venerdì 2 luglio 2010

Rodotà ''Ci siamo appropriati della Costituzione''.


1 luglio 2010

L'intervento dell'ex garante della privacy dal palco di Piazza Navona alla manifestazione contro la legge sulle intercettazioni. "Il tempo della acquiescienza dell'opinione pubblica è finito"


Fassino vs i ragazzi delle 'Agende rosse', la polemica


NO BAVAGLIO DAY


L'editorialista del Corriere Ostellino mente al Tg1: "In piazza gridavano intercettateci tutti"

Il politologo Pasquino: "Berlusconi barcolla, ma non crolla"

Da Roma a Milano, da Padova a Lecce e in decine di altre città d'Italia, ma anche da Parigi e Londra, un unico grido: “No alla censura, no alla mafia, no al bavaglio”.

Sono decine di migliaia i cittadini che si oppongono alla legge con cui Berlusconi vuole fermare pressoché tutte le indagini e togliere agli elettori la possibilità di sapere.

Crepe anche nella maggioranza con il presidente della Camera che sposa le tesi del Procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso e invita il Pdl a riflettere.

Anche il Quirinale prende posizione, Napolitano dice “Avevo consigliato di dare priorità alla manovra economica, ma non mi hanno ascoltato”.

E sottolinea come le manifestazioni e gli esperti mettano in evidenza “Punti critici chiari che preoccupano" il Quirinale.

Il presidente del Senato Schifani ammette: impossibile approvare definitivamente la legge prima dell'estate.

La spallata di Berlusconi adesso è più difficile.

http://www.ilfattoquotidiano.it/



Riciclaggio, Ior e Berlusconi: interrogatorio in Svizzera per Ciancimino



Massimo Ciancimino
- ricorda l’Ansa - è stato interrogato oggi dall’autorità giudiziaria svizzera.

Al centro dell’interrogatorio, reso al giudice federale Elena Catenazzi, i flussi di denaro che il padre, l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, avrebbe fatto transitare attraverso il Paese elvetico e che poi sarebbero stati investiti nello Ior e, secondo quanto raccontato dal testimone, nel complesso edilizioMilano 2 realizzato da Silvio Berlusconi.

Il giudice ha acquisito anche copia del libro «Don Vito», scritto da Ciancimino che, in alcuni capitoli, racconta particolari degli investimenti del tesoro del padre.

La breve permanenza in Svizzera del figlio dell’ex sindaco ha dato vita anche a un giallo: il testimone sarebbe stato pedinato e fotografato da alcune persone che sono poi state fermate dalla polizia locale.

I guai di Cappellacci, tradito dai suoi e sotto inchiesta.


di Gianluca Serra tutti gli articoli dell'autore

Bocciatura del Piano Casa Cappellacci e nuovo blitz della Polizia giudiziaria negli uffici della Regione. È il 30 giugno del Governatore della Sardegna, un’altra giornata nera. Che si aggiunge alla serie innescata con l’inchiesta della procura di Roma sui presunti illeciti nel business dell’eolico, per i quali sono indagati, oltre lo stesso Cappellacci, Flavio Carboni, Denis Verdini e politici e dirigenti a loro legati. In gergo pugilistico quello di ieri è un “uno-due” che stenderebbe un toro. Il primo colpo lo sferra a Cappellacci la sua maggioranza, che boccia clamorosamente, a voto segreto, la versione sarda del Piano Casa, aggiornato e corretto dal Presidente dopo quello approvato nell’autunno scorso. Il secondo colpo arriva da un accesso agli atti della Procura di Cagliari che prefigurerebbe un nuovo filone di indagine sulle attività della giunta Cappellacci, stavolta riguardante i concorsi per l’assunzione dei dirigenti. Agenti della polizia giudiziaria avrebbero bussato all’assessorato degli Affari Generali per acquisire documenti sul reclutamento di personale e sui concorsi. A contare i secondi a Cappellacci, dopo una serie così micidiale, assieme all’opposizione c’è anche una consistente parte della maggioranza, che ha votato contro il Piano Casa (su 65 presenti, 27 i sì e 37 i no) e che il giorno precedente aveva messo in mora il Presidente.

