersi resa conto subito che durante il parto qualcosa non andava: «Ci sono state spinte molto forti, il medico era sudato e poi hanno fatto intervenire il primario. Mi sono molto spaventata. Poi la bimba non ce l'ha fatta... La cosa terribile è che questi signori, anziché ammettere i loro errori hanno cercato di tirarsi fuori da questa storia strappando la cartella e facendone una nuova. Mi sono insospettita quando mi hanno mostrato un tracciato che in realtà non mi era mai stato eseguito. Ma fino a che non è spuntata quella registrazione era la mia parola contro la loro». Il procuratore aggiunto Raffaele Marino ha definito la vicenda come un episodio vergognoso: «Non si può tradire così la fiducia di chi si affida a medici di un ospedale pubblico. Questa storia è la spia di un degrado anche morale che non può essere accettato. Abbiamo fatto indagini meticolose e alla fine siamo venuti a capo della vicenda. Naturalmente l'intercettazione che a me sembra piuttosto inquietante, si è rivelata fondamentale». Per l'avvocato di parte civile Michele Riggi tutti possono sbagliare: «È terribile però, pensare di nascondere i propri “umani” errori, falsificando dei documenti. Speriamo che sia stato solo un caso e che non ci siano state anche altre condotte simili. Certo è, che ciò che è accaduto nel nuovissimo ospedale di Boscotrecase lascia pensare che davvero tutto sia possibile».
Leggi anche:

Il nipote del boss all'università. La truffa dei 22 esami facili. - Giovanni Bianconi



