sabato 26 marzo 2011

L'Ispra: «Nessuna traccia della nube dal Giappone, non c'è allarme».



Nessuna traccia della nube radioattiva di Fukushima attesa in questi giorni sull'Italia. Se sono passate alle nostre latitudini masse d'aria provenienti dal Giappone, avevano tracce di radioattività talmente minime da non essere rilevate neanche dai pur precisissimi strumenti di misurazione. Lo ha riferito l'Ispra nel bollettino sulla situazione pubblicato alle 20:00 di ieri sul suo sito.

La dispersione di radioattività dalla centrale giapponese, spiega l'Istituto, ha risentito delle traiettorie dei venti che, su larga scala, hanno interessato prevalentemente l'area orientale e nord orientale, verso l'Oceano Pacifico e gli Stati Uniti. «Nel loro movimento», si legge nel bollettino, «le masse d'aria vanno gradualmente depauperandosi del contenuto iniziale di radioattività, per cui si ritiene che, giunte in Europa, avranno una concentrazione di radioattività estremamente bassa, a livelli tali da risultare difficilmente rilevabile con i normali sistemi di misura, e comunque da ritenersi non rilevanti dal punto di vista radiologico. Al riguardo, l'Environmental Protection Agency statunitense, utilizzando sistemi di rilevamento estremamente sofisticati, ha nei giorni scorsi stimato che i livelli di radioattività in aria risultano talmente bassi da comportare per un individuo della popolazione una dose dell'ordine di centomila volte inferiore a quella normalmente ricevuta dalla radioattività naturale».

In Islanda l'Autorità per la Radioprotezione, «grazie a sistemi molto sofisticati, in grado di rilevare anche concentrazioni di radioattività ampiamente al di sotto dei valori che possono comportare un rischio sanitario per la popolazione, hanno rilevato tracce di Iodio 131 ritenute dall'Autorità stessa dell'ordine di un milionesimo di volte inferiori a quelle misurate in Europa a seguito dell'incidente di Chernobyl e che non comportano alcun rischio per la salute».

Tuttavia le misure giornaliere dell'Ispra sul territorio italiano, concentrate soprattutto sulla presenza degli isotopi Cesio 137 e Iodio 131, «non hanno evidenziato anomalie rispetto a
quanto rilevato precedentemente all'incidente».



Esposizioni alle radiazioni nucleari Ecco i rischi per la salute.


Nausea, perdita dei capelli, emorragie, e poi, a lungo termine, tumori alla tiroide e leucemie, la morte. Sono questi i possibili effetti dell’esposizione alle radiazioni. L’unità di misura è il sievert, che è un valore notevole, tanto che in genere si usa il suo sottomultiplo millisievert(mSv).

Per dare un’idea della scala di valori, ciascuno di noi ogni anno assorbe, per via della radioattività naturale, in media 2,4 millisievert. Una radiografia ordinaria comporta per il paziente un assorbimento di 1 millisievert, una Tac oscilla tra i 3 e i 4 mSvt, una Pet o una scintigrafia dai 10 ai 20 mSv. In radioterapia, ovviamente, le dosi salgono molto, in base al tumore che si intende distruggere, e possono superare i 40 mSv. I radiologi hanno come punto fermo la soglia di 6 mSv tollerabili senza conseguenze da un organismo sano.

In Giappone, nei pressi della centrale di Fukushima, si è raggiunta la quota di 400 mSv in un’ora di esposizione. Quali sono i possibili danni? Secondo le tabelle dell’Oms, se si viene esposti a un sievert (1.000 mSv) nell’arco di un’ora si incorre in alterazioni temporanee dell’emoglobina; quando si sale a 2-5 sievert si hanno perdita dei capelli, nausea, emorragie. Con 4 sievert assorbiti in una settimana si ha la morte nel 50% dei casi, con 6 è morte certa e immediata.