I tanti mal di pancia si condensano nella richiesta di un rimpasto della giunta e di un energico cambio di rotta rispetto a un’agenda politica eterodiretta da Roma. Come ha dimostrato la vicenda eolico, con il corollario di nomine e atti sollecitati fuori dalla Sardegna e oggi al vaglio degli inquirenti. In più, e di qui la ricaduta sul voto al Piano Casa, a Cappellacci è mossa l’accusa, anche dentro la coalizione che lo sostiene, di prestare eccessiva attenzione a interessi non troppo diffusi. Proprio su questo punto le avvisaglie di un dies nefastus per Cappellacci si potevano leggere il giorno precedente, in concomitanza con il vertice di maggioranza, nel blog del consigliere regionale del Partito Sardo d’Azione Paolo Maninchedda. In un articolo dal titolo “Le norme del cosiddetto piano casa che non posso votare”, segnalava la contrarietà del suo partito a norme che avrebbero consentito deroghe in materia di lottizzazioni e concesso «un premio ai comuni non virtuosi che continuano ad amministrare coi vecchi piani di fabbricazione, un premio ai comuni che hanno consumato il consumabile. Uno schiaffo ai Comuni che pur dotati di Puc si videro bloccate dal Piano Paesaggistico le lottizzazioni. Un premio anche a un altro signore, potentissimo». Il signore sarebbe Sergio Zuncheddu, editore dell’Unione Sarda, quotidiano schieratissimo contro la passata esperienza di governo regionale del centrosinistra. Le norme bocciate avrebbero consentito di rimuovere il vincolo paesaggistico e riavviare opere di costruzione sulla costa, anche nel caso della lottizzazione di Cala Giunco, dell’editore cagliaritano, che era stata definitivamente cassata dal Consiglio di Stato.

NUOVA BOCCIATURA
Già un’altra volta Cappellacci fu bocciato dal Consiglio regionale sardo, quando, di fatto, furono sospesi gli effetti di una delibera con cui la giunta sotto le feste di Natale avviava le trattative per l’acquisto di immobili di Zuncheddu da destinare a sede degli uffici della Regione. Il dibattito molto acceso in Consiglio regionale ha messo sul piatto il rischio che le norme sul piano casa potessero appunto riguardare pochi e favorire pochissimi.
È il tenore degli interventi dell’opposizione e dell’ex Presidente Soru, che due anni fa si dimise quando parte della sua maggioranza bocciò un emendamento che delegava la giunta a proseguire il lavoro di stesura del Piano Paesaggistico. Non si ha alcuna notizia di reazioni del Presidente Cappellacci alla clamorosa nuova bocciatura.

02 luglio 2010

giovedì 1 luglio 2010

Stragi '92: Indagati per depistaggio 3 poliziotti


di Monica Centofante - 1° luglio 2010
C'è una nuova svolta nelle indagini sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio. E sui depistaggi che seguirono l'uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino negli anni scanditi dalle bombe e dalla trattativa tra Cosa Nostra e lo stato.


Lunedì scorso, in gran segreto, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e i sostituti Domenico Gozzo e Nicolò Marino avrebbero interrogato per un'intera giornata 3 poliziotti a quanto pare indagati per “calunnia aggravata”. Non poliziotti qualunque, ma ex-investigatori del “Gruppo Falcone-Borsellino” incaricato di svolgere accertamenti dopo quelle stragi. E sotto la direzione di quell'Arnaldo La Barbera - ex capo della Squadra Mobile poi questore di Palermo, morto per un male incurabile nel 2002 - che pochi giorni fa si è scoperto era al soldo dei servizi segreti.