Fa errori di sintassi e ortografia ma supera nove prove in 45 giorni. «Come si chiama l'esame che devo dare?»
REGGIO CALABRIA - Ad aprile scorso è stato arrestato insieme allo zio Giuseppe ed altri presunti membri di una delle cosche di 'ndrangheta più famose e importanti, quella dei Pelle «Gambazza» di San Luca, e dalla cella in cui è rinchiuso invia lettere a parenti e amici, ricche di errori di sintassi e ortografia. Niente di male, se non fosse che quegli scritti fanno sorgere un sospetto: come può Antonio Pelle, 24 anni, nipote del boss Giuseppe, che difficilmente prenderebbe la sufficienza in un tema d'italiano, essere arrivato al corso di laurea specialistica in Architettura, nell'università Mediterranea di Reggio Calabria, dopo aver sostenuto con successo ventidue esami? 
Un percorso degno di uno studente modello che ha avuto il suo picco nel bimestre giugno-luglio 2009, quando il giovane Pelle ha superato nove esami in meno di un mese e mezzo. E che i carabinieri del comando provinciale hanno ritenuto di spiegare con una serie di intercettazioni tra il rampollo dei «Gambazza» e professori, impiegati e ausiliari dell'università ora indagati dalla Procura antimafia di Reggio (insieme al ragazzo) per i reati di falso e truffa. Sono accusati di aver aiutato Antonio Pelle - un cognome che evoca non solo una famiglia rispettata, ma anche la sanguinosa faida di San Luca - e qualche suo parente a superare test e prove d'esame.
Il telefono del ragazzo era sotto controllo per altre indagini, e sono state registrate molte conversazioni sul sorprendente cammino universitario di Antonio. Come quella del 2 luglio 2008, quando lo studente telefona a Maurizio Spanò, dottore agronomo forestale che collabora con la facoltà e chiede: «Come si chiama l'esame?». «Albericoltura generale e coltivazione alborea», risponde Spanò. Solo quel giorno Pelle jr scopre il nome della materia che dovrebbe cominciare a studiare, e il 24 settembre richiama l'agronomo: «Ascoltami, io vado e mi siedo, se in caso...». L'esame è fissato per il 26 settembre; alle 10.12 di quel giorno Spanò telefona al ragazzo: «Vieni fuori che ti devo parlare...». Quarantacinque minuti più tardi la prova è superata e Antonio telefona alla zio Domenico che domanda: «Quanto hai preso?». «Trenta! Trenta!». «Alla faccia del cavolo! Meno male! Di che cos'era?». «Di cosa, di agro... agro... Agricoltura». Ha appena ottenuto il massimo dei voti lo studente Pelle Antonio in una prova di cui non ricorda il nome.
In «Laboratorio di progettazione urbanistica», il giovane Pelle ha preso ventisei, nel luglio del 2009; col docente di quella materia sono state intercettate diverse conversazioni piuttosto amichevoli. Per esempio quelle nei giorni di Natale del 2008, quando il ragazzo chiamava per gli auguri e il professore ringraziava annunciando che «oggi abbiamo fatto la festa a quel coso che ci hai mandato». Tre giorni dopo un altro ringraziamento del docente: «Ma non c'era bisogno ogni volta che ti devi disturbare», e lo studente: «Un pensierino quanto per gli auguri, professore...».
Stesso trattamento per un fidato collaboratore del titolare della cattedra, che chiamava il giovane Pelle «Antoniuccio mio bello». A Natale del 2008 c'è la telefonata per «lasciare un pensierino», e con l'avvicinarsi della Pasqua l'avviso: «Eh... ora voglio lasciarlo che asciughi... e domani te lo porto, l'agnellino». Due giorni più tardi, il 12 aprile, ecco la richiesta dello studente: «Il ventuno c'è l'esame, no? È scritto? A risposta multipla?». Il collaboratore del professore conferma, e il giovane Pelle dice: «Ah, va bene, allora con me ci vediamo domani, dopodomani?». «Va bene, ci vediamo qua a Reggio». Al Natale successivo è di nuovo tempo di regali: «Vuoi meglio un agnellino o un maialino?» Risposta dell'assistente. «Secondo me è meglio l'agnellino...».
In tre anni di intercettazioni i carabinieri hanno registrato 118 telefonate tra Antonio Pelle e il responsabile della segreteria studenti della facoltà di Architettura. Nelle conversazioni il giovane chiede spesso interventi e raccomandazioni su diversi professori, che stando all'indagine della Procura antimafia hanno fruttato esami e promozioni al nipote di Giuseppe Pelle. Che, sempre secondo l'accusa, s'è speso pure - con Catalano e altri dipendenti dell'università - per far superare i test di accesso ai cugini Francesco Pelle (figlio di Giuseppe), e Maria Antonietta Morabito. Una «manovra» quasi confermata dal boss Giuseppe Pelle, che in una conversazione del 17 marzo 2010, parlando del figlio Francesco, diceva: «L'abbiamo fatto entrare ad Architettura, tramite mio nipote!». Un nipote che tiene molto alla sua carriera universitaria, tanto che dal carcere di Lanciano dov'è rinchiuso, il 29 agosto scorso ha scritto al cugino: «Per quanto riguarda l'istanza dell'università che gli avevo presentato al gip se mi autorizzava a scendere a Reggio C. a fare gli esami. Ti faccio sapere che il gip mi ha risposto positivamente».