Questo solo nel breve periodo. Nel lungo, come si è visto con drammatica precisione negli anni successivi a Chernobyl, anche dopo 20 e più anni, si rischiano tumori (soprattutto tiroidei), linfomi e leucemie. Le aree del corpo considerate più radio-sensibili sono quelle le cui cellule si moltiplicano molto rapidamente: la pelle, il midollo osseo e le ghiandole sessuali. Mentre reni, fegato, muscoli e sistema nervoso sono ritenuti radio resistenti, poiché le cellule che compongono questi tessuti si riproducono con minore facilità. I rischi più immediati, dunque, sono rappresentati da infiammazioni che coinvolgono la pelle e la bocca, da emorragie sottocutanee e perdita di capelli.

Il tasso di mortalità è particolarmente elevato nell’arco di 45 giorni dal momento in cui si viene a contatto con le radiazioni. Contro la contaminazione, le uniche misure con una qualche efficacia sono il chiudersi in casa evitando il più possibile il contatto con l’aria esterna e l’assunzione di iodio, finalizzata a colpire le cellule ormai compromesse evitando che la contaminazione si diffonda nell’organismo. Fondamentale anche l’igiene personale, soprattutto il lavarsi accuratamente le mani. Nei casi più gravi, i piani di intervento di tutti i paesi del mondo prevedono l’evacuazione nel raggio di almeno 5 chilometri dal luogo dell’incidente nucleare.



venerdì 25 marzo 2011

Nelle mani giuste. - di Marco Lillo.


Le carte delle inchieste sul neoministro dell'Agricoltura. Quei rapporti pericolosi con i boss siciliani

Francesco Buscemi starà festeggiando a suon di cannoli dopo avere visto in televisione il suo amico Saverio Romano giurare come ministro dell’agricoltura. L’uomo giusto al posto giusto. Nell’indagine che portò all’arresto di Buscemi per mafia c’è un’intercettazione del 2001 che spiega la sua felicità.

Buscemi era indagato per i suoi rapporti con il boss del mandamento di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, e con il braccio destro di Bernardo Provenzano, Giuseppe Lipari. Nato nel 1935, legatissimo a Vito Ciancimino, funzionario ai Lavori pubblici della Provincia, Buscemi sarà condannato in primo grado per il suo ruolo di ponte tra mafia e politica e si salverà in appello grazie alla derubricazione dell’accusa di mafia in favoreggiamento semplice, reato prescritto. Nei mesi precedenti alle elezioni del 2001 Buscemi andava a trovare il boss Guttadauro, uscito da poco di galera per concordare le strategie e i candidati. Il 3 maggio del 2001, per convincere il boss a sostenere Romano ricorda con orgoglio le “pazzie” di quel “ragazzo grazioso” per lui. Il dialogo merita di essere riproposto a beneficio di chi ha vistato la nomina di questo 46enne di Belmonte Mezzagno a capo di un ministero che dovrà gestire nei prossimi anni 15 miliardi di euro.

FR: Francesco Buscemi.
GU: Giuseppe Guttadauro.


FR: Tu sai che si porta a Bagheria? Si porta alle nazionali Saverio Romano…
GU: sì
FR: Saverio ti ho detto che per una cosa mia ha fatto pazzie. Perché lui è presidente dell’I.R.C.A.C. (l’istituto regionale per il credito cooperativo Ndr)…
GU: lo so…
FR: te l’avevo detto… presidente dell’I.R.C.A.C. ed avevo quella cosa sia al Banco di Sicilia – Cassa di Risparmio e sia all’ I.R.C.A.C., l’ultimo periodo all’I.R.C.A.C. Io dovevo pagare per uscirmene da quella camurria di quella firma che ho messo da Pacego (o simile)… quarantaduemilioni. Minchia, Saverio mi risulta per una settimana non ci andò perché gli avevano messo la “cosa” per firmarla … per dire che non mi davano più il benestare… perché Saverio ci ha fatto levare qualche trenta milioni, no a me a chi…. ai tre che eravamo. Così. Però mi disse Franco bisogna pagarli, quelli due pagali …perché passa il tempo ed io sono nei guai. Chiamò l’avvocato Minì’ (o simile) il Vice Direttore generale al suo studio e gli ha detto tu domani prende la lettera sul mio tavolo e te la porti da te e la fai scomparire per otto giorni ed io a otto giorni non vengo .. vedi che con me si è comportato molto abilmente …della nostra amicizia.
Ovvio che Buscemi insista con il boss.
FR: infatti ho detto a me stesso ne parlo con Peppino (Guttadauro Ndr) dico a te è arrivato input per Saverio Romano?
GU: si va be ma non…
FR: e allora ti è arrivato ..no..no…non… basta
GU: non è problema….
FR: te lo detto pure io..
GU: si va…
FR: con me si è comportato bene le cose giuste..
GU: si ma …
FR: e poi è un ragazzo grazioso …sarà eletto
GU: sicuro è eletto.


