domenica 29 luglio 2012

Morte D’Ambrosio, Padellaro: “Sciacallaggio di Libero e Giornale”.




Il direttore de Il Fatto Quotidiano commenta i titoli ("Pm assassini" e "Condannato a morte") sul consigliere del presidente Napolitano: "Lettori e giornalisti di quelle testate dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini".


“Sono indignato come cittadino, prima che come giornalista, dallo sciacallaggio che alcuni noti giornali hanno scatenato questa mattina contro la Procura di Palermo”. Usa parole dure il direttore del Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro, per commentare i titoli apparsi questa mattina su alcuni quotidiani. ‘Condannato a morte. Stroncato da un infarto il braccio destro di Napolitano infangato dai pm di Palermo e dai giornali’ è stata, ad esempio, l’apertura scelta dal direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Un episodio drammatico come quello del collaboratore del Quirinale Loris D’Ambrosio, dice Padellaro, non può trasformarsi nell’occasione per attaccare la Procura, squalificando il lavoro dei magistrati.

“La nota del quirinale è una nota che non condivido ma capisco e comprendo – spiega Padellaro – è morto un collaboratore esterno del Presidente Giorgio Napolitano, nei giorni scorsi al centro di cronache giudiziarie. È un fatto tristissimo, di fronte al quale tutti quanti dovremmo riflettere senza specularci sopra”.
E poi prosegue: “Credo che oggi alcuni giornalisti e alcuni lettori di Libero o de Il Giornale dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini. Perché scrivere ‘Condanato a morte’ significa dire che i magistrati sono degli assassini. Mi auguro che la magistratura di Palermo non venga lasciata sola, in un momento di attacco totale e vergognoso come questo”.
Il consigliere giuridico del capo dello Stato Loris D’Ambrosio è morto per un infarto qualche giorno fa, all’età di 65 anni. Nelle settimane scorse era stato coinvolto nella vicenda delle intercettazioni ”trasversali” riguardanti l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, rinviato a giudizio per falsa testimonianza nell’ambito del procedimento sulla trattativa Stato-mafia a Palermo. ”Era stato esposto a insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose” ha detto commosso il presidente Napolitano, commentando la sua scomparsa.

Ironizzando...



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Infarto di Stato. - Marco Travaglio


Mentre stormi di avvoltoi e branchi di sciacalli si aggirano famelici attorno alla salma di Loris D’Ambrosio, additando improbabili colpevoli del suo infarto e scambiando per “assassinio” il dovere di cronaca e il diritto di critica, è il caso di rinfrescare la memoria agli smemorati di Libero, Giornale, Foglio, Corriere, Stampa e Repubblica, ieri macabramente uniti nel mettere alla gogna Il Fatto Quotidiano nel tentativo (vano) di spegnere ogni residua voce di dissenso.
Un’operazione tanto più indecente e ricattatoria in quanto, di fronte alla morte, tutti ammutoliscono nel doveroso cordoglio e non è molto popolare azzardarsi a criticare i morti per quel che han fatto da vivi. Ma a chi non rinuncia al dovere di informare non rimane che lasciare in pace i morti e occuparsi dei vivi, mettendo ancora una volta in fila i fatti. Se il dottor D’Ambrosio è finito sui giornali, è a causa di intercettazioni legittimamente disposte da un giudice sul telefono di Mancino e legittimamente pubblicate dalla stampa, una volta depositate alle parti e dunque non più coperte da segreto. E, se il dottor D’Ambrosio è stato indirettamente intercettato, è colpa di Mancino che ha deciso di coinvolgere il Quirinale in una sua grana privata, ma anche del Quirinale che ha deciso di dargli retta e di prodigarsi per favorirlo, mettendo a repentaglio l’imparzialità della Presidenza della Repubblica. Decisione, quest’ultima, che è rimasta finora senz’alcuna spiegazione (il Quirinale “deve” qualcosa a Mancino e, se sì, perché?). Ma che D’Ambrosio attribuiva non a una sua iniziativa personale, bensì a una precisa e perentoria scelta del “Presidente”, che “ha preso a cuore la questione” e si è “orientato a fare qualcosa”: “Il Presidente parlerà con Grasso nuovamente”, “mi ha detto di parlare con Grasso”, “parlava di vedere un secondo con Esposito”, suggeriva a Mancino di “parlare con Martelli” per concordare una versione comune, scriveva al Pg della Cassazione per “non mandare lei (Mancino, ndr) allo sbaraglio” e perché il Pg “eserciti i suoi poteri nei confronti di Grasso… Tu, Grasso, fai il lavoro tuo”, insomma “si decide insieme” e il Presidente “sa tutto, e che non lo sa?”. Sono tutte parole di D’Ambrosio, non invenzioni dei suoi assassini a mezzo stampa.
Se quelle segretissime manovre per depotenziare o addirittura scippare ai titolari l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia sono note, non è grazie alla trasparenza del Colle, ma all’inchiesta di Palermo. E, se sono finite nel nulla, non è perché il Quirinale non ci abbia provato. Ma perché Grasso le ha respinte, ricordando che l’invocato “coordinamento” delle indagini era stato assicurato un anno prima da una delibera del Csm presieduto dallo smemorato Napolitano. Checché ne dicano il Presidente e gli sciacalli, D’Ambrosio non ha subìto (almeno sul Fatto) alcuna “campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”. Se illazioni ci sono state, hanno inevitabilmente riguardato le conversazioni rimaste segrete fra Mancino e Napolitano, a causa della decisione del Quirinale di non renderle pubbliche, anzi di pretenderne la distruzione, a costo di trascinare la Procura di Palermo davanti alla Consulta con un conflitto che Franco Cordero (sul Corriere, sul Fatto e infine su Repubblica) ha dimostrato infondato. Su D’Ambrosio non c’era da insinuare o escogitare nulla: abbiamo semplicemente pubblicato e commentato criticamente, come altri giornali, le sue testuali parole intercettate. E, unico giornale in Italia, abbiamo subito intervistato D’Ambrosio per dargli la possibilità di spiegarle. Lui l’ha fatto, ma ci ha pure esternato il suo disagio per ciò che non poteva dire, essendo vincolato dal “segreto” su parole e azioni del Presidente che – ricordava ossessivamente nell’intervista – “sono coperte da immunità”.
Gli abbiamo chiesto di farsi sciogliere dal vincolo, ma dopo qualche ora ci ha fatto rispondere dal portavoce del Quirinale che il Presidente non l’aveva sciolto. Lo stesso vincolo che ha esposto lui, magistrato, a due imbarazzanti figuracce dinanzi ai suoi colleghi di Palermo, che lo sentivano come teste su ciò che aveva confidato a Mancino di sapere sulla trattativa: lui sulle prime negò tutto, ma poi, messo di fronte alle sue parole intercettate, dovette ammettere parecchie cose fra mille contraddizioni, e sfiorò l’incriminazione per reticenza. Non conoscendo personalmente D’Ambrosio, noi possiamo soltanto immaginare con quale stato d’animo un uomo tanto riservato abbia vissuto questi 40 giorni di esposizione mediatica e il drammatico ribaltamento della sua immagine: da collaboratore di Falcone nella stesura del decreto sul 41-bis a difensore d’ufficio di chi aveva revocato il 41-bis a centinaia di mafiosi, o almeno non l’aveva impedito.
Insomma, da servitore dello Stato a servitore di Mancino. Ma, se Napolitano avesse ragione a collegare la sua morte a quanto è stato scritto di lui, dovrebbe anche domandarsi chi ha esposto D’Ambrosio a quelle critiche, a quelle figuracce e a quel ribaltamento d’immagine: non certo chi ha riferito doverosamente le cose che aveva detto e fatto, semmai chi gli aveva chiesto di dire e di fare quelle cose.
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sabato 28 luglio 2012