Conflitto di attribuzione o lesa maestà? - Domenico Gallo


Giorgio-Napolitano1
Se nella prima metà del secolo scorso un pubblico ministero avesse casualmente intercettato una comunicazione telefonica di Vittorio Emanuele III, indubbiamente ne sarebbe nato uno scandalo ed il Pubblico Ministero che all’epoca si chiamava Procuratore del Re, sarebbe stato destituito su due piedi. Nello Statuto albertino, infatti, non esisteva il concetto di “indipendenza della magistratura” e la giustizia era amministrata in nome del Re dai giudici che egli stesso istituiva (art.68). Poiché il Re riuniva nelle sue mani tutti i poteri dello Stato, egli era al di sopra dell’ordinamento. Infatti l’art. 4 dello Statuto recitava: “la persona del Re è sacra ed in violabile”.
Durante l’epoca di crisi costituzionale della repubblica italiana, rappresentata dall’avvento del Berlusconismo, i mass media di proprietà di Berlusconi e gli uomini politici di proprietà del partito di Berlusconi, hanno interpretato la “costituzione materiale” nel senso che la persona del Presidente del Consiglio dei Ministri dovesse considerarsi “sacra ed inviolabile” come la persona del Re nello Statuto Albertino. Per questo non solo i procedimenti in cui Berlusconi risultava imputato di reati vari, ma lo stesso fatto che si svolgessero indagini nei suoi confronti e che venissero effettuate intercettazioni indirette di Berlusconi quando parlava con Lavitola o altri malavitosi, sottoposti ad intercettazione, veniva denunziato come un atto di lesa maestà, compiuto da una magistratura infedele che non rispettava le prerogative costituzionali del Presidente, eletto dal popolo ed unto del Signore.
Il Procuratore della Repubblica di Palermo ha spiegato all’ex direttore di Repubblica, che aveva lanciato ai magistrati di Palermo gli stessi anatemi che i berluscones sono soliti scagliare nei con fronti dei magistrati quando si occupano di Berlusconi, che le intercettazioni indirette nei confronti di soggetti coperti da immunità, non necessitano di alcuna autorizzazione ed, oltretutto, non possono essere impedite – a priori – perché non sono prevedibili.
La mossa del Presidente Napolitano, che ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per le intercettazioni indirette casualmente effettuate nei suoi confronti, desta perplessità perché si muove nella stessa logica che tende ad interpretare le prerogative degli organi costituzionali nell’ottica dello Statuto albertino, piuttosto che della Costituzione Repubblicana.
E’ sotto gli occhi di tutti che nella crisi della legalità che investe il nostro paese a più livelli, il problema non è quello di ridurre i controlli, ma di contrastare i comportamenti arbitrari e gli abusi di potere. I precedenti che abbiamo non sono edificanti. L’istituto del conflitto di attribuzione è già stato utilizzato in modo strumentale, sia dal Governo Prodi che dal Governo Berlusconi, per assicurare l’impunità ai dirigenti del servizio segreto militare implicati nel rapimento di Abu Omar e per creare uno sbarramento artificiale al controllo di legalità esercitato dall’autorità giudiziaria.
La democrazia ha bisogno di trasparenza e di equilibrio dei poteri, non certo di zone franche e di prerogative declinate come privilegi del sovrano.
* Magistrato, Corte di Cassazione

