martedì 21 agosto 2012

Fisco, niente accordo tra Italia e Svizzera. Intanto gli evasori scappano. - Vittorio Malagutti


Eveline Widmer Schlumpf monti interna nuova


Nel Paese elvetico cresce l’opposizione popolare all'operato del governo di Berna. Così, mentre Regno Unito e Germania hanno portato a casa delle "intese lampo" (non oltre 6 mesi), Monti continua a promettere lotta senza quartiere a chi non paga le tasse, ma non trova risultati oltre le Alpi.

Tedeschi e inglesi ce l’hanno fatta in sei mesi o poco più. Negoziati lampo e poi l’annuncio: Londra e Berlino hanno siglato un accordo con la Svizzera per recuperare i soldi degli evasori fiscali nascosti nelle banche della Confederazione. Correva l’anno 2011, mesi di settembre e ottobre. In Italia invece andiamo avanti a chiacchiere e promesse. Passati i tempi del ministro Giulio Tremonti, inventore dei condoni quasi tombali per i furboni delle tasse ma ferocemente contrario a ogni accordo con la Confederazione, i cosiddetti tecnici guidati da Mario Monti hanno fin qui prodotto una montagna di parole. Inutili. Anzi, peggio, dannose per le casse dello Stato. Perché la strategia degli annunci a cui non seguono i fatti finisce per mettere sull’avviso gli evasori nostrani che hanno tutto il tempo, con la volonterosa collaborazione delle banche elvetiche, per trasferire i loro tesoretti in paradisi offshore al riparo del fisco nostrano. Posti fuori mano, ma molto efficienti, tipo Singapore o Dubai.
“Quasi ci siamo”. “L’accordo è vicino”. “Negoziato alla stretta finale”. Titoli come questi accompagnano da mesi i faticosi negoziati tra l’Italia e la Svizzera, mentre gli evasori e i loro commercialisti studiano strategie alternative. Ultimo esempio di una lunga serie di parole a vanvera sono quelle pronunciate dal premier nella sua intervista al settimanale ciellino Tempi, un’intervista destinata a fare da apripista all’intervento di oggi dello stesso Monti all’apertura dell’annuale Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. “Stato di guerra contro l’evasione”, ha scandito il capo del governo, che due giorni fa ha anche incontrato la presidente svizzera Eveline Widmer Schlumpf. Il rendez vous serviva a fare il punto sullo stato dei negoziato tra Roma e Berna.
La cornice dell’incontro, come si dice in questi casi, pare altamente simbolica. Le splendide vallate dell’Engadina, luoghi a tolleranza zero per chi butta un mozzicone per terra o lascia l’auto in divieto di sosta, sono costellate di ville e appartamenti frutto dell’evasione fiscale italiana. Un’evasione a sei zeri, non quella del pizzicagnolo della porta accanto che magari si affida a spalloni di fortuna. A Sankt Moritz, Silvaplana, Sils approdano banchieri, finanzieri e grandi professionisti. Chissà se Monti, che da decenni ama villeggiare da quelle parti si è mai fatto qualche domanda in proposito.
Intanto il capo del governo di Roma e la collega svizzera sono stati costretti a prendere atto che la strada verso l’intesa in materia fiscale è molto lunga e ancora più ripida dei vicini tornanti del passo del Maloja. L’esecutivo di Berna deve tenere a bada le proteste dei partiti nazionalisti (Udc e Lega dei Ticinesi) che gridano alla svendita del segreto bancario, alla resa di fronte allo straniero, perfino di fronte agli italiani. E per dare il colpo di grazia a ogni possibile intesa sono già sulla rampa di lancio almeno un paio di referendum popolari che in Svizzera, come noto, sono uno strumento di democrazia diretta usato con grande frequenza.
