martedì 27 settembre 2011

Valter Lavitola, il rappresentante di prodotti ittici è con Berlusconi anche in Brasile



La testimonianza di Federica Gagliardi, dallo staff di Renata Polverini alle missioni in centro e sud America con il premier. E con il faccendiere amico di Tarantini, che secondo Tremonti si presenta come rappresentante del governo italiano per Panama e Paese verdeoro.

Dice Federica Gagliardi: “Il video l’avete visto tutti, c’era anche Lavitola sull’aereo per Panama. Siamo partiti da San Paolo. Mi è stato presentato ma non ricordo più con quale ruolo, mi scusi ma è passato un anno e mezzo. Il mio giudizio su di lui? Preferisco tenerlo per me”.

Federica Gagliardi è la dama bianca di B. che ebbe notorietà per un paio di giorni alla fine del giugno 2010. Era il 26 di quel mese e la Gagliardi spuntò nella delegazione italiana per il G8 di Toronto, in Canada. Accanto al premier Silvio Berlusconi. Bionda, bella, nemmeno trentenne, la donna lavora nello staff di Renata Polverini, governatrice del Lazio, che così giustificò la trasferta della sua collaraboratrice: “È in permesso non retribuito”. Prima ancora, però, aveva detto che era in ferie. Un altro piccolo mistero. Dal Canada, la Gagliardi segue il Cavaliere nelle altre due tappe del tour: Brasile e Panama. L’incontro con Lavitola avviene a San Paolo. Lì Berlusconi partecipa a un seminario del Forum Italia-Brasil, sulle relazioni industriali e commerciali tra i due paesi. Lavitola compare nella foto-ricordo finale, alle spalle del premier. Mentre la Gagliardi viene ripresa nel ricevimento ufficiale della sera. Entrambe le immagini sono sul sito del quotidiano Estadao di San Paolo. È lo stesso giornale che dà notizia della serata organizzata da Lavitola per B. con sei ballerine di lapdance, attirate con il miraggio di un provino per Mediaset, in una suite dell’Hotel Tivoli. Dice ancora la Gagliardi: “Sì alloggiavamo tutti al Tivoli, ma a quella serata non ero presente”.

In quei giorni, il Cavaliere è particolarmente allegro. E racconta una barzelletta a luci rosse: “Volevo farmi una ciulatina con una cameriera dell’albergo e lei mi ha risposto: ‘Presidente l’abbiamo fatto un’ora fa’. Vedete che scherzi fa la memoria”. Ed è in occasione della serata di lapdance che si parla per la prima volta dell’ascesa di Valter Lavitola nella cerchia ristretta di Berlusconi. Con quale ruolo? Consulente di Finmeccanica? Il faccendiere amico di Tarantini è pure titolare di una società per il commercio di prodotti ittici con sede a Rio de Janeiro, in Rodovia Amaral Peixoto 117: l’Empresa Pesqueira de Barra de San Joao Ltda.

Anche per questo, all’inizio del luglio scorso, da Palazzo Chigi riferiscono di un duro faccia a faccia tra B. e Giulio Tremonti. Quest’ultimo avrebbe chiesto: “Ma chi è questo Lavitola che va in giro presentandosi come rappresentante del governo per Panama e Brasile?”. Panama e Brasile, le tappe finali di quel viaggio memorabile. Dove c’è B. , c’è Lavitola. E dove sono entrambi c’è la Gagliardi. Ma perché un rappresentante all’ingrosso di prodotti ittici era sull’aereo presidenziale del governo italiano?

di Fabrizio d’Esposito


Messina, procuratore generale indagato in Calabria per mafia. - di Giuseppe Pipitone.






Un mese fa il Ros di Reggio Calabria, su mandato del procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha perquisito la procura generale di Messina e sequestrato alcuni atti, nell'ambito di un' indagine su alcuni magistrati peloritani per concorso esterno in associazione mafiosa. Presente alla perquisizione il procuratore generale della città sullo stretto Franco Antonio Cassata che sarebbe il principale indagato dell'indagine scattata dopo le dichiarazioni del pentito Carmelo Bisognano.

