sabato 18 settembre 2010

Mazzetta verde la trionferà.


Soldi, abusi e truffe all'ombra della Lega Nord


Lega ladrona? I casi di malcostume e corruzione all’ombra del Carroccio si moltiplicano, tanto che un dirigente sempre abile ad annusare l’aria che tira, come il governatore del Veneto
Luca Zaia, ha ammesso l’esistenza di una questione morale dentro la Lega. “Non possiamo permetterci di essere criticati per i nostri comportamenti amministrativi”, ha dichiarato Zaia, “noi della Lega abbiamo il dovere d’essere doppiamente puliti rispetto agli altri, perché da noi i cittadini si aspettano il massimo del rigore”.

Invece proprio dal
Veneto arrivano gli ultimi casi di pulizia non proprio perfetta. Il senatore della Lega Alberto Filippi, di Vicenza, è accusato dal faccendiere Andrea Ghiotto di avere un ruolo nella maxi evasione scoperta ad Arzignano, feudo padano e distretto della concia. Una brutta storia di tasse non pagate e di controlli aggirati: le indagini, in corso, diranno se anche a suon di mazzette. A Verona, Gianluigi Soardi, presidente dell’azienda del trasporto pubblico cittadino Atv(ma anche sindaco leghista di Sommacampagna), si è dimesso dopo che la polizia giudiziaria è piombata nei suoi uffici e ha sequestrato documenti contabili da cui risulterebbero spese gonfiate e ingiustificate. Camillo Gambin, storico esponente del Carroccio ad Albaredo d’Adige (Verona), è agli arresti domiciliari per una brutta storia di falsi permessi di soggiorno rilasciati in cambio di denaro. Alessandro Costa, assessore alla sicurezza di Barbarano Vicentino, è indagato per sfruttamento della prostituzione: gestiva siti di annunci a luci rosse.

Nel vicino
Friuli-Venezia Giulia, il presidente del consiglio regionale, Edouard Ballaman, si è dimesso dopo essere finito nel mirino della Corte dei conti per una settantina di viaggi in auto blu fatti più per piacere che per dovere. In passato, Ballaman aveva realizzato uno scambio di favori incrociati con l’allora sottosegretario all’Interno (e tesoriere della Lega) Maurizio Balocchi: l’uno aveva assunto la compagna dell’altro, per aggirare la legge che vieta di assumere parenti nel medesimo ufficio. Aveva anche ottenuto l’assegnazione pilotata della concessione di una sala Bingo.

In principio fu
Alessandro Patelli, “il pirla”, come fu definito da Umberto Bossi: l’ex tesoriere della Lega dovette ammettere nel 1993 di aver incassato 200 milioni di lire dalla Ferruzzi, causando aUmberto Bossi una condanna per finanziamento illecito. Poi a foraggiare il Carroccio arrivò il banchiere della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani, che nel 2004 non solo salvò la banchetta della Lega, Credieuronord, da un fallimento clamoroso, ma finanziò generosamente il partito di Bossi con oltre 10 milioni di euro, tra fidi e finanziamenti. Con anche più d’una mazzetta, secondo quanto racconta Fiorani: una parte dei soldi consegnati dal banchiere di Lodi ad Aldo Brancher, parlamentare di Forza Italia e poi del Pdl, erano per Roberto Calderoli. “Ho consegnato a Brancher una busta con 200 mila euro… Quella sera Brancher doveva tenere un comizio a Lodi per le elezioni amministrative… Mi disse che doveva dividerla con Calderoli (poi archiviato, ndr) perché il ministro aveva bisogno di soldi per la sua attività politica”.
Non ha fatto una gran bella figura neppure
Roberto Castelli, che da ministro della Giustizia, tra il 2001 e il 2006, è riuscito a meritarsi un’indagine per abuso d’ufficio per il suo piano di edilizia carceraria, affidato all’amico Giuseppe Magni; e una condanna della Corte dei Conti a rimborsare 33 mila euro, perché la consulenza era “irrazionale e illegittima”.
Aldo Fumagalli, ex sindaco di Varese, è indagato (peculato e concussione) per un giro di false cooperative. Matteo Brigandì, ex assessore al Bilancio della Regione Piemonte, è stato processato per truffa, per falsi rimborsi alle zone alluvionate. Francesco Belsito, sottosegretario alla Semplificazione, esibisce una laurea fantasma, presa forse a Malta. Monica Rizzi, assessore allo Sport della Regione Lombardia, si proclama psicologa e psicoterapeuta senza avere la laurea e senza essere iscritta agli appositi ordini professionali, tanto che la procura di Milano sta indagando per abuso di titolo.

