Chiudono uno dopo l’altro. A Camerino è salvato dai percettori di reddito di cittadinanza. Il patrimonio documentale italiano è in pericolo: mancano addetti e dirigenti.
Grazie a un accordo tra il Comune e la direzione generale Archivi del ministero della Cultura, all’Archivio di Stato di Camerino lavoreranno i percettori di reddito di cittadinanza. La direttrice generale Anna Maria Buzzi ha dichiarato: “È il primo progetto di questo tipo in Italia. Spero possa essere presto portato avanti in altre realtà territoriali”. Si è così evitata la chiusura della sede, che era stata paventata all’inizio del 2021, e Camerino non è l’unico caso. Se si prendono in considerazione anche solo gli ultimi mesi, ci si accorge che sono in molti gli archivi a rischio chiusura. Tra gli altri, l’Archivio di Stato di Foggia, come spiegato dalla sua direttrice ai giornali l’8 giugno. In maggio un simile allarme è stato lanciato dall’Archivio di Stato di Nuoro, in aprile da quello di Trani, mentre da gennaio è noto che gli Archivi di Stato abruzzesi corrano lo stesso rischio, soprattutto quello di Sulmona. Il 30 giugno il deputato Cassinelli (FI) ha spiegato che lo stesso rischio riguarda quello di Genova. La situazione è sempre la stessa, un solo funzionario rimasto in servizio, e ormai prossimo alla pensione, ed è una situazione “insostenibile, che peggiora di anno in anno” spiega Micaela Procaccia, presidente dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana e già funzionaria e dirigente ministeriale, entrata nel 1978, che sottolinea come questa condizione colpisca la stragrande maggioranza degli archivi, in particolar modo al Centro-Nord. “Capisco per questo la scelta di inserire i precettori di reddito pur di non chiudere – spiega – ma la pezza rischia di essere peggiore del buco: anche i custodi, in spazi tanto ricchi e delicati, devono sapere come muoversi”.
Siamo di fronte a un collasso annunciato da almeno vent’anni: nell’ultimo decennio sono andati in pensione la quasi totalità degli assunti dei primi anni 80, che avevano riempito le fila dell’allora Ministero per i beni culturali garantendo anche il funzionamento degli Archivi di Stato. Una pletora di compiti diversi, che vanno dalla selezione del materiale da archiviare (tutti i documenti prodotti da ogni amministrazione statale, dalle prefetture alle carceri, devono passare per la supervisione dei funzionari prima di essere scartati), alla conservazione dello stesso in forme e spazi idonei, fino alla fruizione da parte del pubblico. Servono funzionari archivisti, e poi amministrativi, sorveglianti e custodi, ma anche immobili e spazi adeguati. Oggi manca, in troppi casi, quasi tutto, tanto che il 10 giugno la commissione cultura del Senato ha chiesto di avviare un’indagine sulla situazione del settore. “Conosco colleghi che devono partecipare a commissioni per lo scarto dei materiali in 15 enti diversi, occuparsi della manutenzione degli spazi, e poi della sala studio e dell’utenza: da soli”, spiega Procaccia. Il personale in servizio nel 2008 nei 101 archivi e 33 sezioni era oltre di oltre 3 mila unità, mentre nel 2018 era sceso a poco più di 2.200. Nonostante l’assunzione di 190 nuovi funzionari archivisti dopo il concorso del 2016 (il primo con simili numeri dopo trent’anni) si calcola che nel 2022 saranno 279 gli archivisti operativi, contro i 600 necessari: nel 2011 erano 535. Anche i dirigenti sono meno della metà del necessario, e da anni i posti nel settore archivistico vengono coperti da dirigenti di altri settori, che non conoscono la materia.
Gli archivi non sono legati soltanto alla memoria, ma raccolgono la documentazione amministrativa del Paese. Lì sono conservati anche documenti e materiali, a volte pezzi unici, dal valore storico ed economico rilevante. Una situazione di difficoltà simile lascia spazio a sottrazioni e furti. Spesso il Nucleo tutela del patrimonio culturale dei carabinieri rinviene documenti – risalenti anche al XIV o XV secolo – sottratti nel corso dei decenni agli archivi di stato. E alcuni casi assurgono alle cronache nazionali: nell’agosto 2020 fu annunciato un furto di almeno 970 labari della Marcia su Roma dall’Archivio centrale di Stato; nel novembre 2019 fu l’eurodeputato Mario Borghezio ad essere denunciato dall’Archivio di Stato di Torino per aver sottratto centinaia di documenti (il leghista si è difeso spiegando che voleva solo fotocopiarli, ma nessun documento può uscire dall’Archivio senza autorizzazione). Inserire in questo contesto persone senza formazione né esperienza, costrette a svolgere compiti di vigilanza e custodia per non perdere i sussidi, appare un’operazione gravida di rischi.
La chiusura a tempo indeterminato che si abbatte su alcune delle sedi è solo la punta di un iceberg. Da decenni la fruizione degli utenti diventa sempre più limitata: un funzionario deve sempre essere a disposizione degli stessi durante i momenti di apertura al pubblico. E anche se durante i mesi del lockdown gli archivi sono rimasti aperti, come più volte rivendicato dal ministero e dalla direzione generale Archivi, la limitazione di orari e posti messi a disposizione, nonché del numero di documenti consultabili, li ha resi spesso quasi inutilizzabili. Solo pochi giorni fa un centinaio di accademici di tutto il mondo hanno scritto l’ennesima lettera al ministro, stavolta sulle condizioni dell’Archivio di Stato di Venezia. “Le difficoltà illustrate stanno incidendo in maniera pesantissima sulla filiera della ricerca – scrivono – con esiti devastanti per i singoli studiosi ma anche, ci pare di poter affermare, per l’immagine dell’Istituto”. Servirebbe più personale, ma questo continua a calare per i pensionamenti, mentre il concorso che avrebbe dovuto vedere la luce nel 2020 (che porterebbe all’assunzione di qualche decina di archivisti e di 8 dirigenti) è stato rinviato a data ancora da destinarsi. Nel Recovery Plan non c’è traccia degli Archivi di Stato, se non per un pur opportuno adeguamento energetico delle sedi e un investimento per la digitalizzazione del materiale (40 miliardi, di cui 500 milioni solo per il settore culturale). Ma “i processi di archiviazione informatica non sono più semplici di quelli cartacei – conclude Procaccia -. Senza personale formato e in numero sufficiente, difficile che la digitalizzazione possa risolvere qualcosa”.
ILFQ