"Adesso non è più l'urlo solitario di una figlia che ha perso il padre. Adesso è qualcosa di più. E' un fatto oggettivo". Sono queste le dichiarazioni a caldo diSonia Alfano, eurodeputata dell'Italia dei Valori, in relazione all'indagine per concorso esterno in associazione mafiosa aperta dalla procura di Reggio Calabria nei confronti di alcuni innominati magistrati messinesi. A dare la notizia stamattina è il quotidiano peloritano La Gazzetta del Sud che ha raccontato come nell'agosto scorso il Ros di Reggio Calabria, su mandato del procuratore capo Giuseppe Pignatone, abbia effettuato una perquisizione ed un sequestro di atti interni alla procura generale di Messina.

Alla perquisizione avrebbe assistito anche il procuratore generale dello strettoFranco Antonio Cassata. Secondo indiscrezioni ad essere indagato per concorso esterno a Cosa Nostra sarebbe lo stesso Cassata, ed è a suo carico che sarebbe stata disposta la perquisizione dopo la notifica del relativo decreto. "Per anni io e l'avvocato Fabio Repici  - continua la figlia diBeppe Alfano, cronista de La Sicilia ammazzato l'8 gennaio 1993 - siamo stati gli unici cha hanno cercato d'illuminare questo cono d'ombra fatto di commistione eed eminenze grigie che è la provincia di Messina. Ma il tempo è galantuomo e adesso sembrano accorgersene pure le istituzioni".  L'indagine sulla procura generale peloritana è scattata dopo che il procuratore di Messina Guido Lo Forte ha trasmesso a Reggio Calabria le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Di particolare importanza sarebbero le parole del pentito Carmelo Bisognano, già a capo della cosca dei "Mazzaroti".

Bisognano ha tracciato negli interrogatori con gl'inquirenti la mappa economica ed imprenditoriale di Cosa Nostra in provincia di Messina. Una mappa che avrebbe sullo sfondo l'immagine sfocata dell'avvocato Saro Cattafi, rientrato a Milazzo alla fine degli anni '90 dopo una pesante condanna per traffico di droga, poi annullata. Originario di Barcellona Pozzo di Gotto, l'avvocato Cattafi fino al 2005 era un sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno, misura cautelare che gli era stata assegnata "per la sua pericolosità, comprovata dai costanti contatti, particolarmente intensi proprio nella stagione delle stragi, con personaggi del calibro di Santapaola, Pietro Rampulla (l’artificiere di Capaci) e Giuseppe Gullotti (capomafia barcellonese condannato definitivamente per l’omicidio Alfano)".
Su Cattafi esiste anche un rapporto del Gico della Guardia di Finanza in cui si traccia la mappa di alcuni contatti eccellenti di quello che Bisognano indica come "il capo dei capi" della mafia messinese.

E proprio di questi suoi contatti con alcuni alti ufficiali dei carabinieri e magistrati
peloritani ha parlato il 23 agosto scorso a Milazzo il giornalista free lanceAntonio Mazzeo. Un monologo approfondito sulle attuali dinamiche di potere nella città dello stretto quello del giornalista messinese che però non sarebbe stato gradito da alcune autorità presenti in sala. In particolare ha destato scalpore il fatto che il prefetto peloritano Francesco Alecci si sia allontanato precipitosamente proprio quando Mazzeo raccontava dei rapporti tra l'avvocato Cattafi (inteso come Saro C) e l'attuale procuratore generale di Messina. Una strana coincidenza sottolineata dalla stessa Sonia Alfano che in una lettera aperta al prefetto chiedeva una qualche giustificazione "all'improvviso, prematuro e inaspettato abbandono della manifestazione". Lettera fino ad oggi rimasta senza risposta alcune. "Adesso però- commenta la Alfano - sembra che a Messina il tappo stia finalmente saltando. Non dimentichiamo che già da marzo scorso ad Olindo Canali, il magistrato che coordinò le prime indagini sull'omicidio di mio padre, è stato notificato dalla Dda di Reggio Calabria un'avviso di conclusione delle indagini per falsa testimonianza nel processo Mare Nostrum. Avviso che di solito è il preludio del rinvio a giudizio".