Per ingraziarsi gli oppositori la Widmer Schlumpf, descritta dalla lobby bancaria come una pericolosa estremista, si vedrà costretta a chiedere contropartite forti a Roma. Per esempio in tema di ristorni fiscali sulle tasse prelevate alla fonte in Svizzera dagli stipendi dei frontalieri italiani. Soldi che tengono in vita decine di comuni di confine. Altro tema caldo è quello della black list. La Confederazione è considerata “Stato non collaborativo” in materia fiscale e questo espone le aziende elvetiche che lavorano in Italia a una lunga serie di adempimenti burocratici.
L’ipotesi di intesa tra l’Italia dovrebbe ricalcare a grandi linee gli accordi già raggiunti con Regno Unito e Germania. In pratica, gli evasori nostrani verrebbero tassati con un prelievo una tantum sui loro depositi svizzeri. Un prelievo particolarmente elevato, che nel caso dell’accordo tedesco, per esempio, è stato fissato al 34 per cento. E per il futuro i redditi dei capitali così emersi sarebbero tassati con aliquote stabilite tra i due stati. Per la Germania è previsto il 26,3 per cento, mente nel caso inglese si arriva al 48 per cento.
Le critiche a questo schema si fondano in primo luogo sul fatto che gli evasori lascerebbero i loro soldi in Svizzera mantenendo comunque l’anonimato. Inoltre non ci sarebbero sufficienti garanzie che le banche elvetiche collaborino fino in fondo denunciando per intero i capitali nei loro forzieri. Questi rilievi sembrano in parte fondati, ma nessuno tra i critici (tra cui non mancano ex collaboratori di Tremonti e sostenitori del suo condono agli evasori) ha fin qui segnalato come si possa far rientrare altrimenti una massa importante di capitali nascosti in Svizzera seguendo le regole dello stato di diritto. Soldi, si parla di una trentina di miliardi di possibile gettito, che farebbero gran comodo alle casse esauste del nostro Stato.
Certo, ci sarebbe il metodo americano. Nei mesi scorsi il governo di Washington è passato a vie di fatto per costringere Berna a siglare un accordo sul fisco. Ecco, in breve, la ricetta Usa: arresto di banchieri svizzeri sul territorio degli Stati Uniti, minaccia di boicottaggio commerciale e di blocco delle attività svizzere sul suolo statunitense. Sembra improbabile che Roma avrà il coraggio di imitare l’alleato americano.
Del resto anche il cancelliere Angela Merkel ha i suoi problemi per fare digerire l’intesa con Berna ai cittadini tedeschi. La sinistra (socialdemocratici e verdi) si oppone all’accordo perché lo considerano troppo blando nei confronti degli evasori e con il loro voto contrario sono in grandi di bloccare la ratifica delle nuove norme al Bundesrat, la cosiddetta camera delle regioni dove l’opposizione ha la maggioranza. Come se non bastasse, il land del Nord Reno Westfalia (dove si trovano città importanti come Dusseldorf e Colonia) si è procurato (forse a pagamento) un cd contenente un elenco di clienti tedeschi di alcune banche svizzere. Berna protesta per quello che considera furto di dati. Il governo federale di Berlino è imbarazzato, ma non può far niente contro le autonome decisioni di un land. E così, alla fine, perfino la Merkel potrebbe essere costretta ad alzare bandiera bianca. E allora niente più intesa con la Svizzera. Con grande soddisfazione degli evasori tedeschi.
Da Il Fatto Quotidiano del 19 agosto 2012