Il boss aveva ragione. Romano sarà eletto nel collegio di Bagheria e inizierà l’ascesa che lo porterà al dicastero dell’agricoltura. Il ministro proviene dalla stessa nidiata di Cuffaro: la Dc siciliana di Calogero Mannino. Il pentito Francesco Campanella, giovane consigliere comunale di Villabate passato alla storia come l’uomo che ha fornito la carta di indentità a Bernardo Provenzano per il suo viaggio a Marsiglia, fissa nella memoria un’istantanea: un pranzo romano nel 2001 quando Campanella era a sinistra, nell’Udeur di Mastella, mentre Romano correva a destra con Cuffaro. “Eravamo in una trattoria a Campo de’ Fiori con Franco Bruno, capo di gabinetto dell’allora onorevole Marianna Li Calzi, sottosegretario di Stato alla Giustizia e il dottor Sarno, che era un magistrato, sempre del gabinetto dell’onorevole Li Calzi. C’era anche mia moglie poi si aggiunsero Saverio Romano e l’onorevole Cuffaro che erano a Roma per questioni legate alle politiche del 2001. Franco Bruno, che conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, scherzando a tavola disse: “Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra?”. Stizzito l’onorevole Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: “No, Francesco mi vota, perché…”, lo disse in siciliano, “perché siamo della stessa famiglia”. E poi girato verso di me aggiunse: “Scinni a Villabate e t’informi”. Proprio con un atteggiamento duro e un riferimento specifico alla famiglia mafiosa, tanto da lasciare tutte le persone che erano presenti a quel pranzo senza fiato, senza parole [...]….Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.

Ma non basta. Nella sentenza di appello che condanna Totò Cuffaro per favoreggiamento con l’aggravante di mafia, si legge:

…Secondo il Tribunale era pertanto pacificamente emerso che sia Romano che Cuffaro erano stati informati in modo palese e chiaro dal Campanella che la candidatura di Acanto era voluta dal gruppo di Villabate facente capo ad Antonino Mandalà (poi condannato in primo grado per mafia Ndr) cosa che i due avevano comunque accolto di buon grado; Il pm Antonino Di Matteo ha chiesto l’archiviazione per Romano con questa motivazione poco onorevole: “le dichiarazioni di Campanella sono parzialmente riscontrate con riferimento a significativi episodi denotanti la contiguità dell’indagato al sistema mafioso”. Le dichiarazioni del pentito invece “non hanno trovato adeguato riscontro nella parte in cui si riferivano a condotte poste in essere da Romano concretamente per favorire gli interessi della mafia”. Per il concorso esterno è necessario un contributo concreto a Cosa Nostra, non solo la contiguità. Quella però dovrebbe bastare per non essere scelti come ministri.





Rai, Masi furioso. Il Cda lo lascia solo contro Santoro.


Nervi tesi al Cda della televisione di Stato con il presidente Garimberti che ha dovuto sospendere la seduta per calmare il direttore generale che non ritirerà il ricorso che chiede la sospensione del reintegro del giornalista

“Difendo la libertà editoriale dell’azienda”, ha urlato Mauro Masi, fumante in viso e con la cravatta più stretta del solito. Il direttore generale della Rai, in un consiglio di amministrazione teso come sempre, ieri ha provato a scaricare le proprie responsabilità nell’ennesimo “scontro” con Annozero e Michele Santoro.

