venerdì 9 settembre 2011

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  • Sacconi Neri
  • Default Italia, 62 Giorni al Fallimento: I Maledetti Sindacati
  • Sciopero CGIL, Camusso: questo è uno sciopero politico!
Sacconi Neri

La barzelletta, l’aneddoto, chiamiamolo come ci pare, di Sacconi. E vabbé, il delirio di un tizio che sembra survoltato da chissà quale sostanza – visto quanto si agita? – e reduce probabilmente la sera prima dalla visione annebbiata di “Flavia la monaca musulmana”. Sono miserie da vecchi dai neuroni morenti.
Piuttosto io ho notato Bonanni, lì a fianco, che non ha battuto ciglio. Ecco, un pensierino, un leggerissimo sfanculamento anche per lui non guasterebbe. Per par condicio.
Vado a dar di rota alla vecchia Guillottin.
 

Default Italia, 62 Giorni al Fallimento: I Maledetti Sindacati

C’è chi, da centro-destra, da filo-governativo o da servo di Berlusconi, ha bocciato lo sciopero della Cgil e  definito la Camusso una in “crisi d’identità che sciopera per un mondo che non c’è più”.

E’ vero. Un certo mondo non c’è più. Ma i lavoratori ci sono. Il mondo del lavoro, c’è. Con buona pace dei berlusconiani.
Si tratta di capire – onestamente  – quale sia oggi il contesto specifico professionale di quel mondo e quello più ampio della società dove gli italiani lavorano, non trovano lavoro, hanno un lavoro precario.
Liquidare lo sciopero del 6 settembre 2011 proclamato dalla Cgil, e al quale hanno aderito anche lavoratori iscritti ad altre sigle sindacali o non iscritti, come il solo tentativo di sopravvivenza di una parte di rappresentanza sindacale significa non capire o, peggio ancora, non voler capire cosa sia il paese reale.
Qualcuno ha anche definito come “demenziale” lo sciopero proclamato dalla Cgil. Per un solo motivo: ne temeva la partecipazione estesa.
Costoro, come coloro che dal centro-destra hanno sminuito in buona o mala fede la scelta di manifestare, non hanno presente quale sia stata l’evoluzione o l’involuzione del lavoro in Italia.

Molti anni fa, nel nostro paese c’era il lavoro ma non c’erano i diritti dei lavoratori. O quanto meno, non erano garantiti in maniera adeguata rispetto ai dettami della Costituzione, al rispetto della dignità della persona, alla logica del do ut des che presiede un corretto e proficuo rapporto professionale.
In anni successivi, i lavoratori hanno visto riconosciuti i loro diritti. C’era lavoro. C’erano i diritti dei lavoratori. L’approvazione dello Statuto dei lavoratori è stato un atto importante. Indispensabile.

Negli anni successivi, la triade sindacale Cgil-Cisl-Uil ha rafforzato il suo potere contrattuale e, di fatto, è diventata la terza gamba politica: governo, parlamento, sindacato.
In questo ruolo ha contribuito al disfacimento della società italiana quando ha scelto di battersi per privilegi, quando ha ottenuto condizioni – ne cito una: andare in pensione con lo stipendio medio degli ultimi cinque anni – che aumentavano la spesa pubblica e nulla avevano a che vedere con il giusto riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Erano gli anni in cui la triade sindacale, accanto a battaglie contrattuali anche sensate, ha spesso difeso lavativi e ricattatori più che sostenere misure economiche indirizzate ad una maggiore giustizia sociale. Così facendo, ha indebolito il lavoratore nel contesto sociale generale. In quel periodo, CGIL, CISL e UIL erano fuori dal mondo. E non lo sapevano.

Gli errori commessi in quegli anni li stiamo pagando. Non solo i giovani. Li stanno pagando anche i  lavoratori e le lavoratrici ai quali oggi si vuole allungare l’età pensionabile.
Costoro devono pagare le pensioni baby, il sistema retributivo (pensione determinata in base agli stipendi degli ultimi anni) anziché contributivo (pensione determinata secondo gli effettivi contributi) nonché tutti gli sperperi, le inefficienze, le ruberie della classe politica.
Capite che, in questa condizione, tanto vale dire ai lavoratori: scordatevi la pensione. Oppure: morite prima.

Passano gli anni.
Siamo nella cosiddetta seconda repubblica. Lo scenario è prevalentemente quello di una classe politica mediamente volgare, incapace di governare un paese, e con un italiano medio – va detto – che ha perso il senso della collettività ed è soggiogato dal modello consumistico e, a seguire, dal modello del berlusconismo.  
I sindacati ci sono sempre. La logica comportamentale non è cambiata. Stanno però cambiando alcune condizioni sociali. L’introduzione dell’euro già chiede di “tirare la cinghia”. Gli anni dall’euro ad oggi hanno prodotto un impoverimento degli italiani perché, nel contesto dell’individualismo e del berlusconismo, si è approfittato per aumentare prezzi mentre pensioni e stipendi rimanevano al palo. I nodi stanno venendo al pettine.

Siamo quindi partiti con: lavoro ma non diritti, siamo passati a lavoro con diritti, poi a lavoro, diritti e privilegi. E oggi come siamo messi?
Oggi stiamo con padri e madri di famiglia che perdono il lavoro, con giovani senza lavoro o con lavori precari che non consentono un reddito adeguato al costo della vita. E con il tentativo di perdere i diritti acquisiti. Coloro che hanno ottenuto privilegi non sono minimamente toccati da nessuna manovra economica. Siamo sommersi di evasione ma stiamo anche pagando pensioni in misura maggiore di quanto spetterebbe. Stiamo dando un reddito pensionistico minimo ad alcuni ma anche servizi aggiuntivi che forse andrebbero tagliati o ridimensionati. Perché non si può riconoscere un reddito in base ad un modello sociale che dobbiamo cambiare. Perché se non cambiamo il nostro stile di vita, salteremo per aria.
In realtà: una parte del paese salterà per aria. Un’altra no. Perché continuerà ad evadere e quindi potrà continuare a vivere assorbita dal modello del berlusconismo.