Cattive notizie anche dall’
Emilia-Romagna, zona di più recente espansione del Carroccio. Il vicesindaco di Guastalla (Reggio Emilia), Marco Lusetti, a giugno è stato accusato di irregolarità nella gestione dell’Enci (Ente nazionale per la cinofilia) di cui era commissario ad acta: aveva ordinato bonifici a se stesso con soldi dell’ente per 187 mila euro (poi non incassati). Il padre padrone della Lega emiliana, il parlamentare Angelo Alessandri, si è invece fatto pagare dal partito le multe (per un totale di 3 mila euro) per eccesso di velocità o per transito in corsie riservate. Il capogruppo del Carroccio alla Regione Emilia-Romagna, Mauro Manfredini, e altri candidati del suo partito (Mirka Cocconcelli, Marco Mambelli) rischiano invece una maximulta (fino a 103 mila euro a tasta) per non aver consegnato, come prevede la legge, un resoconto preciso delle spese elettorali. Dov’è finito il partito che inveiva contro Roma ladrona?



venerdì 17 settembre 2010

Carrocciopoli: Il Riformista grazie a BresciaPoint e Tempo Moderno ricostruisce i fatti


La vicenda si allarga.


«Carrocciopoli? Tutto falso», dice Umberto Bossi citando gli scandali leghisti. E la figlia del candidato alle regionali, la nipote dell’assessore provinciale, la moglie del vicesindaco del capoluogo e due collaboratrici «ad personam» di un altro assessore? Le fantastiche cinque vincitrici del concorso pubblico per «numero 8 posti di istruttore amministrativo», bandito dalla Provincia di Brescia nel dicembre 2008 e arrivato a conclusione nel febbraio di quest’anno, non hanno in comune soltanto le strettissime frequentazioni leghiste o il bagaglio culturale che ha consentito loro di sbaragliare la concorrenza di centinaia di cittadini. No.


Il pacchetto di mischia - rosa per genere, verde per passione politica - in attesa di prendere possesso del posto sicuro continua a collezionare altri incarichi e contratti. Retribuiti dalla collettività, ovviamente. E le analogie tra le protagoniste di questa storia non finiscono qui. Perché le fab five della Lega bresciana hanno dimostrato tutte una spiccata propensione per la prova scritta, ma si sono rivelate meno preparate all'orale. È l’ennesima “stranezza” del concorsone per otto seggiole sicure al sole della Provincia. Carrocciopoli, atto secondo.


Il riassunto della puntata precedente, pubblicata ieri su queste pagine, manca a questo punto di due soli dettagli. Nomi e cognomi. Sara Grumi, figlia del candidato leghista alle ultime regionali Guido; Katia Peli, nipote dell'assessore provinciale leghista Aristide; Silvia Raineri, moglie del vicesindaco leghista di Brescia Fabio Rolfi; più Cristina Vitali e Anna Ponzoni, entrambe collaboratrici del leghista Giorgio Bontempi, altro assessore provinciale. Sono cinque delle otto vincitrici di un concorso a cui si erano iscritti in settecento, di cui duecentoquaranta hanno effettivamente preso parte alla prova scritta.


La seconda puntata dell'inchiesta del Riformista parte proprio da qui. Dalla prova scritta.


Quando il gruppo di cittadini Tempo Moderno (coordinato dall'avvocato Lorenzo Cinquepalmi, dirigente del Psi bresciano) ha denunciato le troppe “coincidenze” del concorso, al quotidiano on-line bresciapoint.it è arrivata la segnalazione di tale “Emiliano: «Io a questo concorso ho partecipato, studiando per più di un anno. Il meccanismo dello scritto era perverso. Ed era matematicamente impossibile prendere 30 (il massimo dei voti, ndr)». Basta dire, prosegue testualmente la denuncia di “Emiliano”, «che erano le consuete domande a risposta multipla. Ma con la difficoltà in più che tra le opzioni ci poteva essere un numero indefinito di risposte giuste. Per ciascuna risposta esatta un punto, per ciascuna sbagliata uno in meno».


Adesso è impossibile risalire a “Emiliano” per verificare l'esattezza della sua testimonianza. E poi, a rigor di logica, è ovvio che una prova del genere - per quanto difficilissima - si può anche superare col massimo dei voti. Ma seguendo la traccia del “concorrente ignoto”, ecco che spunta fuori l'ennesima stranezza. Chi sono i candidati del concorso che riescono a superare i test staccando, e non di poco, l'agguerrita concorrenza dell'esercito dei duecentoquaranta?


Proprio loro, le “leghiste”. Tanto per capirci, l'ultimo dei trentotto ammessi all'orale passa con il punteggio di 21. La signora Raineri, la moglie del vicesindaco di Brescia, riesce invece a fare en plein: 30. Bravura e fortuna, insomma. Perché totalizzare il massimo era difficile come centrare il «100» nella vecchia e gloriosa ruota di Iva Zanicchi a Ok, il prezzo è giusto.