Palermo, azzerata la squadra antimafia. E anche in procura arriva il turnover. - Giuseppe Pipitone


carabinieri


Nel capoluogo siciliano, in autunno, andrà in scena un vero e proprio giro di vite. Come per il maggiore Antonio Coppola, capo del nucleo investigativo, per il quale i pm della Dda hanno chiesto di bloccare il trasferimento. Negli stessi mesi in cui saranno sostituiti i vertici investigativi dell’Arma, anche negli uffici del palazzo di giustizia avverrà una massiccia rotazione.

I cacciatori di mafiosi più esperti sostituiti tutti nello stesso momento e rimpiazzati di punto in bianco da colleghi con minore esperienza sul campo. E nello stesso periodo anche la procura sarà animata da un corposo turn over che coinvolgerà diversi magistrati della direzione distrettuale antimafia: se non è l’anno zero delle indagini su Cosa Nostra, poco ci manca. Quel che è certo è che in autunno, a Palermo, andrà in scena un vero e proprio giro di vite sul fronte antimafia. Nomi importanti che rappresentano la memoria storica dell’Arma nella lotta alla mafia. Come quello del maggiore Antonio Coppola per esempio. Coppola è il comandante del nucleo investigativo dei carabinieri, autore delle principali indagini che hanno portato all’azzeramento dei vertici di Cosa Nostra, la piovra dalle mille teste, che tenta continuamente di riorganizzarsi: durante l’operazione Araba Fenice (coordinata proprio da Coppola), venne filmato il summit dei boss palermitani che avevano deciso di ricostituire la Cupola, prima di finire tutti in manette. Adesso il maggiore dovrà lasciare Palermo, smetterla di occuparsi di mafia per essere probabilmente trasferito al nucleo tutela patrimonio culturale di Roma. Una scelta che non è piaciuta a 35 magistrati dell’antimafia, che hanno scritto al procuratore capo Francesco Messineo per chiedergli di intercedere con i vertici dell’Arma e ritardare il trasferimento di Coppola.
“Non si possono azzerare i vertici degli organi investigativi dell’Arma tutti nello stesso momento: questa è un’iniziativa senza precedenti che credo non si sia mai verificata negli ultimi 30 anni” commenta Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo. Oltre a Coppola, stanno infatti preparando le valigie anche altri uomini di punta nella caccia ai boss mafiosi. Come il colonnello Paolo Piccinelli, per esempio, che alla guida del Reparto Operativo ha smantellato la rete di fiancheggiatori del boss Gianni Nicchi. O come il generale Teo Luzi, coordinatore delle indagini sul misterioso omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, l’ex deputato di An assassinato a colpi di bastone due anni e mezzo fa da un uomo in motocicletta rimasto ancora oggi senza volto. In autunno andranno via anche i colonnelli Giuseppe De Riggi e Pietro Salsano, che guidano i gruppi di militari a Palermo e Monreale. “Il dato allarmante – spiega Teresi – è che i vertici dell’Arma destineranno a quei delicati incarichi ufficiali con quasi nessuna esperienza in fatto di lotta alla mafia: non si può pensare che i nuovi investigatori facciano esperienza sulla pelle delle nostre indagini, sarà quindi naturale per noi magistrati coordinarci maggiormente con le altre forze di polizia giudiziaria che hanno già maturato ampie conoscenze su Cosa Nostra”.
E negli stessi mesi in cui saranno sostituiti i vertici investigativi dell’Arma, anche negli uffici del palazzo di giustizia palermitano avverrà una massiccia rotazione. Se per i militari, però, gli spostamenti vengono decisi dai vertici, il turn over dei magistrati prenderà il via soltanto dopo il volontario trasferimento richiesto dalle stesse toghe. “Ci sarà comunque da riorganizzarsi” rileva sempre Teresi. Da ottobre si libereranno sicuramente due posti da procuratore aggiunto: sono quelli di Ignazio De Francisci, che si trasferirà negli uffici dell’avvocatura generale dopo la votazione unanime del Csm, e di Antonio Ingroia, il coordinatore dell’inchiesta sulla Trattativa Stato – mafia che invece andrà a lavorare per l’Onu in Guatemala. Una terza poltrona da aggiunto potrebbe essere presto lasciata libera da Nino Gatto, che dopo mesi in malattia potrebbe andare in pensione. Palazzo dei Marescialli ha già bandito il concorso per i posti da aggiunto: in lizza per succedere a Ingroia e De Francisci c’è Nico Gozzo, già pm del processo contro Marcello Dell’Utri e attualmente procuratore aggiunto a Caltanissetta. Proveranno a tornare a Palermo anche il sostituto procuratore della Dna Maurizio De Lucia, il procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto Salvo De Luca, il facente funzioni di Reggio Calabria Ottavio Sferlazza e il capo dei pm di Termini Imerese Alfredo Morvillo: una corsa apertissima in cui gli appoggi interni al Csm sono fondamentali.
Se n’è accorto Roberto Scarpinato che rischia di essere tagliato fuori dalla corsa alla procura generale di Palermo dal procedimento disciplinare richiesto dal consigliere del Csm Nicolò Zanon, dopo il suo intervento in via d’Amelio il 19 luglio scorso. Sfidante del procuratore generale nisseno è Francesco Messineo: l’attuale procuratore capo di Palermo era stato indicato per la poltrona di procuratore generale dalla commissione incarichi direttivi del Csm, che avrebbe dovuto votare il nuovo procuratore generale entro fine luglio. La riunione plenaria è stata però spostata a settembre e indiscrezioni lasciano immaginare come Messineo possa alla fine pagare il ciclone istituzionale che si è scatenato dopo che il capo dello Stato è ricorso alla consulta sollevando un conflitto d’attribuzione contro il suo ufficio.
Se il Csm dovesse riaprire i termini, in lizza potrebbe tornare il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte, che non ha mai ritirato la domanda per la procura generale. E a breve potrebbe anche aprirsi la battaglia per la poltrona di procuratore capo: se Messineo dovesse pensare di cedere il passo, in corsa per l’ufficio che fu di Giancarlo Caselli ci sarebbero Sergio Lari e lo stesso Lo Forte.

lunedì 20 agosto 2012

Il colosso di Appennino di Giambolgna alla periferia di Firenze...