Il gip Pino, la mancata cattura di Binu? Niente errori, fu una scelta del Ros. - di Giuseppe Lo Bianco


Nessun ''errore di valutazione'' e nessuna ''difficolta' tecnica o investigativa'': per il gip Maria Pino, che ha archiviato la querela del generale Mori contro il colonnello Riccio, la mancata cattura di Provenzano nel '96 a Mezzojuso fu una scelta del Ros, una ''deliberata strategia di inerzia'',  ''finalizzata a salvaguardare lo stato di latitanza di Provenzano''.

Non ci sono state ‘’difficolta’ tecniche o investigative, o errori di valutazione’’. Quei pastori, le mucche e le pecore che, secondo il colonnello Mauro Obinu, avrebbero impedito l’accesso dei carabinieri al casolare dove si nascondeva Provenzano assumono adesso il valore di una scusa banale e grottesca, nell’ambito di una difesa imbarazzata: per la prima volta, nero su bianco, un giudice, il gip Maria Pino di Palermo, ha scritto in una sentenza che la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, alla fine di ottobre del ’95, fu una scelta e non una causalita’: ‘’Le acquisizioni istruttorie  -  scrive il giudice  -  confermano la sussistenza delle plurime omissioni che, nell'ambito delle investigazioni finalizzate alla ricerca del latitante Bernardo Provenzano, hanno contrassegnato l'attività istituzionale dei carabinieri del Ros’’, e ‘’ asseverano il convincimento che dette omissioni, già valutate come assolutamente incompatibili sia con un'efficace e cristallina strategia investigativa sia con la specifica competenza e la indiscussa elevatissima professionalità del generale Mori e del colonnello Mauro Obinu, siano state finalizzate a salvaguardare lo stato di latitanza di Provenzano e, nella stessa ottica, a preservare dalle iniziative dell'autorità giudiziaria gli associati mafiosi Giovanni Napoli e Nicolò La Barbera, che quella latitanza hanno lungamente gestito".

Parole pesanti, che offrono per la prima volta una soluzione al giallo della mancata cattura del boss latitante per 43 anni, e che arrivano a conclusione di una querelle giudiziaria che si ritorce come un boomerang nei confronti di chi l’aveva attivata: il verdetto di archiviazione chiude infatti un procedimento nato dalla querela per calunnia presentata dal generale Mario Mori, leader del Ros, nei confronti del colonnello Michele Riccio, artefice, grazie ad una fonte confidenziale, della trappola a Provenzano fallita a Mezzojuso e autore delle denunce contro i colleghi che avrebbero sabotato l’operazione. Riccio non deve essere condannato, insomma, perche’ le sue accuse hanno trovato riscontri nelle carte giudiziarie. Sul punto il gip e’ chiaro:  "E' convincimento di questo giudice – scrive Maria Pino - che la condotta assunta e perpetuata dal generale Mori e dal colonnello Obinu non sia da ascrivere a difficoltà tecniche ed organizzative, né ad errori di valutazione. Non ci sono elementi che inducano a ciò. Piuttosto, le acquisizioni istruttorie convergono nell'ascrivere la condotta suddetta ad una deliberata strategia di inerzia, che non trova giustificazione alcuna".

Una ‘’deliberata strategia di inerzia’’ che, secondo il gip, pesa interamente sulle spalle di Mori: con lo stesso verdetto, infatti, il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dal pm Nino Di Matteo nei confronti del generale Antonio Subranni, anch’egli indagato per favoreggiamento aggravato nei confronti di Provenzano. Ma secondo il gip Subranni non aveva "competenze in materia di polizia giudiziaria", che invece erano di Mori. Il quale si e’ difeso  lamentando anch’egli un difetto di competenze: “Ma non ricordo – disse al pm Di Matteo nel marzo 2002 – io non vivevo solo delle vicende di Palermo, ero responsabile operativo di una struttura … quindi avevo una serie di problematiche… mi fu detto che Ilardo aveva dato delle notizie così, nel particolare non me le ricordo però… né probabilmente le ho chieste nemmeno io di sapere di più perché non mi compete… non era il mio livello di competenza”. La sentenza del gip, che  verra’ adesso depositata dal pm nel processo al generale Mori,  per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojiuso, in corso di svolgimento a Palermo, rilancia la domanda che aleggia su tutta la vicenda, sul cui sfondo si staglia la trattativa tra mafia e Stato: ‘’qual era il livello di competenza che ha gestito quell’operazione? E, in sostanza, chi decise che  Provenzano non doveva essere catturato?