Nel giorno in cui il presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu conferma a sorpresa la possibile iscrizione nel registro degli indagati, a Caltanissetta, dello 007 Lorenzo Narracci, già uomo di Bruno Contrada in quel caldo 1992, i 3 nuovi nomi irrompono sulla scena.

Secondo indicrezioni giornalistiche Salvo La Barbera, Mario Bo e Vincenzo Ricciardi – questi i nomi dei poliziotti - sono indiziati di aver estorto le confessioni al falso pentito Vincenzo Scarantino “mediante minacce e pressioni psicologiche”. “In concorso con il dottor Arnaldo La Barbera, nonché con altri allo stato da individuare, con una pluralità di azioni e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso”.

Scarantino, lo ricordiamo, è il killer che si autoaccusò della strage del 19 luglio portando le investigazioni su una falsa pista che identificava i mandanti dell'eccidio di Via D'Amelio nella borgata della Guadagna. Spostando l'attenzione degli inquirenti dal mandamento di Brancaccio, indicato oggi dal vero pentito Gaspare Spatuzza e regno dei fratelli Graviano. I boss sospettati per anni di essere stati in contatto con Marcello Dell'Utri, già indagato insieme a Silvio Berlusconi come mandante esterno delle stragi dei primi anni Novanta (le indagini sono state archiviate).

Ora i pm si chiedono: chi organizzò il depistaggio? Chi manovrò Vincenzo Scarantino e i pentiti che lo avevano confermato, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro minacciati? E soprattutto perché?
Domande che, a quanto si apprende, non avrebbero ottenuto una risposta dai 3 nuovi indagati che si sarebbero difesi con una serie di “non so” e “non ricordo”.

Per il momento l'unica certezza è che le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, seguite da quelle di Massimo Ciancimino, hanno riaperto più di uno squarcio sugli anni bui delle stragi. E gettato ombre inquietanti sul ruolo assunto in quel periodo dai servizi segreti.
Dal canto loro gli stessi Candura, Andriotta e Scarantino, incastrati dalle rivelazioni di Spatuzza, hanno ammesso di aver in passato dichiarato il falso. Aggiungendo di non essersi inventati le accuse, ma di aver ripetuto ai magistrati quanto suggerito dai poliziotti che li interrogavano. Quei poliziotti capitanati da Arnaldo La Barbera che si sarebbero limitati ad eseguire un ordine.

A fronte di quanto sinora emerso per molti boss condannati per la strage di Via D'Amelio ci sarà a breve la revisione del processo, mentre continuano le indagini sul ruolo dei servizi che anche questa volta hanno ricevuto più di un input dalle parole di Spatuzza. Anche lui avrebbe fatto il nome di Lorenzo Narracci, secondo le sue dichiarazioni presente, il 18 luglio del 1992, nel garage in cui si stava “caricando di esplosivo” la macchina utilizzata il giorno dopo per l'attentato.

L'uomo chiave, quindi, rimane lui. Il pentito a cui il Viminale non ha concesso il programma di protezione e che prima e dopo la sentenza di condanna al senatore Marcello Dell'Utri in molti si sono affrettati a screditare.


http://www.antimafiaduemila.com/content/view/29375/78/




mercoledì 30 giugno 2010

Berlusconi teme l'affondo finale "Ora proveranno a colpire pure me"


Il Cavaliere è convinto che altre procure stiano preparando nuove inchieste: "Sentenza politica, i giudici giacobini assolvono Tartaglia e non Marcello". E il Pdl ora vuole cambiare il reato di concorso esterno