Leggermente meno brava, o forse solo meno fortunata, è Cristina Vitali, la collaboratrice dell'assessore Bontempi. Per lei un bel 28,67. Sara Grumi, la figlia del leghista Guido, arriva a 28. Katia Peli, nipote dell'assessore Aristide, si ferma a 27. Stesso punteggio di Anna Ponzoni, l'altra collaboratrice dell'assessore Bontempi.


Alla prova delle crocette dei test, insomma, il verde della Lega trionfa. Basta considerare, tanto per rimanere nel recinto degli ammessi all'orale, che la maggior parte degli altri candidati prendono voti che vanno dal 21 al 23. È a questo punto della storia che il demone del Sospetto s'insinua nelle menti delle, chiamiamole così, “malelingue”. Quando il 28 ottobre 2009 viene pubblicata la graduatoria degli scritti, Diego Peli, capogruppo del Pd in consiglio provinciale (è solo un omonimo del Peli leghista, ndr), solleva la questione. Troppo brave, le candidate vicine ai big della Lega bresciana. Troppo.


La denuncia del pd Peli almeno un effetto lo produce. La prova orale, infatti, si svolge davanti a numerosi testimoni. Uno dirà, le fab five sono state brave allo scritto, supereranno brillantemente anche l'orale, no? Invece no. Forse per colpa dello stress, forse per l'emozione, sta di fatto che le candidate leghiste che avevano trionfato allo scritto, di fronte alla commissione stentano. La Grumi (28 allo scritto) s'attesta su un mediocre 22. Addirittura la Raineri (30 allo scritto) sfiora il tracollo: 21. La Peli riesce a raggiungere quota 24 mentre leggermente meglio fa il ticket di collaboratrici ad personam Vitali-Ponzoni: 25.


Ma a pagare il prezzo più alto all'orale è un personaggio finora rimasto ai margini della vicenda. Si chiama Margherita Febbrari. E, nel suo curriculum, vanta collaborazioni sia col quotidiano La Padania sia con il deputato nazionale leghista Davide Caparini, già membro della Commissione di Vigilanza sulla Rai. La Febbrari, nota a Brescia per aver ottenuto dal Comune un incarico di consulenza in materia di sicurezza urbana, non ripete all'orale (21) l'exploit dello scritto (28). E, al contrario delle altre cinque fanciulle di cui sopra, che riescono comunque ad accaparrarsi il posto sicuro di impiegate in Provincia, rimane fuori dalla porta. Per un soffio. Ne passavano otto, lei arriva decima.


«Numero otto posti di istruttore amministrativo - Categoria C - a tempo pieno e indeterminato». Posti sicuri da impiegati di concetto alla Provincia di Brescia. Che però sono in attesa di essere occupati dai vincitori. Perché sono già impegnate, al momento, le cinque vincitrici leghiste. Come si legge anche nel dossier di Tempo Moderno, la Raineri, moglie del vicesindaco Rolfi, è lei stessa «capogruppo leghista alla Circoscrizione Nord del Comune di Brescia, coordinatrice della commissione sicurezza civica e bilancio nonché capogruppo sempre della Lega nel consiglio comunale di Concesio (Bs)». Una e trina, insomma.


La Grumi, invece, ha un incarico di collaborazione coordinata e continuativa «per la progettazione e l'implementazione di un sistema coordinato per la gestione delle attività interne, della durata di 24 mesi», stipulato dall'«Area Innovazione e Territorio-Settore Informatica e Telematica», indovinate un po', della Provincia di Brescia. Compenso? 54mila euro lordi, a cominciare dal 12 dicembre 2008.


Katia Peli collabora con lo zio Aristide, assessore. Nell'ultimo rinnovo del suo contratto, anno 2009, si legge testualmente che «le funzioni cui la Sig.ra Katia Peli verrà preposta dall'Assessore alle Attività Socio-Assistenziali e Famiglia, Sig. Aristide Peli, hanno particolare carattere di complessità e delicatezza».


Rimangono Vitali e Ponzoni, le altre due vincitrici “leghiste” del concorso della Provincia. I loro nomi figurano in una delibera - allacciate le cinture - di «conferimento incarico di collaborazione coordinata e continuativa di supporto all'espletamento delle azioni previste dai progetti “Valcanonica, Valcavallina e Sebino” e “Crisi aziendali”».


Della Provincia di Brescia, naturalmente.


da: Il Riformista


http://www.bresciapoint.it/politica/950-carrocciopoli-il-riformista-grazie-a-bresciapoint-e-tempo-moderno-ricostruisce-i-fatti.html



Studio: l'escalation dei costi del nucleare.



