martedì 4 ottobre 2011

Affari o intrallazzi? DI PAOLO MANZO

Valter Lavitola è un mandatario di fiducia di Silvio Berlusconi oppure un ricattatore?


Valter Lavitola, che ha legami in Brasile, è un mandatario di fiducia di Silvio Berlusconi oppure un ricattatore?
“Vado via da questo paese di m…”. Frase di sfogo di Silvio Berlusconi al telefono con Valter Lavitola, riferendosi naturalmente all’Italia, il paese che lui ha governato per 11 anni sugli ultimi 17. La stampa brasiliana, descrivendo Lavitola asetticamente, l’ha definito “il direttore del giornale l’Avanti”. Ma in realtà Valterino, come lo chiamano gli amici, per Berlusconi è molto più di un semplice confidente-giornalista con cui sfogarsi. Un maneggione di fiducia, un organizzatore di festini hard, un creatore di dossier falsi per colpire Gianfranco Fini (la possibile alternativa a destra di Silvio), un personaggio vicino – così si mormora – ai servizi segreti italiani “deviati” e alla Camorra, la mafia napoletana.
Lavitola, con certezza, non è più giornalista. L’Ordine professionale l’ha cancellato dal prestigioso albo basandosi sull’articolo 39 del suo statuto: “Ove sia emesso ordine o mandato di cattura gli effetti dell’iscrizione sono sospesi di diritto fino alla revoca del mandato o dell’ordine”. Appunto, dato che dal 1° settembre Valterino è ricercato dalla Giustizia italiana perché la Procura di Napoli ha emesso mandato di cattura su di lui per “presunta estorsione” ai danni del premier Silvio Berlusconi, al quale un altro “mandatario”, Gianpaolo Tarantini, forniva prostitute in cambio di centinaia di migliaia di euro. Questo è almeno il parere degli inquirenti.
Secondo la Procura di Napoli l’imbroglio è chiaro, ma il “ricattato” si rifiuta di andare a deporre
Tarantini è finito in carcere e sua moglie agli arresti domiciliari, il ricercato Lavitola è fuggito si dice a Panama, ma al suo cellulare risponde una segreteria telefonica in portoghese, mentre Berlusconi ha giustificato i finanziamenti oggetto di indagine, cioè 850mila euro in meno di un anno, come “aiuto a una famiglia bisognosa”. Questa giustificazione è stata data secondo lo stile di Berlusconi, cioè alla televisione, e non davanti ai giudici di Napoli, che invece vogliono ascoltarlo come testimone. Nel presunto ricatto, Lavitola era un intermediario, riceveva i soldi da Berlusconi e li passava a Tarantini. Il problema, secondo le indagini, è che Valterino avrebbe intascato almeno 400mila euro, spesi in America Latina.
La Digos ha nel mirino almeno cinque società che fanno capo a Lavitola, cominciando da quella molto particolare che importa pesce, con base a Rio das Ostras, a 170 km da Rio de Janeiro. Si tratta dell’Empresa Pesqueira de Barra de São João Ltda, numero di registro Banco do Brasil TA 495548. Molto particolare perché pur avendo sede nel nostro paese “non commercia in pesce brasiliano, ma europeo, crostacei, molluschi e di tutto un po’”, come ha ammesso un dipendente della sua filiale romana al Corriere della Sera. Come ha verificato Carta Capital [rivista brasiliana, N.d.T.] nel maggio 2009 la società di Lavitola ricevette 300.000 euro , approvati dal Departamento de Monitoramento do Sistema Financeiro e da Gestão de Informação Divisão de Capitais Internacionais e Câmbio del Banco do Brasil, come “importazione finanziata”. Lo stesso avvenne due mesi dopo. E se fosse il denaro di Berlusconi per “aiutare la famiglia in difficoltà” del detenuto Tarantini?
A pagina 68, sezione 1, del Diário Oficial da União [la Gazzetta Ufficiale in Brasile, N.d.T.] del 6 febbraio 2008 si legge che con un decreto del coordinatore generale dell’immigrazione è stato concesso un visto permanente in Brasile al cittadino straniero Valter Lavitola, possessore del passaporto GO90942. È anche stato confermato dalle nostre fonti, in cambio dell’anonimato, che Valterino frequenta “da anni il Brasile per correre dietro alle donne”, che oggi è diventato un uomo di Berlusconi, e che alle sue società brasiliane e panamensi arriverebbero non centinaia di euro, bensì milioni, tra i 3 e i 5 milioni ogni mese. Se confermata, l’informazione segnalerebbe l’importanza dell’America Latina per Lavitola. Le stesse fonti avvertono: “Attenzione, Valter è uno specchietto per le allodole. Dietro c’è gente molto pericolosa”.