dal nostro inviato FRANCESCO BEI

SAN PAOLO - "Assolvono Tartaglia, uno che ha provato ad ammazzarmi, e condannano Marcello solo per aver conosciuto 30 anni fa delle persone che poi si sarebbero scoperte vicine alla mafia. Questa è la magistratura giacobina che ci ritroviamo". Il premier si trova nella suite dell'hotel Tivoli di San Paolo quando dall'Italia gli giunge la notizia della condanna di Dell'Utri. I contatti con Roma sono limitati, filtrati dal portavoce Bonaiuti, ma qualcuno che assicura di averci parlato descrive un Berlusconi "molto preoccupato" per quella che ritiene essere "l'ennesima sentenza politica" di una magistratura ostile al governo. Non a caso, la sera prima, si era premurato di rispolverare - a beneficio del gotha degli imprenditori italiani in Brasile - quella definizione di "metastasi" per i pm "politicizzati". Un'uscita preventiva in vista della sentenza di ieri, da cui tuttavia il Cavaliere si tiene ben lontano: non vuole parlare di Dell'Utri, non intende farsi trascinare nella mischia. Così, al suo rientro in albergo dopo il pranzo con il presidente Lula, si tiene alla larga dai taccuini e si rifugia di corsa nella sua stanza protetto dalla scorta e dallo staff. "Avete già fatto troppi danni ieri", sibila ai giornalisti.

E tuttavia Berlusconi, a differenza di molti nel Pdl, non ritiene affatto sventata quella "manovra politica" che attribuisce alla magistratura per scardinare il governo. È convinto che il processo a Dell'Utri sia soltanto un pezzo del domino,


ma sa che altre procure - Firenze , Palermo e Caltanissetta - hanno ancora in cottura inchieste potenzialmente devastanti per la sua immagine e per il futuro della maggioranza. La guardia resta alta, nella convinzione che "ci riproveranno". E torna quindi ad affacciarsi, nei ragionamenti di queste ore tra gli uomini che si occupano di giustizia per il premier, la vecchia idea di rimettere mano al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Un reato che nel codice penale nemmeno esiste", spiegano, "inventato" dai magistrati e usato per "colpire" gli avversari politici. Lo strumento potrebbe essere una leggina ad hoc, per limitarne al massimo l'applicabilità e così sventare anche i nuovi possibili colpi delle procure.

Per ora, nel Pdl si gioisce per lo scampato pericolo, visto che la condanna per Dell'Utri avrebbe anche potuto riscrivere la storia della genesi di Forza Italia. "Diciamolo chiaramente - afferma Daniele Capezzone - dalla sentenza esce distrutta tutta la tesi di Ingroia che indicava in Marcello Dell'Utri il costruttore di un nuovo soggetto politico in accordo con la mafia". "Non a caso - aggiunge Fabrizio Cicchitto - il più deluso è il procuratore Gatto, visto che la Corte ha smontato l'idea di una sostanziale identità di interessi tra "l'entità" Forza Italia e i boss". Sono considerazioni positive, di chi si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma rischiano di apparire consolatorie visto che una condanna c'è stata e pure molto pesante. Un amico personale di Dell'Utri - Amedeo Laboccetta -, dopo aver sentito tre volte al telefono "Marcello", confessa infatti il suo sconforto per "una sentenza cerchiobottista". "I magistrati - si sfoga - potevano chiudere la vicenda se solo avessero voluto e invece si sono comportati come Don Abbondio. D'altronde la pressione politica e quella mediatica era fortissima, tutti volevano una condanna. Almeno ora è chiaro che Berlusconi con la mafia non c'entra nulla: la manovra per far saltare il governo è fallita".

Non è questa però l'impressione del Cavaliere. Con i suoi uomini più in vista sotto inchiesta - da Verdini a Dell'Utri, da Brancher a Bertolaso - il premier resta convinto che i magistrati abbiamo messo nel mirino chi gli sta intorno per arrivare a lui. "La magistratura politicizzata - ha spiegato due sera fa agli italiani di San Paolo - è una spina nel fianco della nostra civiltà attuale. Ma io ho giurato che non mi farò da parte finché non l'avrò riformata". Quasi una "missione", a cui darà nuovo impulso al suo rientro a Roma dopo la lunga trasferta all'estero (prima il G8 in Canada, poi il Brasile e oggi Panama), pronto a rovesciare il tavolo se i finiani dovessero mettersi di traverso.