La procura di Palermo nel mirino del Quirinale. - Lorenzo Baldo


napolitano-giorgio-big
“Siamo sereni. Tutte le norme messe a tutela del Presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate”. Il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha replicato così ai lanci di agenzia di questa mattina che hanno riportato la nota del Quirinale. La notizia è rimbalzata immediatamente sui principali siti di informazione: Giorgio Napolitano ha affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del capo dello Stato.
L’inchiesta sulla “trattativa” tra Stato e mafia agita sempre di più il sonno del presidente della Repubblica evidentemente molto timoroso che il contenuto delle intercettazioni di alcune telefonate dell’indagato Nicola Mancino non sia distrutto al più presto. Questa gravissima presa di posizione del Colle lascia di fatto intravedere il tentativo di bloccare con ogni mezzo un’indagine delicatissima che intende fare luce sul cuore nero dello Stato. Quello Stato-mafia che ha trattato con Cosa Nostra e che è complice di tutti i morti ammazzati nelle stragi del ‘92/’93. “Dalla motivazione – ha spiegato Messineo – si ricava che questa iniziativa è stata attivata perché le intercettazioni, anche se indirette, sono lesive delle prerogative del Capo dello Stato. Nel nostro caso ci troviamo in presenza di un'intercettazione occasionale, di un fatto imprevedibile che a mio parere sfugge alla normativa in esame. Non c’è stato alcun controllo sul Presidente della Repubblica”. “Ovviamente io e i colleghi della Procura abbiamo preso atto dell'iniziativa, ma non conoscendo la motivazione del ricorso alla Corte costituzionale non è possibile formulare alcuna ipotesi”. “I chiarimenti sono stati già dati all'Avvocatura dello Stato – ha ribadito quindi il procuratore di Palermo – . Mai la Procura avrebbe avviato una procedura mirata a controllare o comprimere le prerogative attribuite dalla Costituzione al Capo dello Stato”. “Se l'intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità – ha specificato ulteriormente Antonio Ingroia – e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata. Secondo la nostra posizione per altro confortata da illustri studiosi, se l'intercettazione è rilevante nei confronti della persona intercettata, allora è legittima. Non esistono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità. E per quelle non coperte da immunità non c’è bisogno di alcuna autorizzazione a procedere”. Il procuratore di Palermo ha ribadito oggi quanto da lui già esposto nei giorni scorsi in risposta ad un paio di editoriali di Eugenio Scalfari. Una settimana fa il fondatore di Repubblica aveva definito “un illecito” le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro Nicola Mancino (indagato per falsa testimonianza nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia) e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Nell'ordinamento attuale – aveva successivamente dichiarato Messineo - nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell'ascolto e della registrazione quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione”. Il procuratore di Palermo aveva evidenziato come erano state avanzate nei confronti della polizia giudiziaria e della Procura di Palermo “gravi quanto infondate accuse di avere commesso persino ‘gravissimi illeciti’ violando non meglio specificate norme giuridiche”.  In merito alla distruzione delle intercettazioni Messineo aveva aggiunto ancora che  “si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Ciò è quanto prevedono le più elementari norme dell'ordinamento che sorprende non siano state tenute in considerazione”. Evidentemente le dichiarazioni del procuratore di Palermo non sono bastate a placare l’irritazione del Capo dello Stato. “Non esiste alcuna motivazione giuridica che giustifichi un atto del genere – ha commentato l’on. Sonia Alfano. Il Presidente Napolitano sta commettendo l’ennesimo scempio, rendendosi di fatto complice dell’isolamento dei magistrati palermitani che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Una manovra tanto più squallida, perché compiuta alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio, che fa da sfondo a quella nefasta negoziazione”. “E’ ormai evidente che bisogna difendere la democrazia e la Repubblica dalle gesta sconsiderate di Napolitano che, come colpito dalla stessa sindrome che caratterizzò gli ultimi mesi del settennato di Cossiga, sta scadendo nel golpismo e nell'attentato alla Costituzione: solo questo sarebbe il presunto conflitto di attribuzioni che il Quirinale preannuncia, in contrasto con la Carta Costituzionale, le leggi e il buon senso. Spero che le forze democratiche valutino se non ricorrano gli estremi per la messa in stato d'accusa del Presidente Napolitano”. Secondo l’art. 38 della legge 87/1953 la Corte costituzionale  “risolve il conflitto sottoposto al suo esame dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla”. Ai giudici della Corte spetterà quindi l’ultima parola. La partita è in pieno svolgimento. In campo troviamo un pugno di magistrati integerrimi che cerca di riportare alla luce una verità totale e definiva sul biennio stragista ‘92/’93. Mai come in questo momento questi magistrati stanno finendo per essere isolati e delegittimati. Sullo sfondo appare sempre più nitido un sistema di potere criminale pronto a sacrificare i servitori più fedeli dello Stato-Stato.
ARTICOLI CORRELATI