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Presidente, in morte di D'Ambrosio doveva dire altro. - Massimiliano Gallo


È morto oggi Loris D’Ambrosio, consigliere del presidente Napolitano e al centro dell’attenzione per le intercettazioni con Nicola Mancino finite nelle indagini sulla trattativa stato-mafia. Noi che non abbiamo mai amato quel modo di fare indagini e giornalismo, rimaniamo però colpiti in negativo dalla tempestiva reazione del Colle. Che punta il dito contro “una campagna violenta”, per cui esprime “atroce rammarico”. In un momento come questo, dal Presidente della Repubblica, avremmo voluto tutt’altro atteggiamento.
No, presidente Napolitano, quella dichiarazione, quella frase non l’avrebbe mai dovuta dettare a poche ore dalla morte di Loris D’Ambrosio. Una dichiarazione che un presidente della Repubblica, e presidente del Csm, non deve mai sottoscrivere, e a nostro avviso nemmeno pensare. Quella frase “atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato” suona come un’accusa di omicidio, preterintenzionale fin quanto si vuole, ma suona come un’accusa di colpevolezza nei confronti del Fatto quotidiano. E anche, perfino, di quella magistratura che quelle indagini stava conducendo.
Ora, qui a Linkiesta abbiamo sempre scritto il nostro pensiero su una vicenda che adesso nessuno più toglierà mai dal già ricolmo cassetto dei misteri della repubblica italiani. E il nostro pensiero era ed è che non si può costruire un’accusa così grave sulla base dell’ascolto di conversazioni telefoniche: nè da un punto di vista giudiziario nè, tantomeno, da un punto di vista giornalistico. Tanto che non avevamo esitato a schierarci col presidente Napolitano e la sua scelta di intraprendere la via del conflitto di attribuzione tra poteri costituzionali: perchè, in piena coscienza, un presidente della Repubblica ha il diritto e il dovere di tutelare il proprio ruolo, al di là di se stesso, nelle forme che la Costituzione prevede.
Ma neppure a chi, come giornalista, ha duramente criticato quella campagna di stampa, sarebbe venuto in mente di associare quelle pagine di intercettazioni all’infarto che oggi ha stroncato il consigliere giuridico del Quirinale. Figuriamoci a un’autorità qual è il presidente della Repubblica, cui si richiede quel sangue freddo, quella calma, quel senso di unità nazionale che oggi francamente non abbiamo ritrovato in quelle dichiarazioni. Lei rappresenta lo Stato italiano, è il capo dello Stato. Suo compito è unire, giammai dividere.
Di tutto, francamente, aveva bisogno l’Italia in queste ore tranne che di una nuova ridda di accuse e sospetti che contribuiranno ancora una volta a dividere il nostro Paese in guelfi e ghibellini. Queste dichiarazioni, così rapide, esplicite e in definitiva fuori luogo del presidente della Repubblica, rafforzano i complottisti di ogni sorta, e invece di svelenire un clima tesissimo in un paese spaventato peggiorano un’aria già grama. Proprio il contrario di quello che ci saremmo aspettati dall’autorità morale di Giorgio Napolitano.
http://www.linkiesta.it/napolitano-d-ambrosio-morte