Passerà la mano, ma non ora. Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.
I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.
Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».
All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.
Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».
Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.
Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.
I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.
Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».
All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.
Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».
Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.
Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...