E questa volta, lo scontro, è tutto giudiziario. Il motivo della tensione, infatti, è il ricorso che il direttore generale Rai – come anticipato dal Fatto Quotidiano – ha presentato in Corte di appello. Il ricorso mira a sospendere la sentenza che confermò, nel 2009, il reintegro di Michele Santoro. In attesa dell’ultimo e definitivo parere della Cassazione, se la Corte d’appello dovesse sospendere la sentenza, che consente a Santoro di dirigere Annozero, si creerebbero le condizioni per la sospensione del programma.

Di questo s’è discusso ieri nel consiglio d’amministrazione, e dopo l’urlo di Masi, mentre i consiglieri di maggioranza si guardavano disorientati, il presidente Paolo Garimberti ha deciso di sospendere la seduta per cinque minuti. Nel Cda Rai, nessuno sapeva che tra Masi e il presidente Garimberti, c’era stato un duro scambio di lettere. Garimberti contesta a Masi di aver tenuto all’oscuro il consiglio su quest’importante iniziativa legale contro Santoro.

In particolare, Garimberti contesta a Masi d’aver citato nel ricorso l’esposto firmato dal ministroPaolo Romani e indirizzato all’Agcom. Un esposto peraltro ignorato dalla stessa Autorità di garanzia che, infatti, ancora non ha aperto un’istruttoria. La tattica ricorda il “metodo Trani”, scoperto dall’inchiesta che svelò i rapporti stretti tra l’allora commissario Agcom, Giancarlo Innocenzi (poi dimessosi) e Silvio Berlusconi, con un ruolo attivo di Masi. I consiglieri d’opposizioneGiorgio Van Straten e Nino Rizzo Nervo hanno sollevato il problema in Cda ed è stato proprio questo a scatenare la reazione di Masi. Oltre lo scontro Garimberti-Masi, però, l’opposizione non ha armi per costringere il dg a ritirare il ricorso, anche se lo Statuto aziendale prevede che la collocazione dei dipendenti sia materia esclusiva del Cda. E quindi il prossimo 4 aprile la Corte di appello si riunisce per discutere la singolare richiesta di Masi: annullare la sentenza che permette a Santoro di lavorare e garantisce la messa in onda di Annozero. Qualora Masi dovesse vincere, per il programma di Rai2 la fine sarebbe vicina.

Ieri i consiglieri hanno toccato un altro argomento sensibile per Masi: l’inchiesta della Procura di Roma sulle spese con la carta di credito Rai di Augusto Minzolini (almeno 68 mila euro in 14 mesi non motivati). Per il momento il fascicolo aperto, secondo il cosiddetto “modello 45”, è contro ignoti e quindi Minzolini non è indagato. Ma la Procura – che aspetta l’informativa della Guardia di Finanza – nel caso venisse individuato un illecito, potrebbe ipotizzare i reati di truffa, peculato e una violazione delle norme tributarie. Masi ripete di aver fatto il possibile sul caso Minzolini e, per la prima volta, ammette che il direttore del Tg1 potrebbe restituire la somma. Non l’ha mollato, anzi l’ha protetto criticando la confusione che crea la “governance aziendale”.

di Antonio Massari e Carlo Tecce



Romano ministro, un messaggio alla mafia. - di Peter Gomez.




L’indecente nomina di Saverio Romano a ministro dell’Agricoltura, fa paura. Dare un posto nel governo a un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione che importanti boss di Cosa Nostra, come il capofamiglia di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, nelle loro conversazioni intercettate dalle microspie, lodano e rispettano, equivale a lanciare ai clan unsegnale preciso. E se poi l’esecutivo punta con testardaggine su Romano, sebbene il capo dello Stato si sia schierato apertamente contro la scelta, ecco che il segnale, agli occhi di Cosa Nostra e ‘ndrangheta, si trasforma in una sorta di messaggio: la tanto sbandierata lotta alla criminalità organizzata è solo di facciata. Intanto una sedia al tavolo del Consiglio dei ministri per chi, a torto o ragione, considerate un amico la troviamo sempre.