Perché tanto denaro? Si parla di investimenti nell’edilizia civile. Certa è la consulenza di Valter alla Finmeccanica, la holding che produce elicotteri, piccoli aerei, armi, e che negozia in Brasile commesse per 5 miliardi di euro. Insomma, il business andrebbe oltre quello del pesce. e mentre Berlusconi, in teoria la vittima del ricatto, evita la convocazione dei giudici, a conferma della presenza di Lavitola in Brasile, c’è una telefonata del 24 agosto registrata dagli investigatori di Napoli. Una telefonata tra il premier e il suo ‘mandatario di fiducia” che quel giorno si trovava a Sofia, Bulgaria.
Lavitola ha saputo recentemente che un mandato d’arresto stava per essere emesso contro di lui grazie a una “soffiata” del settimanale berlusconiano Panorama destinata ad avvisare Valterino in anticipo, pregiudicando l’inchiesta dei magistrati di Napoli. “Che cosa devo fare? Torno e chiarisco tutto?” chiede a Berlusconi. Il premier risponde “No!”, con calma serafica. Secondo il settimanale L’Espresso, da quel momento l’ex direttore dell’Avanti organizza la fuga, cercando la meta più spiacevole per la Giustizia italiana dopo il caso Battisti, cioè il Brasile.
Intervistato dall’ANSA Enzo Roncolato, 64 anni, residente da tempo in Brasile, nega che Lavitola si nasconda. “Si trova qui – dice – per motivi di lavoro. Qualche giorno fa era con me a Rio de Janeiro e quando viene da queste parti lo ospito sempre a casa mia”. L’amico di Valterino ammette che è stato in Brasile, ma solo fino a martedì 29 agosto “perché poi è andato a Panama”. L’uomo difende con forza Lavitola dalle accuse di estorsione contro il premier Berlusconi: “È una barzelletta, è tutta una montatura per colpire il primo ministro.” Secondo lui Lavitola avrebbe venduto la società di importazione di pesce due anni fa, “perché era in perdita”.
Anche Roncolato è un personaggio particolare. A ottobre dell’anno scorso, il Tribunale Regionale Federale della 5a Região (TRF-5) ha condannato Roncolato e la sua compagna Ana Cláudia Inácio de Oliveira rispettivamente a 5 anni e 6 anni e 6 mesi di detenzione per aver comprato nel 2001 un bambino di 2 anni per la cifra di 600 Reais [circa 250 euro al cambio attuale, N.d.T.]
nel quartiere di Maria Auxiliadora, alla periferia della città di Petrolina. Secondo informazioni fatte arrivare dal TRF-5 a Marina Diana, del portale iG, Roncolato, che ricorda di aver giocato con Berlusconi 40 anni fa, “deve rispondere ancora alla Giustizia per pedofilia, falso ideologico, attentato al pudore e corruzione di minore”.
Ma c’è dell’altro su Valter e il Brasile. I magistrati di Napoli di fatto stanno investigando anche sull’uso di fondi pubblici sull’editoria concessi all’Avanti quando era diretto da Lavitola, 23,5 milioni di euro l’anno, che in parte sarebbero stati dirottati sulla società di Rio das Ostras. Si tratta di informazioni diffuse da Il Fatto Quotidiano, e anche se sono passati dieci anni dai fatti suddetti, secondo i magistrati i metodi sono gli stessi usati per l’estorsione ai danni di Berlusconi. Il giornale ha intervistato uno dei soci della cooperativa editoriale dell’Avanti, Raffaele Panico. Dice: “Lavitola sviava in Brasile parte del denaro destinato al giornale”.
La società di Rio das Ostras avrebbe anche aperto una filiale a Roma. Al telefono, nella capitale italiana, risponde un gentile centralinista: “Il signor Lavitola non so dov’è, mi dispiace molto, non so nulla neanche della sua socia Neire Cassia Gomes, e tuttavia sono sicuro, abita a Roma”. Clic, telefonata interrotta. Neire, 29 anni il 9 settembre, dopo aver frequentato la Escola Superior Batista do Amazonas (Esbam), a Manaus, dove è nata e dove ancora vive la sua famiglia di umili origini, arriva 5 anni fa a Roma e rapidamente diventa socia di Lavitola, con un appartamento a sua disposizione. Attualmente la ragazza studia Biotecnologia all’Università di Tor Vergata con risultati molto modesti, e passa molto tempo partecipando a un forum sulla ricostruzione delle unghie.
In ogni modo le prodezze di Valterino in Brasile non finiscono qui. Il 29 giugno del 2010 c’è stata un’allegra nottata in occasione delle 48 ore della sua visita ufficiale in Brasile, quando Berlusconi ha chiesto la compagnia di un gruppo di vistose ragazze e ha assistito a uno show piccante nell’appartamento dell’hotel dov’era ospitato a San Paolo. Alexandra Valença, pioniera della pole dance in Brasile, ancora si ricorda del “giornalista” Valter, organizzatore della nottata.
[Articolo originale "Negócios ou negociata?" di Paolo Manzo]


