Il premio Pulitzer Hersh sul divieto di pubblicare le intercettazioni
Ginevra - "Il 28 aprile voi giornalisti manifesterete contro le leggi che vi imbavagliano? Bene, dovete fare un lavoro collettivo: mai rinunciare. Perché quando i giornali vengono ridimensionati si prospetta un periodo in cui si commettono abusi, in cui aumenta la corruzione". Nel secondo giorno della sesta"Global Investigative Journalism Conference" di Ginevra, entra in scena Seymour Hersh, mito del giornalismo americano, premio Pulitzer 1970 per aver rivelato i retroscena del massacro di My Lai durante la guerra in Vietnam, ora firma del New Yorker. Il suo monito suona come un campanello d’allarme per tutti i media italiani, alle prese con una legge, fortissimamente voluta da Silvio Berlusconi, che potrebbe segnare la fine delle inchieste giudiziarie. Si sa come: grazie al varo di norme che vietano di pubblicare brani di intercettazioni e documenti vari, perfino per riassunto, fino al rinvio a giudizio, pena il carcere o severe ammende.
Hersh è stupito per tali misure che minacciano la stampa italiana, da lui giudicata, "vibrant", vivace. "È sorprendente vedere fino a che punto siete arrivati". Per questo giudica le mosse di Berlusconi con pesanti parole: "Mi rendo conto che in queste condizioni per voi sarà impossibile lavorare. Quel che sta facendo Berlusconi è contro la storia, contro la modernizzazione. Sbaglia". Hersh spiega perché. Sa che i giornali devono dare le notizie, non le devono nascondere, anche quando sono brutte, terribili, anche quando, giustamente, svelano gli scandali. E i politici non le vogliono leggere, danno fastidio. È preoccupante la nuova tendenza che sta prendendo piede anche altrove. L’annuncia il maestro degli scoop Usa, citando il caso dell’Inghilterra, dove le cose stanno cambiando: "Si stanno sforzando per adottare leggi più severe in materia di diffamazione. Ma c’è stata una grossa reazione".
Per mister Hersh, Berlusconi è "un uomo d’immagine, lo conosco come persona dotata di enorme controllo". In altri termini un uomo politico di potere che, per il potere, è disposto a tutto. E racconta un episodio inedito sui rapporti tra il presidente George W. Bush e il premier italiano: "Per me si è trattato di un fatto che mi ha scosso. È successo la notte prima che Bush dovesse prendere una importante decisione. Lui e Berlusconi hanno avuto delle conversazioni private. Posso solo immaginare che cosa i due si sono detti, forse è roba forte". Poi Hersh aggiunge un commento: "Berlusconi non è mai stato trattato con rispetto, perfino da Bush. Lo ha supplicato di venire in Italia, subito dopo la strage dell’11 settembre. Lo ha implorato di essere preso in considerazione, di essere invitato a una cena di Stato alla White House. Voleva proprio stare con Bush, lì. Non avete idea delle pressioni da lui esercitate".
Poi il principe del giornalismo investigativo d’Oltreoceano ricorda l’unico suo contatto con ambienti berlusconiani, all’epoca in cui stava ultimando il suo nuovo libro Chain of command. È capitato quando è scoppiato lo scandalo delle forniture di uranio da parte di una nazione africana all’Iraq. La vicenda porta al Niger, paese che avrebbe dovuto aiutare Saddam Hussein a ricostituire l’arsenale nucleare. Protagonista, una collega di Panorama, del gruppo Mondadori, quindi di Berlusconi. Peccato che la documentazione relativa a questa storia fosse falsa, e come tale rivelata dalla giornalista del settimanale. Dice Hersh: "Lei ha portato la sua ricostruzione al direttore, che, invece di pubblicarla, l’ha girata alle autorità italiane. È finita invece nelle mani dei servizi segreti, e, tramite loro, all’America. Questo non è il nostro lavoro".
Infine il caso Roberto Saviano criticato da Berlusconi, perché Gomorra "promuove" la mafia. Per Harsh è "incredibile. É tutto molto triste. Saviano ha fatto tanto per l’immagine dell’Italia, ma anche della stampa. Tempo fa sono stato a Perugia per una conferenza. La piazza era stracolma, file lunghissime: stavano tutti ascoltando Saviano".