Tutti, a partire dalla politica e dagli uomini d’onore, sanno infatti che Romano non è solo stato lo storico braccio destro di Totò Cuffaro, l’ex governatore della Regione Sicilia condannato in via definitiva per fatti di mafia. Il neoministro è pure stato uno dei pochissimi parlamentari a non aver votato nel 2002 la norma che ha reso permanente il 41 bis, il carcere duro per i boss. Mentre nel suo feudo elettorale di Belmonte Mezzagno, il comune dove Romano è nato e dove suo zio, Saverio Barrale è sindaco, sono oggi in corso le procedure che potrebbero portare allo scioglimento dell’amministrazione per infiltrazioni da parte di clan.

Per questo, al di là dell’esito delle inchieste in cui Romano è ancora coinvolto, quello che è accaduto fa paura. A Silvio Berlusconi e alla Lega non importa che il loro esecutivo venga percepito come un governo Gomorra. La maggioranza ha ormai un solo obiettivo: la propria sopravvivenza. Romano serve perché in Parlamento porta in dote il voto dei cosiddetti Responsabili. E se poi, al Nord come al Sud, qualcuno tra le famiglie di mafia si mette in testa qualche strana idea, non è un problema. Anzi, visto che le elezioni amministrative sono alle porte, è meglio.



Gli strumenti di tortura dell'esercito garibaldino.



In una seduta parlamentare, il deputato Vito D’Ondes Reggio, discutendo sulla brutalità e sui metodi di alcuni ufficiali piemontesi, i quali arbitrariamente esercitavano il diritto di vita o la pena di morte, deprecava quei metodi incivili. Essi, al di fuori di ogni ordinamento e della legge costituzionale, con pugno di ferro portavano lo scompiglio, rischiando il sollevamento della popolazione; descrivendo ai suoi colleghi deputati, fatti circostanziati. Ricordando per altro, con quanto piglio marziale, i comandanti e gli ufficiali dell’esercito piemontese perseguivano un fine discutibile.

Arrecando nocumento a gente inerme con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato: per tanto, con un nuovo strumento correttivo, una invenzione escogitata da un ex garibaldino in pensione, torturavano con i ceppi ferrati la popolazione indifesa. La trovata, era costituita da due particolari anelli di ferro, forniti di quattro bulloni espansivi cadauno; il torturato avrebbe ricevuto quella gioia ai rispettivi polsi, allungandolo su per due cinghie di cuoio, annodate fortemente agli anelli che avrebbero sospeso in aria il condannato. Allo stesso tempo, alla base dell’ordigno, un patibolo a modo di giunto fornito di buco filettato, accoglieva una lunga vite continua aguzza alla punta, che facendosi strada fra i polsi costretti in quella postura, li avrebbe attraversati dal basso (i polsi) verso l’alto (i palmi delle mani giunte e le falangi). Dunque, questi ceppi, furono uno strumento di tortura richiestissimo dai soldati (da fonte francese si segnala che ne furono costruiti 400 in Piemonte e altre decine nei luoghi di tortura), ritenendolo molto efficiente per due motivi: l’afflitto avendo gli arti superiori posti in tensione sulla testa, una volta ferito non rischiava di morire dissanguato.

Secondo, essendo legato e posto sospeso come un salame, provava un intenso dolore persistente, misto ad infiammazione, quando la vite spingeva sempre più nella carne fino alle ossa. Provocando uno spasmo infinito, per il quale in pochi avrebbero resistito. Il Maggiore Frigerio in quel di Licata, lo ebbe a sperimentare per primo, su una popolazione afflitta per 25 giorni di assedio: privando, dal 15 agosto del 1863 in piena estate, tutto il civico consesso 22000 abitanti, dell’acqua con pena di fucilazione immediata verso tutti coloro che osavano uscire di casa. Secondo il punto di vista militare, l’esperimento era riuscito e con tale obbrobrio, fu esteso a tutta la Sicilia, moltiplicando i supplizi e le morti. Altre fonti segnalavano che i torturati, rei di nascondere i renitenti alla leva e i disertori di un esercito ancora da formare, venivano flagellati prima alle gambe e alle braccia: indistintamente se uomini o donne, se adulti o fanciulli, se andicappati o donne gravide. Tutti venivano malmenati in modo democratico con sevizie senza eguali.