Una divinità tellurica, dall'amore che tocca la terra.


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Meteora-Thessaly-Greece.



Queste sono immagini estasianti.
Un insieme simbiotico del rapporto tra natura e uomo.

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La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa. - Ilvo Diamanti



Una volta l'arena politica era occupata dai partiti e i politici erano, di conseguenza, gli eletti dai cittadini. Ora i parlamentari si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo verametne. Così sono divenuti sempre più impopolari.


LA DISSOCIAZIONE fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare "come se". Tutto fosse come prima. Quando l'arena "politica" era occupata dai partiti e i "politici", di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini. Nelle liste promosse e proposte dai "partiti". Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito "politico" in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "intercettato" durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell'inchiesta, dall'altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell'intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell'inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di "abusi" nell'ambito delle intercettazioni. E, ancora, l'Anm, intervenuta a sostegno dell'azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all'economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l'attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l'assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. "Eletti" in assemblee "elettive". Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa. 

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri "costitutivi" della democrazia. Che concorrono a "garantire" e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell'Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa. A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al "campo politico" in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall'importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l'immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I "politici", cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari. 

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i "politici" si sono presentati come "antipolitici". Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti. Un'altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo "tecnologico". Questa, infatti, è l'epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L'economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull'andamento dei Mercati. Ed essa stessa, a sua volta, è un "mercato". 

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D'altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato. Conservato in archivi immateriali. Siamo nell'era dell'Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l'eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e WikiLeaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l'Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il "ridicolo" diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione "pop". Pardon: punk. 

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico  -  portata alle estreme conseguenze da quasi vent'anni di berlusconismo  -  hanno minimizzato il ruolo e l'importanza dei "politici di partito". E dei "partiti politici". Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all'inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro.

Personalmente, mi preoccupa l'eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla. Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa "senza" partiti. Ma neppure "con questi" partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.

“Le telefonate di Mancino a Napolitano non rientrano nelle tutele della Carta”. - Giovanna Trinchella


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Il senatore dell'Italia dei Valori Luigi Li Gotti sostiene che in un verdetto del 2004 la Consulta ha già stabilito che il capo dello Stato è uguale agli altri cittadini: "La pretesa di Napolitano di volere sottoporre a un regime speciale le sue telefonate, quelle ricevute, è fuori dai principi costituzionali affermati della Consulta, è al di fuori di atti tipici, individuati dalla sentenza".