Da il Fatto Quotidiano del 24 aprile
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 26 aprile 2010
'Vi imbavagliano con una legge? Dovete scendere in piazza' - Leo Sisti
"Candeggiamo Samir": cori razzisti in un bar di Treviso contro una giovane di colore
A denunciarlo gli stessi avventori, sconvolti da quanto accaduto. «La ragazza è stata costretta a cambiare locale» raccontano alcuni di loro. Ma il titolare del locale prende le distanze. Che durante il fine settimana (era un sabato sera) sia successo qualcosa lo testimoniano le svastiche e le scritte, vergate con l’indelebile nero sui muri della case vicine al bar. Quelle che il lunedì dopo il titolare s’è visto costretto a raschiare via, con tante scuse al vicinato.
A raccontare quanto accaduto però sono lettere e telefonate, arrivate a la tribuna da parte di ragazzi che quella sera hanno assistito alla scena. Era circa mezzanotte. Serata come tante tra chiacchiere, birra e vino. All’improvviso arriva un folto gruppo di ragazzi appartenenti all’estrema destra. Una trentina di giovani della curva, ma non solo. Con loro anche delle ragazze. «Si capiva che erano su di giri» racconta M.. Prendono da bere, fanno gruppo, sotto tiro finisce una giovane di colore. «Hanno cominciato a guardarla male, a fare commenti vergognosi - segue la denuncia di M. - Poi, per far capire più chiaramente che si rivolgevano proprio a lei, hanno intonato una specie di stupido coro da stadio». Le parole erano «candeggiamo Samir, candeggiamo Samir». Chiaro il riferimento alla candeggina a effetto sbiancante, gergo già usato negli stadi di calcio all’indirizzo di giocatori di colore come Vieirà o Kallon. «Lo urlavano tutti insieme - racconta un altro testimone - a un metro da lei».
Tra i presenti molti restano a bocca aperta, qualcuno chiede che diavolo stiano cantando. Loro ripetono parola per parola e, incuranti delle facce stupite, proseguono. A quel punto la ragazza e i suoi amici hanno preferito andarsene, per evitare che la situazione degenerasse. Ma se ne sono andati anche clienti del bar. La gazzarra dell’estrema destra non finisce, prosegue dentro il locale: altri cori, battute, filmati e fotografie con il cellulare per immortalare la serata.
«Senza che nessuno intervenisse per mettere fine alla parata» racconta preoccupata una ragazza. Va avanti così fino alla chiusura. Quando la serranda si abbassa, per chiudere il sabato vengono anche lasciati segni sui muri. «Inaccettabile che possano accadere cose simili» dicono amaramente molti testimoni. Ma il gestore getta acqua sul fuoco: «Cori razzisti? Non mi pare - dice - nemmeno cori all’indirizzo di una ragazza di colore, che non ricordo di aver mai visto quella sera. E’ vero - spiega - c’era una festa dei ragazzi di Forza Nuova, salutavano un amico che partiva. C’è stata più confusione del solito ma nulla di male, altrimenti sarei intervenuto». Restano le svastiche da cancellare.
Furto all'albero Falcone, simbolo dell'antimafia
di Maria Loi - 25 aprile 2010 - FOTO!
Palermo. Un fatto gravissimo è accaduto nella notte tra sabato e domenica. Sono stati portati via dall’“albero di Falcone” centinaia di messaggi, disegni e lettere lasciati negli anni da cittadini e studenti in ricordo del giudice Giovanni Falcone ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992.
A segnalare alla polizia il furto è stato il portiere del palazzo sito in Via Notarbartolo (dove abitavano il giudice Giovanni Falcone e Francesca Morvillo) di fronte al quale si innalza l’albero, una magnolia, divenuto il simbolo della lotta alla mafia per tutti i cittadini onesti.
Sono stati presi anche la foto del giudice Falcone con il suo agente di scorta Rocco Di Cillo ed un lenzuolo bianco con scritto “le vostre idee camminano sulle nostre gambe”. Le indagini dovranno accertare se si tratta di un atto vandalico o di un preciso avvertimento di stampo mafioso.
Maria Falcone non ha dubbi: “Sono un atto contro mio fratello, contro quello che rappresenta e contro il simbolo in se” ha detto la sorella del giudice che domani, a mezzogiorno, porterà sull'albero Falcone altri messaggi realizzati dagli studenti delle scuole elementari e medie di Palermo; in linea il messaggio del procuratore Nazionale antimafia Pietro Grasso che ha invitato i palermitani e le associazioni antimafia a mobilitarsi per ricostruire quello che è stato distrutto.