14 settembre 2010 - Realizzare una centrale nucleare potrebbe arrivare a costare oggi dai 7mila ai 10mila dollari per kW. Un prezzo molto più alto rispetto ad appena qualche anno fa, e al costo di realizzazione di un impianto eolico, solare o di ogni altra fonte di energia pulita e rinnovabile. È quanto emerge dal nuovo studio, 'Policy Changelles Of Nuclear Reactor Construction, Cost Escalation And Crodwing Out Alternative's'dell’Institute for Energy and the Environment della Vermont Law School. Prezzi che se per le fonti rinnovabili sono destinati a scendere, per il nucleare (come sottolinea lo studio) mostrano una spiccata tendenza a crescere nel tempo.

Anche negli Strati Uniti, l’aumento della domanda di energia unita alla necessità di un mix energetico meno sbilanciato sulle fonti fossili, e di conseguenza dipendente dall’importazione di combustibili fossili, ha dato nuovo slancio all’opzione nucleare. Una scelta sbagliata e antieconomica, secondo Mark Cooper, autore dello studio, che nel rapporto analizza il trend dei costi di realizzazione dei reattori, paragonando il mercato usa a quello francese, spesso presentato come esempio di successo nel settore nucleare.

Dallo studio emerge come, contrariamente a quanto avviene nel campo dei computer, dispositivi solari, turbine eoliche e altri progetti ad alto contenuto tecnologico, i costi delle centrali nucleari non tendono a decrescere nel tempo. Se, infatti, nel 1970, il costo di una centrale nucleare, esclusi gli interessi sul prestito, si aggirava intorno ai 1mila dollari per kilowatt sia negli Stati Uniti sia Francia (misurato sul valore del dollaro al 2008), negli anni Ottanta il prezzo è salito a 3mila – 4mila dollari a negli Stati Uniti, e da 2mila a 3mila in Francia. Nel decennio successivo la cifra ha continuato a crescere attestandosi intorno a 5mila - 6mila dollari per quanto riguarda gli Usa.

Attualmente, il prezzo stimato potrebbe essere di circa 7mila – 8mila dollari per chilowatt con un costo di realizzazione per un impianto di potenza di 2 GW che oscillerebbe tra i 20 e i 25 miliardi di dollari. In altre parole il costo a kW dell’atomo potrebbe arrivare tranquillamente a valori prossimi ai 10 dollari. Cifre stellari, soprattutto se confrontate con quelli delle fonti rinnovabili, dove un impianto solare può essere installato con un costo intorno ai 2 - 4 dollari a watt, a seconda della taglia del sistema.

Le cause principali di tali costi sono i ritardi che si accumulano nella costruzione degli impianti. Le difficoltà che si riscontrano nella costruzione di una centrale, infatti, costituiscono uno dei principali problemi che da sempre assilla l’industria nucleare. A questo si aggiungono le difficoltà nel reperire i capitali, tenuto conto della diffidenza mostrata dalle banche nel finanziare tali progetti, e, infine, lo stesso meccanismo dell’offerta.

“I governi avviano programmi per nuove centrali partendo dal presupposto di pagare circa 2.500 dollari per kW, ma nella realtà i costi sono almeno di 2 o e volte superiori”, – spiega Cooper –. Inoltre, le continue modifiche apportate ai progetti e la loro crescente complessità comporta inevitabili ritardi sui tempi di costruzione con conseguente aumento dei costi. Tutto si traduce con un necessario intervento da parte degli Stati: gli Usa hanno emesso 8,3 miliardi di dollari in garanzie sui prestiti per un progetto all'inizio di quest'anno”.

Un circolo vizioso che finisce con l’avere ricadute negative sulle nuove energie pulite. “A fronte della disponibilità limitata di risorse economiche, i governi dovranno decidere quali programmi sostenere, se puntare sull’atomo o sulle rinnovabili – spiega Cooper -. Non solo. La mole dei progetti nucleari assorbe immancabilmente risorse mentali ed economiche degli operatori del settore elettrico, che finiscono con il ridurre gli investimenti nelle fonti rinnovabili”. Allora, se rinunciassero al nucleare gli Stati Uniti dove potrebbero trovare tutta l’energia di cui hanno bisogno? "Abbiamo diverse alternative, molto meno costose e più efficaci dell’atomo: la prima è quella dell’efficienza energetica”, conclude Cooper.



giovedì 16 settembre 2010

E' Matteo Renzi il sindaco più amato di Italia.







Lo rileva l'istituto "Monitor Città'' che ha stilato la graduatoria dei primi cittadini più amati nel nostro Paese nei primi 6 mesi del 2010.






Ciancimino, la perizia conferma. - di Umberto Lucentini





Il figlio Massimo non ha mentito: fu proprio l'ex sindaco di Palermo a scrivere le carte sui rapporti tra mafia e Stato e sugli investimenti di Cosa Nostra a Milano 2. Lo ha stabilito la Polizia scientifica.