“La Corte Costituzionale ha giá detto che tutti i cittadini sono uguali, anche il capo dello Stato. Buona lettura anche al nostro Presidente”. E’ il senatore dell’Idv Luigi Li Gotti sul suo sito a citare un verdetto della Consulta, datato 26 maggio 2004, che ha stabilito che il perimetro entro il quale il presidente della Repubblica è immune si apre e si chiude nell’ambito dell’esercizio delle funzioni costituzionali, come sancito dall’articolo 90 della Costituzione. In questo caso i giudici decisero su un conflitto sollevato da Francesco Cossiga dopo una condanna a risarcire in sede civile per diffamazione i parlamentari Flamigni e Onorato dando torto al “Picconatore” e stabilendo che è il giudice ordinario a definire quali siano le funzioni costituzionali.
“Ricevere una telefonata da Mancino non è stato un esercizio delle funzioni” dice il senatore al fattoquotidiano.it, e alla domanda se questo verdetto si attagli al caso Napolitano-Procura di Palermo Li Gotti non ha dubbi: ”Sì, il principio è questo: è l’applicazione dell’articolo 90. La sentenza della Consulta ha individuato quali sono gli atti funzionali per i quali si applica l’articolo 90 nell’esercizio delle funzioni e gli atti invece non funzionali del presidente della Repubblica per i quali è un normale cittadino e quindi il principio si estende anche alle telefonate. La pretesa di Napolitano di volere sottoporre a un regime speciale le sue telefonate, quelle ricevute, è fuori dai principi costituzionali affermati della Consulta, è al di fuori di atti tipici, che individua la sentenza. E poi non esiste nessuna altra norma costituzionale che possa privilegiare il ruolo del capo dello Stato. Tanto è vero che Cossiga a seguito di quella sentenza della Consulta pagò 40 mila euro a due parlamentari”. Di quella corte, che stabiliì questo principio, era presidente Gustavo Zagreblesky, che proprio venerdì in un intervento sul quotidiano la Repubblica ha invitato Napolitano a ritirare il conflitto
Le telefonate tra il Quirinale e l’ex presidente del Senato, indagato a Palermo per falsa testimonianza, sono secondo Li Gotti fuori dal quel perimetro di insindacabilità: “La Corte Costituzionale in quella sentenza interviene delimitando il campo di qual è la materia delle funzioni, affermando peraltro un altro principio per cui l’unico che può stabilire se si tratti di attività nell’esercizio delle funzioni o meno è il giudice ordinario. E’ questo il principio e infatti qualora il giudice dovesse sbagliare ci sono i rimedi come l’appello, il ricorso in Cassazione ma non il conflitto di attribuzione”.
Sul destino del conflitto tra il Colle e i magistrati che indagano sulla trattativa mafia-Stato Li Gotti ha la sua previsione: “La mia prognosi è che se la corte afferma il medesimo principio dovrebbe concludere che non esiste un conflitto di attribuzione, né potrebbe dire la corte che il legislatore può fare una norma allargando la platea dell’articolo 90 perché sarebbe un aggiunta e le aggiunte non si fanno in materia costituzionale”. Sulla lacuna normativa che molti intravedono nella materia l’avvocato-senatore esprime un dubbio e argomenta la sua convinzione: “Lacuna? C’è forse una lacuna nell’ordinamento; però voglio dire per quale motivo le esternazioni di Cossiga possono essere sindacate, anche da capo dello Stato come da comune cittadino, e sulle telefonate che riceve il capo dello Stato il magistrato dovrebbe arrendersi e distruggerle? Ecco dov’è l’equilibrio tra i principi affermati pochi anni fa dalla corte Costituzionale? Corte anche composta da Onida (il costituzionalista Valerio Onida, ndr) che oggi fa tutto quanto l’uomo schierato a difesa della giustezza del conflitto di attribuzione. Onida ha preso posizione, ora dice che è corretta la strada del conflitto. Invece la corte Costituzionale (di cui Onida era componente, ndr) ha stabilito che il giudice ordinario può stabilire quali sono le attività funzionali e quali no e quindi sarà il giudice ordinario che potrà stabilire se le telefonate rientano nelle attività funzionali oppure no”. 
Li Gotti conclude la sua riflessione  su Luciano Violante, senatore ex presidente della Camera che ha parlato di populismo giuridico: “Per rispondere alle critiche a Scalfari, Violante ricorre oggi ad una formula antichissima: estrae dal cilindro il ‘populismo giuridico’ con cui liquida al rango di bassa rozzezza i profili giuridici di rango costituzionale evocati nelle critiche a Scalfari-Monti-Napolitano. Gli ho ricordato sul mio blog che l’avvocato che vinse quella causa innanzi alla Consulta era il responsabile del Dipartimento giustizia del Partito comunista … oltre essere avvocato di Violante”. Una critica più velata di quella rivolta al  fondatore del quotidiano “la Repubblica” che ieri nel suo editoriale aveva “agganciato” la sua riflessione alle ragioni del Quirinale: “Il Presidente Napolitano ripercorre ora la stessa strada e tenta di farsi riconoscere come cittadino diverso dagli altri. I suoi sostenitori, con Eugenio Scalfari in testa, non leggono le sentenze. Essi non hanno tempo, perché invece devono scrivere per informare i lettori. In verità essi vogliono trasmettere ai lettori la loro ignoranza, sperando che gli venga riconosciuto lo status di “guru” ufficiale”.

Chi è Formigoni?

Formigoni: “Io innocente, i verbali falsificati dai giornalisti del Fatto”. Martina Castigliani.

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Il presidente della Regione Lombardia attacca il giornale: "Manipolato tutto, la gente crede in me e io in loro. Così continuo a lavorare fino alla fine del mio mandato. Il mio incontro con Monti? Mi sono complimentato con lui per la presa di posizione sulle intercettazioni telefoniche".