Ha parlato di “un palese sfregio a un simbolo della memoria” il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, titolare di numerose indagini antimafia tra cui quella sulla presunta trattativa tra lo Stato e cosa nostra. “Tra la mano mafiosa e la ragazzata ci sono dei passaggi di gravissimo teppismo che evidenziano il livello di scarsa considerazione di un luogo simbolo come l'albero Falcone che dà motivo di grande tristezza”.
Anche il presidente dell'Anm di Palermo, Antonino Di Matteo ha commentato l’episodio come “un gesto gravissimo da un punto di vista simbolico” ma “sono convinto - ha aggiunto - che nemmeno cento di questi gravissime gesti potranno fermare questo forte vento di desiderio di pulizia e legalità a cui stiamo assistendo”.
FOTOGALLERY: L'albero Falcone deturpato
La redazione di ANTIMAFIADuemila esprime piena solidarietà alla famiglia Falcone nella speranza che vengano presto individuati i responsabili del vile gesto che infanga la memoria di uno dei simboli più nobili della lotta alla mafia.
Mafia e potere a Milano, una pie'ce che non fa ridere - Giulio Cavalli e Gianni Barbacetto
Gli affari, gli appalti, l’assalto all’Expo.
O l’hanno già percorso quel tratto di strada che li separa dal palazzo della politica e dell’amministrazione? Certo, qualcosa di marcio l’hanno già fatto nell’hinterland e in altri centri delmilanese. Uno stralcio del testo teatrale, musicato da Gaetano Liguori, che è una graffiante denuncia sul malaffare in Lombardia.
Qualcuno si è allarmato? Per questo incesto tra uomini della politica e uomini delle cosche? No. A Milano l’emergenza è quella dei rom. O dei furti e scippi (che pure le statistiche indicano in calo). Quando scippano un rom magari è proprio un trionfo. La mafia a Milano non esiste, come diceva già negli anni Ottanta il sindaco Paolo Pillitteri. «Non appartiene a questa città», come dice l’appunto lieta Letizia Moratti sindaco in carica. Se la cronaca è nera, nerissima, allora è solo un problema di lavaggio, di temperatura, di ammorbidente della distrazione. A Milano che «la mafia non esiste» ormai la sindachessa ha provato a ripeterlo ovunque, dai Consigli comunali alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi.
Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale Antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un Lazzaro non risorto per un pelo) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo in agosto che nella “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata, come segnalato dal pm Nicola Gratteri (che di ’ndangheta un po’ ne conosce, avendone studiato la storia, morsicato alcuni locali e relativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone), la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalzano responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli.
Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito. Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i sei caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic, semplicemente un “neo”, una pozzan ghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto. Negli uffici della Direzione nazionale antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale Antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ’ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni Ottanta. L’ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’Expo e non so più come dirlo». Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un Paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità.
Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.
E intanto l’illegalità pascola L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ’ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma. Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nello strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste.
Una regione che mette i moniti dei procurato pozzanri antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perché non l’hanno mai trovata. Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina. Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi, cravattari, amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’“insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso un politico di una città qualsiasi, calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscito a mettersi nella situazione di dover essere smentito per un allarme che da decenni è già rientrato perché metabolizzato: endovena, silenzioso.
Impunito, appunto. Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità. E allora, e allora sarebbe da andare in giro a spararla questa storia che insiste per non farsi raccontare. Sarebbe da scriverla sulle bustine dello zucchero per la colazione giù al bar, sarebbe da registrare nella radiosveglia, gridarla nei microfoni delle casse al supermercato. Una regione che racconta tutti gli anni con il grembiulino Libero Grassi mentre in via Verdi a Milano, di fianco alla Scala, un gioielliere deve impachettare ventimila euro come regalo di Natale. Una regione che proietta Peppino Impastato per comprarsi indulgenze e non riesce nemmeno ad annusare Antonio Galasso a Pieve Emanuele, i Rispoli di Cirò che orto fruttano a Legnano dove Vincenzo apriva tutte le mattine la Bidi bodi bu, i gelesi a San Giuliano e Melegnano, gli Iacono della Stidda dei Madonia con un centro estetico e impresa edile a San Donato, o Francesco Perspicace: nato a Caltagirone una cinquantina di anni fa ma esportato a Sant’Angelo Lodigiano da un bel pezzo con un’im presa di pulizie, una quota in “iniziative immobiliari” e una fedina penale di sedici anni di condanna per una sparatoria in via Faenza il 9 maggio 1998.