La perizia della polizia scientifica ha stabilito che sono stati firmati proprio da Vito Ciancimino alcuni dei documenti sui rapporti tra mafia e Stato e su un investimento di Cosa Nostra in un'azienda di Berlusconi che il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo ha consegnato alla procura. Su altre carte sono in corso ulteriori accertamenti. Si tratta in tutto di tre testi: il primo è un appunto sulla costruzione di Milano 2, il quartiere satellite edificato da Silvio Berlusconi nei primi anni Settanta: vi compare il nome di Marcello Dell'Utri, oltre a quelli dei costruttori palermitani Nino Buscemi e Franco Bonura. Il secondo è un elenco in dieci punti (il "contropapello") inviato dallo stesso Ciancimino a Totò Riina per stabilire un accordo tra le cosche e lo Stato che consentisse di fermare le stragi. Il terzo è una lettera che ha come destinatario l'ex governatore di BankItalia, Antonio Fazio, in cui si parla della trattativa tra pezzi dello Stato e boss e dell'attentato al giudice Paolo Borsellino.

Al termine delle perizie, gli esperti del servizio di Polizia scientifica della Direzione centrale anticrimine hanno una certezza: questi tre testi sono stati di sicuro firmati da Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per mafia e morto il 19 novembre 2002. E sono stati scritti proprio nei periodi indicati dal figlio Massimo.

Una conferma importante per due delicate inchieste della procura di Palermo condotte anche grazie alle dichiarazioni di Ciancimino junior, che del padre ha custodito documenti e segreti ora messi a disposizione del pool dell'aggiunto Antonio Ingroia e dei sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido. Nuovi, importanti riscontri, nella ricerca di parte del tesoro di Ciancimino senior investito nel nord Italia e di quei patti "scellerati" che sarebbero stati stretti da alcuni alti ufficiali dei carabinieri del Ros e dai vertici di Cosa nostra (sempre smentiti dagli indagati).

Degli investimenti a Milano di don Vito, il figlio ha parlato pubblicamente la prima volta l'1 febbraio scorso, deponendo nell'aula bunker dell'Ucciardone di Palermo al processo al generale dei carabinieri Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di aver favorito parte della latitanza dello stratega "numero uno" della mafia siciliana, Bernardo Provenzano. Ciancimino junior ha raccontato di aver saputo dal padre che questi, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, tramite Dell'Utri e i costruttori Buscemi e Bonura aveva investito soldi nel quartiere satellite realizzato alla periferia di Milano dall'allora giovane imprenditore Silvio Berlusconi.

Una circostanza di cui Massimo ha parlato decifrando l'appunto scritto dal padre in cui c'erano i nomi dei costruttori palermitani Buscemi e Bonura, del futuro senatore di Forza Italia e di Milano Due. La Polizia scientifica ha così comparato il foglio in possesso dei pm Ingroia, Di Matteo e Guido con altri documenti pubblici e privati sicuramente scritti da Ciancimino. Il giudizio è netto: sono "compatibili".

Stesso esito anche per l'analisi merceologica, cioè sul tipo di carta e sul periodo in cui il foglio è stato prodotto : sono "compatibili" con quelli indicati da Ciancimino junior che tramite appunti e ricordi li sta decifrando davanti ai pm. E se, come ha già detto al termine dell'udienza di febbraio Niccolò Ghedini, avvocato di Silvio Berlusconi e parlamentare Pdl «le dichiarazioni di Ciancimino su Milano Due sono del tutto prive di ogni fondamento fattuale e di ogni logica, e sono smentibili documentalmente in ogni momento», è ovvio pensare che la Procura di Palermo stia cercando di trovare in diversi istituti di credito le tracce dei movimenti di soldi che proverebbero l'investimento dell'ex sindaco Dc del "sacco di Palermo".

La seconda inchiesta sta facendo luce sulla trattativa tra mafiosi e pezzi dello Stato per ottenere lo stop alla stagione stragista voluta da Riina in cambio di garanzie e impunità per i boss: è quella che vede il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia. Mori, ex comandante del Ros e direttore del servizio segreto civile Sisde, e il suo braccio destro Obinu, avrebbero trattato nel '92 la fine della strategia degli attentati di Cosa nostra in cambio di alcune garanzie chieste dai capimafia. Il tramite di questo patto sarebbe stato Vito Ciancimino, nato a Corleone e legato ai compaesani Riina e Provenzano da antica amicizia. Così, al "papello" di richieste avanzato da Riina tramite il medico Antonio Cinà e consegnato a Ciancimino perché lo girasse agli ufficiali dell'Arma, è seguito un "contropapello": l'ex sindaco Dc formulò proposte più moderate che prevedevano l'abolizione del carcere duro per i mafiosi (il 41 bis), una riforma della giustizia all'americana con un sistema elettivo dei giudici, la nascita di un partito del Sud. Aperto dall'annotazione «Mancino-Rognoni» (allora ministri dell'Interno e della Difesa), il foglio sarebbe stato scritto prima del 19 luglio del '92, giorno dell'attentato a Borsellino. Le analisi della Polizia Scientifica hanno confermato che la grafia è quella di Ciancimino e che il post-it accluso in cui c'era scritto "consegnato spontaneamente al col. Mori" è stato prodotto tra il 1986 e il 1991.