“La gente crede in me e io credo in loro e continuiamo a lavorare”, sono le prime parole che Roberto Formigoni dice, mentre passeggia pacificamente davanti al palco poco prima che Mario Monti intervenga per il discorso di apertura del meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. È l’ospite meno atteso, il presidente della Regione Lombardiaindagato per corruzione messo in discussione dalla base e dai militanti. La sua presenza è stata confermata solo tre settimane fa e se negli anni passati era una delle attrazioni del meeting, quest’anno ce lo si aspettava solo mercoledì per un incontro lontano dai riflettori. Poi l’arrivo nel primo giorno del lancio come se niente fosse, e il posto in prima fila nell’auditorium centrale dove il primo ministro Mario Monti ha parlato di politica, crescita, giovani e futuro.
Mentre il presidente del consiglio passeggiava per la fiera, Formigoni ne ha approfittato per andarsi a sedere in sala. Questo è bastato far scattare un applauso dalla platea. E il presidente dice: “Me lo aspettavo”. Nemmeno un po’ di imbarazzo da parte del presidente lombardo, che se ha qualche titubanza non la lascia trasparire e dichiara l’assoluta fiducia nei suoi sostenitori. “La gente – dice con fermezza Formigoni, – non è fessa, non si è lasciata abbindolare dalle menzogne raccontate innanzitutto da alcuni giornali e televisioni e poi seguiti pedissequamente da tutti i giornali e da tutte le televisioni. Il Fatto Quotidiano è stato il primo che ha raccontato menzogne falsificando i verbali, come io ho dimostrato, ma la gente non crede più a queste bugie, crede quello che vede e che sperimenta. Sanno chi è Formigoni e continuano ad apprezzarlo e sostenerlo”. Il presidente lombardo si riferisce agli articoli del Fatto Quotidiano sull’inchiesta giudiziaria che lo ha visto come protagonista, e conclude con un gioco di parole dicendo “i fatti sono più forti del Fatto”. Tra i verbali “Il mio ruolo non è ridimensionato né al meeting né in regione Lombardia – continua Formigoni, – e resto fino al 2013. In 17 anni da Presidente della Lombardia mi hanno mandato 14 avvisi di garanzia, questo è il quattordicesimo. I precedenti 13 sono tutti finiti nel nulla nel senso che non sono mai stato condannato, e sono stato mandato 11 volte a processo con 11 assoluzioni, quindi ho vinto 11 a zero. Questo è il quattordicesimo avviso e anche questo farà la fine degli altri, andrà a finire nel cestino della carta, per usare un’espressione elegante”.
 A incuriosire pubblico e cronisti è l’incontro che il presidente lombardo ha avuto in privato proprio con Mario Monti, in un salottino della fiera pochi minuti prima dell’inizio del discorso inaugurale. E alla domanda de Il Fatto Quotidiano.it, se il primo ministro gli abbia dato qualche suggerimento in merito alla politica chiedendogli di dimettersi, Formigoni risponde: “No assolutamente no, anche Monti come tutta l’altra gente non crede ad una virgola di quello che i giornalisti hanno scritto mille volte. Nel nostro incontro, mi sono semplicemente congratulato con lui per la splendida intervista che ha fatto a Tempi: per aver sollevato con coraggio il tema delle intercettazioni, per aver detto che bisogna fare una riforma della giustizia, che l’evasione fiscale è uno dei mali dell’Italia da scacciare e abbiamo scambiato alcune battute sul momento politico attuale che è certamente delicato”.
Roberto Formigoni seduto in prima fila nell’auditorium della Fiera di Rimini ha seguito tutto il discorso inaugurale del meeting con Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e Mario Monti. Protagonista Don Giussani citato nel corso della giornata da tutti gli intervenenti e capace di suscitare un applauso spontaneo ogni volta da parte del pubblico, l’esempio morale a cui anche Formigoni fa riferimento: “Io sono uno dei tanti aderenti a Cl, non ho alcun ruolo di guida o di capo, li ho lasciati nel 1987 quando sono entrato in politica. La responsabilità politica è personale. Don Giussani ha educato degli adulti che si assumessero le proprie responsabilità. Alcuni si sono impegnati nel mondo del lavoro, nelle aziende, altri in missione e altri ancora in politica.Comunione Liberazione è un punto di riferimento ed è un aiuto ad impostare la vita”.