La vergogna dello Stato

Trattativa. Mancino teme l’indagine

Trattativa. Interrogato D’Ambrosio: muto con i pm, loquace con Mancino

Trattativa, nelle intercettazioni le pressioni di Mancino

Mafia: Chiesti otto anni per l’on. Romano. - Lorenzo Baldo e Silvia Cordella


romano-saverio-big
Otto anni di carcere. È questa la condanna che il pm Nino Di Matteo ha chiesto durante la sua requisitoria per l'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano, sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Un procedimento che, dopo due richieste di archiviazione da parte della Procura e un’imputazione coatta ordinata lo scorso anno dal Gip Giuliano Castiglia, è ora alle battute finali di fronte al gup Ferdinando Sestito, che il 17 luglio prossimo dovrebbe emettere la sentenza.
Secondo le accuse Romano avrebbe “stipulato un patto politico-elettorale-mafioso con Cosa nostra”,”contribuendo al rafforzamento dell'organizzazione” criminale siciliana. I fatti descritti in aula dal pm Di Matteo hanno toccato come primo punto l’incontro con Angelo Siino nel 1991 quando il politico, allora consigliere provinciale di Palermo, andò a casa dell’ex ministro dei lavori pubblici di cosa nostra, insieme a Salvatore Cuffaro, per chiedere un coinvolgimento maggiore nella spartizione degli appalti delle imprese di Belmonte Mezzagno.
Di Matteo sottolinea più volte la consapevolezza del politico rispetto al profilo mafioso di Siino richiamando il dato che Cuffaro si servì proprio del mafioso, all’epoca semplice consigliere comunale, per farlo arrivare niente di meno che “primo degli eletti a Palermo”. “Romano e Cuffaro – ha detto il pm – sapevano benissimo che peso avesse Siino dentro Cosa Nostra: in un primo momento Romano volle incontrarlo per chiedergli di tenere in considerazione nel sistema degli appalti anche gli imprenditori di Belmonte Mezzagno, suo paese d’origine. Poi all’incontro partecipò anche Cuffaro e l’oggetto del colloquio diventò quindi la richiesta di sostegno elettorale per le consultazioni regionali del 1991, in cui lo stesso Cuffaro era candidato”.
Il sostegno elettorale di Villabate e Belmonte Mezzagno
Per affermare il contributo consapevole di Romano a Cosa Nostra più volte in aula è stata citata la sentenza di cassazione a carico dell’ex presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro, due politici che hanno fatto strada insieme al punto che sarà poi Romano ad accompagnare l’ex Governatore al carcere romano di Rebibbia al momento del suo arresto. “Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”.
Entrambi politicamente fecero il loro salto di qualità nel 2001, Cuffaro alla Regione e Romano al Parlamento. Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Procura, sarebbe stato eletto nel collegio di Bagheria grazie al supporto elettorale della famiglia mafiosa di Nino Mandalà e quella di Belmonte Mezzagno, capeggiata all’epoca dal boss Francesco Pastoia, per anni responsabile della protezione della latitanza del superboss Bernardo Provenzano (morto suicida in carcere dopo la cattura del 2004). 
Ad affermarlo erano stati i pentiti Giacomo Greco (genero di Pastoia) e Francesco Campanella, l’ex presidente del consiglio del comune di Villabate che falsificò la carta d’identità di Provenzano per poter recarsi a Marsiglia ed effettuare il suo intervento alla prostata. Fu lo stesso Romano che in un pranzo romano in una trattoria a campo dei fiori alla presenza del dott. Sarno, Cuffaro e Franco Bruno affermò che Campanella, seppur di partito opposto al suo, avrebbe dovuto votarlo facendo riferimento alla loro partecipazione “alla stessa famiglia”. “Franco Bruno – aveva affermato Campanella ai pm -  conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito  Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Le Candidature di Miceli e Acanto
In cambio di quel sostegno elettorale Saverio Romano pagò quindi il suo pegno inserendo nella lista del Cdu e in quella del biancofiore due candidature volute da cosa nostra, quella di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto.
“La candidatura di Miceli e di Acanto – ha affermato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Secondo Di Matteo una delle provae più importanti del contributo offerto da Romano a cosa nostra e quindi del conseguente rafforzamento all’organizzazione si trova nelle intercettazioni ambientali registrate già dai primi mesi del 2001 a casa del boss Giuseppe Guttadauro. Dai discorsi di via de Cosmi 15 non solo emerge la corresponsabilità di Romano e Cuffaro nell’inserimento in lista di Miceli per accontentare i desiderata del capomadamento di Brancacciio ma il tentativo di Romano di incontrare in via riservata Guttadauro, in vista delle elezioni politiche, sapendo che tipo di ‘collaborazione’ ciò gli avrebbe portato.
Di Matteo ha quindi posto l’accento sul contributo politico offerto a Cosa Nostra dall’ex ministro delle Politiche Agricole, un “apporto concreto e rilevante” per la candidatura di Miceli, “concorrente con Cuffaro”, mentre “decisivo e preponderante” nella candidatura Acanto.    

ARTICOLI CORRELATI

Mafia: pm Di Matteo, concorso esterno non è un reato che non esiste

Nuove accuse per Romano. Per pm chiese assunzione genero boss
di Silvia Cordella

Rito Abbreviato per l’on. Romano, a luglio prevista la sentenza
di Silvia Cordella

“Infausti Presagi, tutte le accuse a carico dell’on. Romano” 
Ricordiamo, con molto rammarico, che Napolitano accettò la sua nomina a ministro anche se con riserva.