Il terzo riscontro, tra i molti altri oggetti di una perizia di centinaia di pagine consegnata dalla Polizia Scientifica ai pm di Palermo, riguarda la lunga lettera firmata Vito Ciancimino e indirizzata all'«illustrissimo Presidente Dott. Fazio». All'allora governatore della Banca d'Italia, l'ex sindaco Dc di Palermo offriva la sua benedizione e la chiave di lettura per gli omicidi dell'eurodeputato andreottiano Salvo Lima, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.

Di quest'ultimo scriveva: «Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzato dal Colonnello Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia, ennesimo strumento nelle mani del regime, e di fatto interrotto con l'omicidio del Giudice Borsellino, sicuramente oppositore fermo di questo accordo...».

La firma in calce alla lettera, ha accertato la Polizia Scientifica, è proprio quella di Vito Ciancimino.



martedì 14 settembre 2010

Perché il Cavaliere non vuole più le elezioni. - Eugenio Scalfari


In caso di risultato incerto del voto ci vorrebbe un governo di unità nazionale. Ma il primo ministro non potrebbe più essere Berlusconi

di EUGENIO SCALFARI

SI DIMETTERA' oppure no? Gli voteranno contro o troveranno un compromesso per tirare avanti e guadagnar tempo? Napolitano sarà costretto a sciogliere le Camere oppure troverà una maggioranza alternativa per non strozzare un'altra volta la legislatura come già accadde con la crisi del governo Prodi?
Mentre scrivo sembra che tutto stia volgendo al meglio, almeno dal punto di vista di chi vede (e noi siamo tra questi) lo scioglimento anticipato del Parlamento come una iattura. Prima di procedere oltre spiego perché.
Anzitutto l'economia. Mi aveva stupefatto - lo confesso - la tranquillità con la quale pochi giorni fa il ministro Tremonti aveva pubblicamente affermato che l'economia e la finanza pubblica italiana erano completamente salvaguardate e blindate e che quindi una campagna elettorale anticipata non avrebbe procurato alcun danno.
Un'affermazione del genere fatta dal titolare di un ministero che tra la fine di settembre e i primi di dicembre vedrà scadere e dovrà rinnovare circa 160 miliardi di titoli di Stato e sul quale incombe uno stock di debito pubblico che ha superato il 117 per cento del Pil, dimostra un senso di responsabilità molto leggero.
Ma quella leggerezza si trasforma addirittura in irresponsabilità se si pensa ai probabili risultati di elezioni anticipate. Quand'anche la coalizione Pdl-Lega vinca con questa legge le elezioni alla Camera, resta assai alta la possibilità che le perda al Senato.

Questa è una delle ragioni particolarmente presenti al Capo dello Stato: l'ingovernabilità di una legislatura con maggioranze diverse tra una Camera e l'altra. È incredibile che un pensiero analogo non abbia neppure sfiorato il ministro dell'Economia.
Ma c'è un altro elemento ancora che avrebbe dovuto allarmarlo fin dall'inizio di quest'assurda girandola di fuochi d'artificio: uno scioglimento anticipato della legislatura che avvenisse entro ottobre per poter votare prima della fine dell'anno, interromperebbe la sessione di bilancio dedicata all'approvazione della legge finanziaria. Il bilancio dello Stato andrebbe in esercizio provvisorio e ci resterebbe fino all'entrata in carica di un nuovo governo, il che significa da ottobre fino a febbraio nel migliore dei casi.
Tremonti sa, come tutti noi sappiamo, che quei quattro o cinque mesi di esercizio provvisorio sarebbero un pascolo pingue per la speculazione internazionale contro i titoli pubblici italiani e contro l'euro e aprirebbero nelle maglie di Eurolandia un buco ben più grave del temuto "default" della Grecia.
In una tardiva dichiarazione di mercoledì scorso finalmente anche Tremonti ha dichiarato di esser contrario allo scioglimento anticipato. Ha aspettato che lo dicesse Bossi. Non è proprio questo un teatro dei pupi?