Saverio Romano, la mafia e "la maglietta fradicia di sudore". - di Giuseppe Pipitone.

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Il Ministro dell'agricoltura, indagato per mafia, affida la difesa al suo primo libro - intervista scritto con la giornalista di Porta a Porta Barbara Romano. Emblematico il titolo: La Mafia Addosso. “Vivere con il sospetto di mafiosità addosso è terribile –spiega – come una maglietta fradicia di sudore che non ti appartiene”. Nel frattempo mercoledì in aula l'opposizione vota la mozione di sfiducia.
Sono semplicemente parole “sentite dire” o ancora peggio dei “ragli d’asino”. Così il ministro delle Politiche agricole Saverio Romano liquida le ultime dichiarazioni del collaboratore di giustizia Stefano Lo Verso, che aveva rivelato come il boss di Villabate (cittadina alle porte di Palermo) Nicola Mandalà gli avesse riferito che loro (ovvero Cosa Nostra) avessero “nelle mani Saverio Romano e Totò Cuffaro”.

Per il ministro di Belmonte Mezzagno si tratterebbe quindi di semplici accuse “ricorrenti ad orologeria”. Accuse che non ha fatto in tempo a smontare nella sua opera prima, il libro intervista edito da Il Borghese e scritto con la giornalista Barbara Romano, collaboratrice di Bruno Vespa a Porta a Porta. Titolo emblematico del trattato difensivo La Mafia Addosso. A meno di una settimana dalla votazione della mozione di sfiducia firmata da Pd, Idv e Fli l’ex delfino di Totò Cuffaro sceglie quindi di affidare la sua auto difesa alle rassicuranti pagine di un libro, sgombre di giudici e collaboratori di giustizia. Nel mirabile trattato targato Romano & Romano, il ministro cerca di spazzare via i risultati delle indagini che lo hanno tirato in ballo negli ultimi anni affidandosi allo sport nazionale della persecuzione giudiziaria. “Vivere con il sospetto di mafiosità addosso è terribile – spiega lui – come una maglietta fradicia di sudore che non ti appartiene”.

Una maglietta che nel suo caso è fradicia anche di molteplici accuse. Sono parecchi infatti i testimoni eccellenti su cui si basa l’inchiesta della procura di Palermo. C’è Francesco Campanella, giovane allievo di Clemente Mastella, presidente del consiglio comunale di Villabate e fornitore della carta d’identità falsa che consentì a Bernardo Provenzano di andare a Marsiglia a curarsi la prostata. Ci sono i pentiti Nino Giuffrè e Angelo Siino, le dichiarazioni dei medici Salvatore Aragona Mimmo Miceli – entrambi condannati – e i racconti degli esponenti politici Giuseppe Acanto, Giuseppe Bruno e Rosario Enea.

Una pletora di dichiarazioni che ha portato il procuratore aggiunto di Palermo Ignazio de Francisci e il sostituto Nino Di Matteo a chiederne il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Per gli inquirenti Romano avrebbe ”consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa Cosa Nostra”. Insomma una “sudata” abbondante per utilizzare le parole del ministro. Lui però scrolla le spalle  tranquillizzato dalle parole di Roberto Maroni: molto probabilmente infatti mercoledì prossimo sarà la Lega a salvarlo dalla sfiducia nonostante le accuse (un ministro siciliano indagato per mafia) potrebbero non trovare l’appoggio della base padana.


Nel frattempo – noncurante della “maglietta fradicia di sudore” che continua a portare addosso – continua a difendersi presentando in giro il suo libro. Difesa comoda e originale ma tecnologicamente un passo indietro rispetto alla soluzione adottata proprio da Nino Mandalà, indicato da Campanella come il boss della cosca di Villabate e padre di Nicola, l’autore della frase ”abbiamo nelle mani Saverio Romano” rivelata da Lo Verso. Anche Mandalà, infatti, ha affidato la sua difesa alle pubbliche relazioni. Appena uscito dal carcere, dopo una condanna ad otto anni, ha aperto un blog che gestisce e aggiorna personalmente ogni giorno. Non sarà la prosa di Romano ma sono pur sempre anni luce di distanza rispetto ai pizzini di Bernardo Provenzano.