Alla classe politica – di governo e di opposizione – agli economisti che ci intrattengono sullo spread dei Btp e sull’andamento delle borse che corrisponde o non corrisponde alla situazione reale dell’impresa italiana (avrei da dire su questo punto, ma al momento tralascio), ai giornalisti – pochi indipendenti e troppi servi e/o condizionati dalla pubblicità che paga il loro stipendio – ai sindacati, non vorrei sfuggisse  in che mondo siamo.
Stiamo entrando, o siamo già, nell’era: senza lavoro, senza diritti, con i soliti privilegi. In qualsiasi modo siano stati ottenuti: per evasione, corruzione, clientelismo, sindacalismo.
Senza lavoro e senza diritti non si può stare. E non perché lo affermi la Costituzione. Perché lo sancisce il diritto alla dignità della persona. Che si garantisce comprendendo la realtà, cercando onestamente soluzioni ai problemi sociali, rimediando agli errori del passato non aggiungendo altri errori.
Non so se la Cgil sia in “crisi d’identità per un mondo che non c’è più”. Credo di sapere però che CISL e UIL non abbiano le proposte adeguate e non facciano le azioni appropriate per rimediare agli errori del passato.
Ovvio che tanto più vale per la classe politica. Ma vale anche per tutti gli italiani che non sono in grado, culturalmente, mentalmente, di capire che è ora di rivedere un modello sociale. Nel quale, certi errori non sono più ammessi.

Lo sciopero della CGIL aveva una ragione d’essere. Non è fuori del mondo. Lo sarà, se questo sindacato si limita a contarsi e compiacersi. Lo sarà, se questo sindacato non capisce che non è più tempo per certi errori. Che bisogna conoscere la realtà del lavoro e quali diritti debbano essere tutelati.
Senza cedimenti. Senza compromessi. Senza pateracchi. Ovviamente, l’auspicio vale anche per CISL e UIL e le altre sigle sindacali.

Non sono più accettabili contrattazioni per ottenere illogiche condizioni, privilegi, sprechi dei contributi pubblici. La classe politica è incapace di governare e legiferare. Il sindacato vuole continuare ad essere la terza gamba degli incapaci? 

Sciopero CGIL, Camusso: questo è uno sciopero politico!

Da wikipedia “Al di là delle definizioni, la politica in senso generale, riguardante “tutti” i soggetti facenti parte di una società, e non esclusivamente chi fa politica attiva, ovvero opera nelle strutture deputate a determinarla, la politica è l’occuparsi in qualche modo di come viene gestito lo stato o sue substrutture territoriali. In tal senso “fa politica” anche chi, subendone effetti negativi ad opera di coloro che ne sono istituzionalmente investiti, scende in piazza per protestare.”
Si è svolto ieri lo sciopero della CGIL che ha visto la partecipazione, oltre agli aderenti alla CGIL, anche di iscritti alla CSL e UIL.
Una grande manifestazione contro la manovra economica che il governo sta approntando e di cui ha messo, proprio ieri, la fiducia.
La Camusso, nel suo discorso a Roma, oltre alle critiche, ormai conosciute, alla manovra, di cui la CGIL ha preparato una contromanovra, (vedi anche qui) ha ribadito un concetto importantissimo in risposta a chi sosteneva la politicità dello sciopero: “ancora una volta si è detto che lo sciopero della CGIL è uno sciopero politico. Si, lo è, perché il sindacato ha una funzione alta. Non abbiamo paura di questa parola. Piuttosto ci spaventa l’anti-politica. Abbiamo fatto tante proposte, le cose da fare non mancano. Si potrebbe cominciare con il taglio del vitalizio ai parlamentari. Solo così potremmo scoprire se questa maggioranza fa gli interessi del Paese o solo ed esclusivamente della classe politica eletta”.
Dunque, lo sciopero non è solo uno strumento di ricatto, ma è, innanzi tutto, uno strumento politico con cui chi non detiene il potere può bloccare provvedimenti governativi che sarebbero negativi per loro o ritenuti tali per l’intera società.
Niente di più vero in una società che, pur richiamandosi a valori democratici e laici, tende ad usare i cittadini unicamente come serbatoio elettorale togliendo loro ogni possibilità di intervento. Al riguardo basta pensare alle resistenze quando, i cittadini, raccolgono firme per un referendum che, dopo lo sciopero, è l’unico momento in cui può intervenire direttamente.
Lo sciopero di ieri è stato uno sciopero politico, e non poteva essere diversamente visto i problemi affrontati. Ma politico lo sarebbe, e lo erano, anche qualora si fosse trattato di richieste salariali o, comunque, riguardanti il mondo del lavoro. Questo perché la politica non è e non deve essere appannaggio dei soli “politici”, anzi, la politica è proprio il contrario di quanto vogliono farci credere, specialmente a destra. La politica è l’interesse generale nei confronti della società e di coloro (i politici) che sono chiamati a gestirla. Se cosi non fosse, il cittadino sarebbe degradato a semplice numero elettorale; perderebbe i presupposti democratici di responsabilità che sono alla base anche della nostra costituzione.
Concludendo, è giusto riportare lo sciopero alla sua dimensione politica perché, in ogni caso, influenza le decisioni dei politici.



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