Un’altra agenzia, la Ad Case, vede tra i soci Ferdinando Perspicace di Caltagirone e per non farsi mancare niente anche, in passato, Arturo Molluso, dell’omonima famiglia originaria di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Hanno messo le radici a San Donato i Molluso e sono considerati legati ai clan Cappelli-Pipicella e vicini ai Calaiò. Uno di loro, Pasquale Molluso, è socio della Gra immobiliare. Il trentaquattrenne Arturo, residente a Spino d’Adda, è presente anche in altre agenzie, come la Mocasa, sede a Milano in via Riva di Trento. Nomi, nomi, fatti, scie con i numeri e l’impeto di un fiume prima della cascata ma con il rumore di un rivolo. Ma non potranno essere sempre impuniti, impuniti loro e impuniti tutti quelli che non sentono e non vogliono sentire, in una palude di immobile e latente inciviltà dove informare è un atto di coraggio. Non si potrà stare a lungo impuniti a forza di giocare a fare i sordi: magari mangiati, comprati, giudicati, annessi o complici. Perché il silenzio è complice, il silenzio è pace, il silenzio è calma, il silenzio è rosa.
Tratto da: gliitaliani.itUn anno dopo. Le Ecoballe di Bertolaso _ Pietro Orsatti
A quasi un anno di distanza da quando è stato realizzato, riproponiamo questo reportage. La ragione è evidente. La situazione nella “terra dei fuochi” non è cambiata una virgola.
Come non è cambiato il pudore di gran parte dei media nazionali nel parlare di un territorio che è totalmente sfuggito fuori dal controllo dello Stato e dove a volte (troppo spesso) lo stesso Stato diventa una parte, e non piccola, del problema. Quel giorno eravamo in quattro. Francesco Piccinini, Nello Trocchia, un fotografo napoletano di cui non ricordo il nome e io. Stravolti, anche se ci aspettavamo in gran parte quello che poi ci siamo trovati davanti, a sera ci ritrovammo a mangiare dagli amici di NCO (Nuova Cucina Organizzata) a Casale: si cercava di ridere, ma a fatica. Non è facile far scattare l’interrutore che ti consente di tornare alla normalità dopo una giornata del genere. Non so gli altri. Io i vestiti che indossavo quel giorno li ho buttati.La terra dei fuochi è in piena attività. Un vulcano in eruzione. Ribolle di puzza, liquami, immondizia e fiamme. L’emergenza rifiuti in Campania, e in particolare nella provincia di Caserta feudo dei Casalesi, è scomparsa e risolta solo nei Tg nazionali e nei proclami dei commissari e degli accondiscendenti emissari di governo. Non serve leggere rapporti, perizie e lanci di agenzia per accorgersene. Non serve fare anticamera dall’assessore di turno e meno che mai chiedere “permesso” alle forze dell’ordine. Basta andarci, nella terra dei fuochi, per scoprire questo ennesimo, raccapricciante e pericolosissimo inganno messo in piedi dal Titanic mediatico che fa capo all’attuale maggioranza di governo e in particolare al premier e al suo braccio armato Bertolaso. Basta salire in auto e fare una manciata di chilometri dall’uscita della Domiziana cercando di dimenticare cosa si rischi a prendersela con gli affari dei Casalesi.
A Casal di Principe è morto lo Stato per suicidio. Se qualcuno vi dice il contrario o è spaventato a morte o è un complice. Peppe è uno che lavora nel sociale, si batte da anni contro la camorra e il degrado. Ed è spietato nel suo giudizio: «Prima, quando ci battevamo contro la “monnezza” smaltita irregolarmente dalla camorra ci dicevano “bravi, andate avanti così”, oggi che ci battiamo contro la “monnezza” smaltita sempre irregolarmente, ma dallo Stato, ci danno dei camorristi».