Non pagare il debito! - di Giulietto Chiesa



Un anno fa la Grecia era in rosso per 110 miliardi di euro.
L’hanno “salvata”.
Adesso il debito è salito a 340 miliardi.
Non so se la ri-salveranno, ma, in tal caso (e non è una battuta di spirito, perché la Finlandia proprio questo ha chiesto) dovrà dare in pegno il Partenone.
A riprova che i “nove banchieri” di Wall Street amano molto le collezioni private. Non so dove lo metteranno, il Partenone, ma troveranno un posto, magari vicino a San Diego, California.

Il problema è che adesso tocca a noi. Chiederanno in pegno il Colosseo, o la Galleria degli Uffizi. E non basterà, perchè il nostro debito pare sia superiore ai 1.900 miliardi di euro.

Dicono che dobbiamo privatizzare tutto. Arriveranno a comprare ai saldi con i denari fasulli, creati con un click sul computer, con cui hanno gonfiato il debito mondiale fino a cifre astronomiche, che nessuno è più in grado di pagare.

Ho publicato i risultati di un Gao (Government Accountability Office) Audit sulla Federal Reserve , il primo e unico mai effettuato sulla prima banca planetaria nei suoi circa 100 anni di storia, dal quale emerge che, tra il 2007 e il 2010, la Federal Reserve ha spalmato 16 trilioni di dollari su tutte le più importanti banche occidentali, non solo su quelle americane.

L’Audit è stato fatto da due senatori americani, Bernie Sanders Jim DeMint, e chi vuole se lo va a leggere sul sito di Sanders. Qualcuno si è scandalizzato per il mio “complottismo”. Sfortunatamente non sono io che complotto. L’operazione è stata definita, dallo stesso Sanders, del tutto illegale.

Tredicimilamiliardididollari inventati e inviati illegalmente a tutte quelle banche? E perchè?

La risposta è una sola: perchè tutte quelle banche sono fallite. Ma non lo si poteva dire. Quindi si è rimessa la benzina nel loro serbatoio. E, con quella benzina, il debito (nostro) ha  ripreso a crescere.

John Kenneth Galbraith definì questa come “economia della truffa”. Se potesse resuscitare, adesso riderebbe. Forse, da qualche parte, lo fa. Ma riderebbe di noi se pagassimo il debito di quei nove balordi che si riuniscono a Wall Street, in segreto, per renderci schiavi.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/22/non-pagare-il-debito/159198/

Unipol/Bnl, chiesto il rinvio a giudizio per Berlusconi.



Milano. Mandare a processo Silvio Berlusconi per la rivelazione della telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte. E' questa la richiesta che la procura di Milano ha formalizzato ufficialmente oggi nell'ambito dell'inchiesta sulla rivelazione del segreto d'ufficio della telefonata, pubblicata sulla prima pagina de 'Il Giornale' della famiglia Berlusconi il 31 dicembre 2005, in cui l'allora segretario dei Ds si rivolgeva all'allora numero uno di Unipol per chiedere delucidazioni sull'esito della scalata a Bnl da parte della compagnia bolognese, domandando 'Allora abbiamo una banca?'.

Piero Fassino e Silvio BerlusconiPer la procura di Milano, la richiesta di rinvio a giudizio di Berlusconi e' stata in pratica una mossa obbligata dopo l'imputazione coatta disposta nei confronti del premier dal gup stefania donadeo, che ha respinto la richiesta di archiviazione formulata dal pm Maurizio Romanelli. Nella stessa vicenda sono coinvolti anche il ratello del premier, Paolo Berlusconi, gia' rinviato a giudizio, e altri imprenditori e faccendieri: alcuni gia' condannati con rito abbreviato, altri che hanno preferito la ia del patteggiamento.