Ma lo scopo era raggiunto? E le torture sarebbero poi cosi efficaci? I soldati piemontesi si accorsero che il popolo taceva; nessuno dei torturati cospirava, nessun nome venne reso per sollevarsi da quella pena. La cosa, invece di fermare quell’abominio, incattiviva ancora di più la truppa e gli ufficiali. Le fonti parlamentari segnalavano: malgrado i tormenti ingiustificati, grazie a Dio, nessuno perì sotto i ferri. Ma i giornali, e molti testimoni fra gli stranieri non furono dello stesso avviso.

Fonti: Diario dell’onorevole Vito D’Ondes Reggio 1863
documentario in lingua francese, a cura di Philippe Francois e Joseph Poli 1865
memorie del generale Giuseppe Govone, a cura di Umberto Govone 1902
Per la gravità dell’argomento trattato, ho inserito alcune delle mie fonti

Alessandro Fumia
fonte:http://zancleweb.wordpress.com/2011/03/17/una-invenzione-garibaldina-i-ceppi-della-tortura/

http://comitatiduesicilie.org/index.php?option=com_content&task=view&id=3995&Itemid=1


Il delitto Calabresi? Mauro Rostagno: "Se mi lasciano il tempo poi ne parliamo".


La frase pronunciata una mese prima di essere ucciso, durante un colloquio con il brigadiere dei carabinieriBeniamino Cannas. Il sottoufficiale la annotò in una relazione di servizio solo nel maggio del 1992, ma in aula ieri ha detto di non ricordare, suscitando la reazione del pm Gaetano Paci e la sorpresa del presidenteAngelo Pellino.

Mauro
"Se mi lasciano il tempo poi ne parliamo".
Sono parole di Mauro Rostagno, pronunciate mentre dialoga con il brigadiere dei carabinieri Beniamino Cannas. Siamo alla fine del mese di agosto del 1988, circa un mese prima dell’agguato. La frase - non risulta che sia mai stata annotata prima - è impressa in una relazione di servizio, redatta dal sottufficiale (oggi luogotenente) il 18 maggio 1992. Una relazione scritta dopo un incontro avuto in caserma con Carla Rostagno, sorella del giornalista ucciso a Lenzi il 26 settembre 1988. La donna si era rivolta a Cannas per avere notizie sulle indagini e per sapere se avesse mai ricevuto confidenze dal fratello in merito a preoccupazioni sulla sua incolumità.


Il brigadiere scrive nella relazione di avere avuto un incontro con Mauro Rostagno e di avergli chiesto notizie sulla comunicazione giudiziaria inviata dai magistrati di Milano nell’ambito delle indagini sull’omicidio del commissario Calabresi. Rostagno, dopo aver esternato la frase "un errore di gioventù" (molto probabilmente riferita alla sua adesione a Lotta Continua), disse a Cannas che, comunque, con quel delitto non c’entrava niente. I due si congedano - stando a quanto si legge nel verbale - con un’espressione che ad un investigatore non può, certamente, sfuggire: "...comunque, se mi lasciano il tempo, poi ne parliamo".

Dopo un mese Rostagno viene assassinato. Per quattro, lunghi, anni, Cannas non scrive nulla su quell’incontro. Agli atti del dibattimento - in corso alla Corte di Assise di Trapani - in merito, non c’è altro, a parte la relazione di servizio redatta nel 92. Eppure quella frase, "se mi lasciano il tempo", avrebbe dovuto illuminare un investigatore che ieri in aula si è vantato di avere arrestato nel corso della sua carriera ben ottocento persone.


Mauro Rostagno, evidentemente, temeva per la propria vita e dal verbale, emerge con chiarezza, che il riferimento è al contesto del delitto Calabresi. Non aver approfondito, nell’immediatezza dei fatti, quelle parole, sicuramente, non ha aiutato a far luce su un delitto ancora tutto da decifrare.

di Gianfranco Criscenti

http://www.iquadernidelora.it/articolo.php?id=75