Che vuoi dire? «Vatti a vedere che cos’è Ferrandelle». E andiamo a vedere. Ferrandelle è il più grande sito di smaltimento (provvisorio, si diceva) dell’era Bertolaso bis, quella della rinascita del governo Berlusconi terzo. Sta in un’area posta a metà strada fra Santa Maria la Fossa e Casal di Principe. In un’azienda agricola confiscata a Sandokan, Francesco Schiavone, il boss che più di altri capì anticipatamente che la “monnezza” è oro. Un milione di metri cubi di rifiuti, ecco cosa conterrebbe questo sito “di interesse strategico nazionale” (di conseguenza vincolato a segreto di Stato per non avere rompiscatole che vadano a ficcare il naso). E ad aprile scorso il blocco per raggiunti limiti.
Discarica immensa, a cielo aperto, parzialmente abbandonata. Se c’è una vigilanza all’ingresso principale, di lato si arriva quasi a toccarle le montagne di rifiuti e non risulta alcun controllo neppure a distanza. Ci si rende conto immediatamente che sono saltate, se mai sono state attuate, tutte le norme di sicurezza e di contenimento degli inquinanti. Il percolato cola nei canali di scolo mischiandosi con l’acqua (se è possibile chiamare acqua il liquame maleodorante che scorre in quei fossi) che andrà a irrigare gli immensi campi di grano della zona. Le coperture sono saltate. Molte delle piscine (fatte di teli impermeabilizzanti) hanno ceduto e i rifiuti sono a contatto direttamente con il terreno. Come del resto anche nel sito limitrofo, a ridosso di una base militare praticamente in disuso, dove si lavora per preparare le strutture non per ricevere i rifiuti ma per consentire lo svuotamento di Ferrandelle, ormai collassata. Ma anche in questo sito già ci sono rifiuti smaltiti irregolarmente senza alcuna barriera di contenimento del percolato. «Andatevene che arrivano i militari». Anche se siamo per strada, non in zona militare. Perché anche questo è un sito militarizzato, anche se di soldati non se ne vedono.
La situazione diventa paradossale davanti l’ingresso principale di Ferrandelle. Dall’altra parte della strada una serie di capannoni e di aree di stoccaggio di ecoballe. In uno di questi, allagato, le ecoballe galleggiano. Lo stesso spettacolo al quale si assiste nell’area limitrofa all’aperto, senza neppure la provvisoria copertura garantita dalle tettoie. I teli a terra sono posizionati in modo che il percolato (che si riforma inevitabilmente a contatto dell’acqua) defluisca all’esterno del sito. Anche questo posizionato a pochi metri da terreni coltivati e dai tre caseifici presenti nell’area.
Il mostro è lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno vede. Pomeriggio di festa, Casal di Principe. Il sabato di giugno da queste parti sembra essere destinato ai matrimoni. Fa un certo effetto vedere la sposa con il suo vestito avanzare verso l’ingresso della chiesa con sullo sfondo cumuli di immondizia e un branco di cani randagi ansimanti per il caldo. Fa effetto a noi, non agli invitati con il vestito della festa. Potere dell’abitudine. Perché vivere “co a munnezza” per strada ormai è consuetudine. Altro che raccolta differenziata ed emergenza rientrata. Qui, la “monnezza” da schifo è diventata panorama. “Monnezza” e ville di boss piccoli e grandi, pacchiani monumenti alla camorra più mafiosa, nella sua declinazione tecnica tradizionale.
Identità, capacità di differrenziare attività lecite e illecite, controllo uniforme e militare dell’intero territorio. E infiltrazione, a ogni livello, di amministrazioni, organi tecnici ed elettivi e di interi comparti economici. Altro che mafietta tamarra e gratuitamente violenta.