Oltre all'imputazione coatta per il premier la Procura, cosi' come aveva imposto il gip, ha iscritto nel registro degli indagati Maurizio Belpietro, nella qualita' di direttore pro tempore del quotidiano 'Il giornale' per omesso controllo del direttore sulla pubblicazione di una notizia oggetto di violazione del segreto.

Fassino pronto a costituirsi parte civile

L'ex leader dei Ds e sindaco di Torino, Piero Fassino, e' pronto a costituirsi come parte civile nell'udienza preliminare a carico di Silvio Berl sconi, che deve essere fissata dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Milano per la vicenda di fuga di notizie sull'intercettazione tra l'allora segretario dei Ds e Giovanni Consorte. Lo ha spiegato il suo legale, l'avvocato e professore Carlo Federico Grosso.

Tratto da:
 rainews24.it



http://www.antimafiaduemila.com/content/view/35588/48/



Ricatto al premier, scarcerato Tarantini. B. forse indagato per istigazione a mentire

Dopo ore di camera di consiglio, il Riesame di Napoli sposta di nuovo la 

competenza. Non più Roma Adesso Berlusconi rischia di essere indagato per 

istigazione a mentire davanti all'autorità giudiziaria.

Si ribalta il ruolo del presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, nell’inchiesta dei pm di Napoli sul presunto ricatto ai suoi danni da parte di Gianpaolo Tarantini, della moglie Angela Devenuto e del direttore dell’Avanti Walter Lavitola. Da testimone-parte offesa diventa quasi certo indagato per aver indotto l’imprenditore barese a riferire il falso ai magistrati. Tarantini lascerà stanotte il carcere.

La decisione del tribunale del Riesame di Napoli giunge dopo 14 ore di Camera di Consiglio e cinque minuti prima della mezzanotte quando sarebbero scaduti i termini. E l’esito rappresenta l’ennesimo colpo di scena dell’inchiesta sul presunto ricatto al premier Silvio Berlusconi. Per i magistrati del Riesame, infatti, Berlusconi non è da ritenersi vittima di un ricatto bensì responsabile del reato previsto dall’articolo 377 bis del codice penale, ovvero, per aver istigato un indagato, nel caso specifico l’imprenditore Giampaolo Tarantini, a fare dichiarazioni false all’autorità giudiziaria. Il tribunale ha disposto la scarcerazione di Tarantini e ha invece confermato l’ordine di custodia che era stato emesso dal gip a carico del direttore dell’Avanti Walter Lavitola, latitante a Panama.

Occorrerà leggere le 30 pagine delle motivazioni per capire il ragionamento fatto dai giudici del tribunale della Libertà. Al momento si può dedurre, dalla lettura del dispositivo, che i giudici hanno ritenuto sussistente il reato di induzione al mendacio, che una contestazione che riguarda Lavitola ma che dovrebbe coinvolgere anche il premier, ritenuto nella ricostruzione fatta dagli inquirenti come l’ispiratore delle false dichiarazioni fatte da Tarantini sia davanti all’autorità giudiziaria di Bari sia ai magistrati di Napoli che lo indagavano per il presunto ricatto.

Ma un’altra decisione del Riesame scioglie uno dei nodi piu’ complessi di questo procedimento ovvero la questione della competenza territoriale: secondo l’ordinanza emessa stanotte infatti a procedere nell’indagine dovrà essere la procura della repubblica di Bari. Il processo dovrà quindi lasciare Napoli. L’ufficio giudiziario del capoluogo pugliese è ritenuto competente in quanto in quella sede si sarebbero verificate le prime affermazioni mendaci fatte da Tarantini.

Sul presunto ricatto intanto è stato aperto un fascicolo anche dalla procura di Roma che era stata ritenuta competente dal gip di Napoli Amelia Primavera a procedere per quanto riguarda l’estorsione contestata a Tarantini e a Lavitola. Quali saranno ora i prossimi passaggi della ingarbugliata vicenda giudiziaria secondo indiscrezioni la procura pi Bari accogliendo le indicazioni del riesame dovrebbe provvedere all’iscrizione del premier nel registro degli indagato. Non si conoscono al momento le argomentazioni del tribunale sul reato di estorsione e in particolare se i magistrati lo ritengano sussistente o meno.