* * *

Il teatro dei pupi, del resto, sta dilagando in tutta la politica italiana. Qualche esempio di questi giorni per tener sveglia la nostra spesso latitante memoria.
1. All'indomani del discorso di Fini a Mirabello, Berlusconi e Bossi dichiararono che avrebbero portato il caso Fini dinanzi al presidente della Repubblica cui avrebbero chiesto di obbligare Fini a dimettersi da presidente della Camera.
2. Il Capo dello Stato ha precisato dal canto suo che i presidenti di Camera e Senato non possono essere sfiduciati da nessuno e restano in carica per tutta la legislatura salvo che siano essi stessi a dimettersi.
3. Berlusconi e Bossi hanno reiterato la loro intenzione di sollevare il caso Fini al Quirinale.
4. Tutta la stampa italiana e tutti i giuristi, Costituzione alla mano, hanno definito Berlusconi, Bossi e i loro fedeli seguaci come altrettanti analfabeti costituzionali.
5. Berlusconi ha dichiarato che la volontà a lui attribuita di voler sollevare il caso Fini dinanzi al Quirinale è una delle tante falsità della stampa italiana e si è rimangiato tutto chiudendo la questione. Non è la prima volta e purtroppo non sarà l'ultima.
6. Nel frattempo tutto l'apparato berlusconiano e leghista è stato mobilitato per affrontare le elezioni entro la fine dell'anno. Il ministro dell'Interno leghista Maroni ha indicato il 27 e 28 novembre come la data probabile; il ministro della Semplificazione Calderoli ha spostato la data al 3-4 dicembre. Tutti e due evidentemente se ne infischiano delle prerogative del Capo dello Stato in materia di scioglimento anticipato delle Camere.
7. Berlusconi nel frattempo si è rivolto ai suoi "legionari della libertà" allertandoli per votazioni immediate entro l'anno per prendere contropiede sia Fini sia i partiti d'opposizione. Ma resta il problema di come mettere fine a questo Parlamento.
8. Il presidente del Consiglio esclude le sue dimissioni. Non vuole che la gente pensi che sia lui il responsabile di quella morte anticipata.
9. Bossi è stufo di queste lentezze e annuncia che sarà la Lega a votare la sfiducia al governo ammazzando così il Parlamento. Per chiudere in bellezza quell'annuncio fa una sonora pernacchia al microfono in stile Totò e la dedica a Fini.
10. Sia Berlusconi sia Bossi sia Tremonti dichiarano tra martedì e mercoledì scorso che non vogliono affatto le elezioni immediate e cercheranno invece di governare al meglio nonostante i finiani. Naturalmente se le Camere voteranno la fiducia al programma berlusconiano che sarà presentato al Parlamento il 28 di settembre.
Non è un teatrino di pupi? Un dire oggi cosa diversa ed anzi opposta a quella detta ieri ed a quella che sarà detta domani su questioni del massimo rilievo? È questo il modo di infondere negli italiani fiducia nella politica e nelle istituzioni?

* * *

Nel frattempo Berlusconi cerca un manipolo di ascari che rafforzi la sua pericolante maggioranza e dia fiducia al programma quando lo esporrà a fine mese alla Camera.
La ricerca finora si è indirizzata verso tre o quattro cani sciolti del gruppo misto e verso Raffaele Lombardo detto il siciliano che ne controlla altri otto. Ci sono poi quattro deputati eletti nelle liste del Pdl ma iscritti fin dall'inizio in un gruppo chiamato "Noi-Sud" per confondersi con l'"Io-Sud" della Poli Bortone. In sostanza si tratta di contare due volte una manciata di trasformisti di professione che hanno sempre votato Berlusconi e che ora si ripresentano mascherati da autonomi che tornano alla casa madre. Voteranno la fiducia al governo con i finiani. La prova che il governo ha in suo rinforzo questo gruppetto dunque non si avrà.
Resta da spiegare per quale ragione Berlusconi si è improvvisamente convinto ad evitare le elezioni anticipate anziché volerle a tutti i costi subito come pensava e diceva appena pochi giorni fa. Ebbene la ragione è chiara: c'è il rischio di perdere la maggioranza al Senato.
Questo rischio è reale anche con l'attuale e pessima legge elettorale. Il risultato dipende dalla probabile alleanza elettorale tra Fini e Casini in alcune Regioni-chiave come la Sicilia, la Campania, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte. In queste Regioni l'accoppiata Fini-Casini potrebbe ottenere la vittoria o favorire quella del centrosinistra togliendole comunque a Berlusconi e realizzando al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera.

In tal caso si renderebbe necessario un governo di quelli che si chiamano di "unità nazionale" che veda unite insieme tutte le maggiori forze politiche presenti in Parlamento. Un governo cioè del tipo delle "grosse coalizioni" tedesche, che potrebbe nascere soltanto se il nuovo presidente del Consiglio fosse persona diversa da Berlusconi, il quale diventerebbe semplicemente un deputato leader di un partito importante ma in fase - a quel punto - di un sommovimento interno di incalcolabili esiti. Per cinque anni in questa condizione e senza più alcuno scudo che possa difenderlo dai processi in corso.

