Non sappiamo se Luigi Di Maio terrà ferma la decisione di lasciare già nei prossimi giorni la carica di capo politico del Movimento 5Stelle. Quel che sappiamo, al momento, è ciò che abbiamo scritto ieri dopo aver verificato la notizia con varie fonti: e cioè che ha comunicato a pochi fedelissimi l’intenzione di dimettersi prima delle Regionali in Emilia-Romagna e in Calabria (che lui non voleva, ma gli sono state imposte da uno scriteriato voto su Rousseau). Perché non ne può più di fare il parafulmine e il capro espiatorio di tutto ciò che non va e anche di ciò che va, nel Movimento e fuori. E per tentar di frenare la frana di miracolati, furbastri, poltronari, opportunisti e scappati di casa nei gruppi parlamentari. Ora può sempre darsi che cambi idea o che qualcuno gliela faccia cambiare, ma è improbabile: il ragazzo ha vari difetti, ma non è un cialtrone né un improvvisatore. A dispetto dell’apparente freddezza, a volte eccede in impulsività: come quando chiese l’impeachment per Mattarella per i no a Savona e dunque a Conte e poi due giorni dopo salì al Colle a scusarsi. Ma quella di passare la mano ha tutta l’aria di una scelta meditata da tempo e precipitata dopo la rottura col gemello diverso Di Battista sul caso Paragone. E va capita, anche da chi – come noi – non la condivide. Anzitutto per un dato che spesso si dimentica: Di Maio ha 33 anni, è stato eletto capo politico a 29, ha vinto le elezioni col 32,7% ed è diventato vicepremier e biministro quando ne aveva 31.
Non so voi, ma io a 30 anni, con tutte quelle responsabilità e tensioni sul groppone, sarei stramazzato al suolo. Lui, il “bibitaro” senza bibite, ha retto gli urti con disinvoltura e intanto ha raccolto molti risultati senza vendersi l’anima. Ha portato i 5Stelle al massimo storico e al governo. Ha rinunciato due volte alla premiership per ragioni di principio (non baciare la pantofola a B. e a Salvini). Ha scelto con Grillo un premier degno e abile come Conte. È stato un buon ministro del Lavoro (e lì doveva fermarsi, lasciando il Mise a un altro), mentre agli Esteri è presto per giudicarlo. Ha piantato in due anni quasi tutte le bandiere del M5S: il dl Dignità e il Reddito di cittadinanza; le leggi contro la corruzione, la prescrizione, il bavaglio sulle intercettazioni, la svuotacarceri, le trivelle, gli inceneritori, il gioco d’azzardo; i risarcimenti ai truffati dalle banche, il taglio ai vitalizi, ai parlamentari e alle pensioni d’oro, i referendum propositivi, le manette ai grandi evasori. Ha pilotato la svolta governista dando al M5S una classe dirigente tutt’altro che disprezzabile in diversi elementi, sia interni sia della società civile.
Ha limitato le lottizzazioni, nominando negli enti pubblici anche figure indipendenti anziché portaborse di partito (Salini e Freccero alla Rai, Tridico all’Inps, giuristi super partes al Csm). Ha gestito al meglio la crisi di agosto, risparmiandoci un voto anticipato che ci avrebbe consegnati al Cazzaro con pieni poteri e accompagnando con qualche mal di pancia il M5S sulla nuova linea Grillo: l’alleanza col centrosinistra, nella speranza di accelerarne il rinnovamento. E potrà sempre vantare due legislature e due governi senza che un solo scandalo o sospetto di corruzione o peggio di mafia abbia anche soltanto sfiorato un suo ministro o parlamentare. Purtroppo non sempre l’onestà ha fatto rima con capacità e questo, anche se è un tratto comune a tutti i partiti, Di Maio l’ha pagato più degli altri, perché chi vuole mandare a casa tutti non può essere come tutti, dev’essere meglio. Accanto alle battaglie vinte, ci sono quelle perse per mancanza di numeri (spacciate per incoerenze e voltafaccia): su Tav, Tap e riconversione dell’Ilva. E le sconfitte elettorali: dopo il trionfo del 2018, le disfatte in tutte le regioni al voto e soprattutto alle Europee, cui non è mai seguita una seria e collegiale autocritica.
E questo è il primo di una serie di errori, anche gravi, al netto della scarsa capacità di comunicare (il “mandato zero” resterà negli annali come esempio da non seguire): il salvataggio di Salvini dal processo Diciotti, lo scarso sostegno alla sindaca Raggi (che pure di errori ne ha commessi parecchi), l’eccessiva remissività sul razzismo (più parolaio che fattuale) di Salvini, le resistenze alla lotta contro i piccoli e medi evasori e la rinuncia frettolosa alle alleanze nelle regioni su candidati civici dopo l’infausta esperienza umbra, la tendenza a sospettare di tutti e quindi a circondarsi di yesmen, l’enorme ritardo nel rimetter mano all’organizzazione con i “facilitatori” tematici e territoriali e l’annuncio degli stati generali programmatici. Ma, più che i suoi errori, Di Maio sta pagando paradossalmente i suoi meriti: per esempio, aver tenuto duro sul vincolo dei due mandati e le restituzioni degli stipendi, che è il vero movente delle fuoriuscite di chi vuol tenersi lo stipendio e/o vuol essere ricandidato per la terza volta e si traveste da Solgenitsin contestando scelte politiche e regole interne a suo tempo sottoscritte, o scoprendo all’improvviso l’esistenza di Casaleggio. Forse Di Maio avrebbe dovuto anticipare l’uscita a giugno, subito dopo la débâcle alle Europee: i tanti abituati a prendersi gli applausi e a fuggire ai primi fischi l’avrebbero richiamato in servizio a forza. Certo avrebbe dovuto dialogare di più coi gruppi parlamentari. Ma, per quanto indebolito, amareggiato da tradimenti e ingratitudini, sfibrato dall’eterna graticola che lo incolpa di tutto e del suo contrario (troppo filo-Salvini e poi troppo anti, troppo anti-Conte e ora troppo filo), rimane il più capace dei suoi. Il movimentista Dibba, per dire, destabilizzerebbe il governo. Ora, per riempire il vuoto della transizione, dovrà parlare Grillo. Ma il futuro vertice dei 5Stelle, monocratico o collegiale che sia, non potrà rinunciare a Di Maio.
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