I Casalesi assomigliano, e tanto, a Cosa nostra. E il bello è che lo sanno talmente tanto bene da imitarne anche i comportamenti “accomodanti” dei clan siciliani. «Siete proprio sicuri che quel pazzo sanguinario di Setola sia stato preso senza il consenso, anche se passivo, delle famiglie?». È uno dei tanti investigatori a parlare, anonimamente. Uno di quelli senza giubba blu che danno la caccia a boss latitanti da decenni. Ride e accende una sigaretta. «Anche qui, come in Sicilia per Provenzano, dovrete seguire “un sacchetto di mutande” per prenderli?». La risata è più eloquente di una risposta. «Speriamo non ci vogliano trent’anni per seguirlo sto sacchetto». Una mezz’ora dopo l’ultimo lancio di riso sul sagrato di una chiesa, si alza una colonna di fumo a poche centinaia di metri. All’incrocio di due vie, in mezzo alle case basse protette da muri da fortino spagnolo, in un pezzo di terreno incolto una discarica “estemporanea” (identica alle altre centinaia presenti sul territorio) ha preso fuoco. Incendio spontaneo coatto con tanto di aiutino in forma di benzina. Sotto gli occhi di una piccola folla tre uomini, uno anziano con un secchio gli altri più giovani con pompe da giardino, bagnano il perimetro per impedire che il fuoco si allarghi fuori dalla discarica. Amianto, frigoriferi, copertoni, spazzatura “semplice”, barattoli di vernice: tutto brucia velocemente e il fumo avvolge tutto, denso, irrespirabile. «Avete già chiamato i pompieri?», chiediamo all’uomo con il secchio. «No». «E perché no?» Con uno sguardo che scioglierebbe anche un carrozziere: «Perché no». Ma i pompieri, comunque, qualcuno li ha chiamati lo stesso. E appena arriva l’autopompa la strada si svuota. Dei tre uomini e delle decine di spettatori nessuna traccia.
VISITA: orsatti.it
Tratto da: gliitaliani.it
domenica 25 aprile 2010
Scajola, storia di un ministro al di sotto di ogni sospetto - Peter Gomez
Settanta giorni in carcere prima di essere assolto, gli insulti a Marco Biagi, la parentopoli a Imperia e ora gli interrogativi per mezzo milione di euro provenienti dalla "cricca": ma uno come lui può ancora stare al governo?
"Certo, c'è bisogno di una moralità più forte, ma anche di non destabilizzare il sistema". Quando in febbraio a finire sotto inchiesta era stato Nicola Di Girolamo, il senatore abusivo entrato in Parlamento grazie ai voti della 'ndrangheta e a falsi documenti che attestavano la sua residenza all'estero, il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, aveva invitato tutti alla prudenza. Gli italiani si stavano riprendendo a stento dalle rivelazioni sul sistema di appalti truccati che ruotava attorno a una serie di ex stretti collaboratori del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, che adesso si apriva un altro fronte. Così Scajola, 62 anni, era apparso preoccupato. E aveva paventato il rischio destabilizzazione. Molti pensavano che si riferisse al sistema politico e a quello economico. Ma in realtà, come si comincia a intuire adesso, Scajola parlava di se stesso. Sì, perché intorno a "u ministru", come lo chiamano nel suo feudo elettorale del Ponente Ligure, ruota un vero e proprio sistema – elettorale e familiare – che finora lo ha salvato da qualsiasi rovescio. E che oggi, c'è da giurarlo, lo salverà anche dall'accusa di aver intascato un assegno da mezzo milione di euro gentilmente offerto nel 2004 da uno degli uomini della "cricca" che si era raggrumata dalle parti della Protezione civile: l'architetto Angelo Zampolini,alter ego e forse testa di legno del costruttore Diego Anemone.
Certo, in un altro Paese (anzi in altri paesi), di fronte a un sospetto del genere, un ministro come lui che lo scorso anno ha gestito fondi per cinque miliardi destinati a incentivi a fondo perduto e contributi alle imprese private, non resterebbe sulla sua poltrona un minuto di più. Anche perché Scajola è pure di fatto lo sponsor, assieme al premier Silvio Berlusconi del grande affare dei prossimi 15 anni: il ritorno delle centrali nucleari. Un po' troppo insomma per non chiedersi se, in tempi di ristrettezze economiche, non sia il caso di sostituirlo con qualcuno che non abbia l'imbarazzo di dover spiegare i motivi per cui il suo splendido appartamento romano con vista sul Colosseo sia stato acquistato, secondo i pm, anche con soldi in nero, gentile dono della cricca.