Il rischio per Berlusconi è insomma enorme e per questa ragione egli farà di tutto per scongiurarlo. Ci riuscirà? Accetterà di essere cotto a fuoco a lento per due anni e mezzo? E come reagirà l'opinione pubblica, le categorie sociali più colpite dalla crisi, i giovani, le forze politiche d'opposizione? Come reagirà la Lega che scalpita per incassare l'incremento di voti tolto nel Nord al Pdl?
Queste sono le domande dei prossimi mesi. Diciamo: tutto a posto, niente in ordine, proprio così dopo 15 anni di anomalia berlusconiana.


http://www.repubblica.it/politica/2010/09/12/news/perch_il_cavaliere_non_vuole_pi_le_elezioni-6990072/



Oltre un miliardo di euro, sequestro da record al “signore del vento” vicino a Messina Denaro



Si tratta dell'imprenditore alcamese Vito Nicastri, ras siciliano dell'eolico già coinvolto nell'indagine di Avellino. Per la Dia sarebbe contiguo a Cosa nostra

Un centinaio di beni immobili, 43 società di capitali con partecipazioni estere e ingentissimi patrimoni, più di 60 rapporti finanziari e decine di lussuosissime autovetture, oltre a uno splendido catamarano di 14 metri appena costruito. Totale: un miliardo e mezzo di euro, tremila miliardi delle vecchie lire, quasi come una manovra finanziaria di una grande Regione. Sta qui, in parte, il patrimonio di Vito Nicastri, 54enne imprenditore alcamese, messo sotto sequestro dalla Direzione Investigativa di Trapani su mandato del Tribunale di Trapani.

Gli investigatori, guidati dal generale
Antonio Girone, hanno ricostruito il fitto reticolo patrimoniale di Nicastri, tornando indietro di oltre 30 anni. Il risiko finanziario finito sotto la lente dell’antimafia dimostra una grande sperequazione tra i redditi dichiarati dall’imprenditore alcamese e quelli effettivamente accumulati. Ombre e sospetti, dunque. E un tesoretto che viaggia in parallelo con le frequentazioni dell’imprenditore, considerate contigue agli ambienti mafiosi.

Ne ha fatta di strada Vito Nicastri. Partito come semplice elettricista negli anni ’70, fa parlare di se già nel 1994, quando resta invischiato nella Tangentopoli siciliana. Fin da subito, il suo business è strettamente legato al campo delle energie rinnovabili: prima col fotovoltaico, poi con l’eolico e negli ultimi tempi, di nuovo nel settore dei pannelli solari. Nicastri è l’inventore della figura dello “sviluppatore”: parchi eolici e fotovoltaici forniti chiavi in mano alle grosse aziende energetiche.

L’ex elettricista alcamese era diventato un mago nell’ottenere concessioni dallo Stato (concessioni che in certi casi erano state negate persino all’Enel), acquistare terreni, costruire i parchi eolici e poi cederli “tutto incluso” ai grandi colossi del settore. Proprio per questo addirittura l’autorevole
Financial Times lo aveva soprannominato come “il signore del vento”. Affari che portavano nelle tasche di Vito Nicastri decine di milioni di guadagno netto, come lui stesso ammetteva orgoglioso nelle interviste .

Affari che undici mesi fa interessano anche la Procura d’Avellino che spicca un mandato di cattura per Nicastri con l’accusa di truffa allo Stato. Già in quel frangente emergono le possibili frequentazioni di Nicastri con Mario Giuseppe Scinardo, mafioso del clan messinese dei Rampulla, lo stesso clan che fornì il detonatore per la strage di Capaci. Non è finita. Perché vengono alla luce anche i rapporti con le potentissime ‘ndrine calabresi di Platì, San Luca e Africo.

Il sequestro preventivo dei beni del Nicastri, a cui la DIA lavorava dal dicembre 2009, è sintomo evidente di una fondata e più che attuale contiguità con gli ambienti di Cosa Nostra trapanese, retta ancora dal latitante
Matteo Messina Denaro. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo sottolinea come “sottrarre i beni a Cosa Nostra è di basilare importanza per la lotta alla criminalità, come dimostrano le operazioni contro Giuseppe Grigoli e Rosario Cascio, anche loro vicinissimi a Matteo Messina Denaro.”

D’altronde come dice lo stesso generale Girone “per Cosa Nostra è più semplice sostituire un adepto arrestato, che un patrimonio”. Soprattutto se si tratta di un patrimonio di queste proporzioni. Un sequestro record – sicuramente il più ingente degli ultimi anni -paragonabile soltanto a certi maxi sequestri ai grossi imprenditori edili del passato, nella Palermo dei Lima e dei Vito Ciancimino. Un sequestro che però rappresenta soltanto la prima tappa delle indagini, che cercheranno di gettare luce sulla florida realtà economico criminale della Sicilia occidentale. Una realtà al cui vertice c’è sempre lui: l’inafferrabile Matteo Messina Denaro.

di Giuseppe Pipitone