Ma Scajola, spesso soprannominato Sciaboletta dai giornali per la non slanciata statura, è assieme a Giulio Tremonti l'uomo più influente del governo. Ha saputo collezionare deleghe pesanti come Attività produttive, Comunicazioni e Commercio con l'estero e, soprattutto, ha dimostrato nel tempo di essere fatto d'acciaio. La politica, del resto, ce l'ha nel sangue. Anzi nell'albero genealogico. La sua famiglia ha regalato a Imperia tre sindaci dc: il padre Ferdinando (costretto a dimettersi negli anni ’50 perché sospettato di aver favorito il cognato per un posto di primario),Alessandro, e infine lui, Claudio, nel 1982. L’anno seguente, però, Scajola è già in manette. Arrestato dai carabinieri per ordine dei giudici milanesi che indagavano sullo scandalo dei casinò: una storia nera di clan mafiosi siciliane che han messo le mani sulle case da gioco di Sanremo e Campione d’Italia, accordandosi con i politici locali. Scajola è accusato di essersi incontrato in Svizzera il 20 maggio del 1983 con il sindaco di Sanremo e il conte Borletti – che aspirava al controllo del casinò sanremese – e di avergli chiesto 50 milioni a titolo di "rimborso spese" per l’impegno profuso dai politici di Imperia e Sanremo. Settanta giorni a San Vittore. Lui si difende ammettendo di aver visto Borletti – ma solo perché nominato tra i saggi incaricati dal partito di capire che cosa stava accadendo intorno al casinò – e dicendo di aver chiesto al conte non tangenti, ma un maggiore equilibrio politico nella gestione della casa da gioco. Alla fine lo assolvono. Si fa rieleggere sindaco, poi nel ’95 si ricandida con una lista civica. Di Forza Italia, alleata con An, non ha una grande opinione: "Sono solo dei fascistelli". Poi cambia idea e passa con loro.
Carriera folgorante. Berlusconi lo promuove responsabile organizzativo, lui in pochi anni trasforma il partito di plastica in una macchina da guerra. E intanto incensa il capo. "Berlusconi è il sole al cui calore tutti vogliono scaldarsi", dice serio, ricordando a tutti di aver ricevuto "l’incarico di lavorare affinché il presidente possa essere fiero del movimento che ha creato". Nel 2001 arriva il premio: ministro dell’Interno. Per la prima volta siede così al Viminale un uomo che ha conosciuto le patrie galere dal di dentro e non durante le consuete visite umanitarie. Scajola si allarga. "Nel giro di due anni manderemo in pensione la carta d’identità cartacea. La nuova carta elettronica potrà sostituire anche la tessera elettorale" promette nell'estate del 2002 parlando di un progetto (mai realizzato) costato alle tasche dei contribuenti 36 milioni di euro. È il (provvisorio) canto del cigno. Subito dopo ecco l'indimenticabile frase che gli costerà il posto: "Marco Biagi? Era solo un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza", dice a chi gli chiedeva come mai, nonostante le insistenze, al giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse il suo ministero non avesse dato la scorta.
Poco male. Pochi mesi dopo è di nuovo ministro prima come responsabile dell'Attuazione del programma e poi (2005) allo Sviluppo economico. Il via vai nei dicasteri ha delle importanti conseguenze ad Albenga, dove esiste un piccolo aeroporto. Tutte le volte che "u ministru" diventa tale, viene inaugurata la tratta per Roma. Inizialmente si vola con Alitalia, anche se, secondo un'interrogazione parlamentare il record massimo di passeggeri raggiunge solo quota 18. Poi, dopo la prima sospensione, si passa ad AirOne che fruisce, per la cosiddetta continuità territoriale, di contributi pubblici messi a disposizione dal governo. Quindi arriva Prodi e tutto si ferma, per ricominciare nel 2008.
Meglio va con le carriere dei familiari che, al contrario degli aerei, sono sempre in volo. Qualche esempio: suo fratello Alessandro, ex segretario generale della Camera di Commercio di Imperia, è vicepresidente della banca Carige. L'altro fratello Maurizio è l'attuale segretario generale di Unioncamere Liguria. Mentre Marco (figlio di Alessandro) è vicesindaco di Imperia e neo consigliere regionale. Poi c'è la moglie, Maria Verda, insegnante di storia dell'arte in una scuola superiore. In università la signora Scajola è diventata vicepresidente di un master sul turismo alla facoltà di economia. Per tenere il corso erano necessarie almeno 18 iscrizioni (circa 2.700 euro l'una). Alla fine sono state 26. Quindici erano quasi interamente coperte da una borsa di studio. Chi pagava? Il contribuente. O meglio Promuovitalia, braccio operativo del dicastero dello Sviluppo. Sì proprio quello di Claudio, il potente ministro che davanti agli scandali difendeva il sistema e chiedeva serio "una moralità più forte".
Da il Fatto Quotidiano del 25 aprile