http://italiadallestero.info/archives/12381



E la chiamano opposizione. - di Alessandro Gilioli


E la chiamano opposizione

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Dalla Finanziaria del 2009 al decreto sul terremoto de L’Aquila, dal salvataggio dell’Alitalia allo scudo fiscale: una legge su tre, tra quelle volute da Pdl e Lega Nord, è stata approvata grazie all’assenteismo o al voto a favore del centrosinistra che per ben 5.098 volte ha salvato  Berlusconi.
(Dati di Openpolis, qui il rapporto completo. Chi mi segue sa quanto io sia lontano da Grillo. Ma certo che Bersani e D’Alema lo nutrono di argomenti, eh, se lo nutrono).

Nitto Palma vuole il bavaglio per i magistrati. - di Antonella Mascali




Il guardasigilli prima invoca la pace tra i poteri dello Stato poi auspica "una legge per fermare le interviste spesso pesanti e irriguardose" rilasciate dalle toghe
Vuole censurare i magistrati. Invoca pene severe per le toghe che parlano. Con questo “bigliettino da visita” il neoministro della Giustizia, Nitto Palma, si presenta al Csm. Non ha dubbi il successore di Angelino Alfano: “Bisogna aggiornare la normativa disciplinare” per neutralizzare le dichiarazioni delle toghe alla stampa che “Spesso si lasciano andare a giudizi di valore, espressioni pesanti e irriguardose”. Di più: il loro linguaggio “trascende dai doveri funzionali e dai principi etici introducendo giudizi di valore, espressioni pesanti e irriguardose, allusioni che denotano precise prese di posizione. E comunque non c’è traccia di compostezza e sobrietà che, invece, secondo il comune sentire, si auspicano connesse alla figura del magistrato”. È un fiume in piena, il ministro: “Alcuni comportamenti, in astratto intrinsecamente rilevanti sul piano disciplinare – come desumibile dal loro inserimento nel codice etico dei magistrati – restano privi di una adeguata sanzione”. Quindi invoca un giro di vite: “Occorre perseguire quelle pubbliche manifestazioni del pensiero dei magistrati evidentemente esorbitanti dai doveri di equilibrio, dignità e misura, di cui parla il codice etico nonché di correttezza e riserbo da ritenersi principi validi e auspicabili della condotta del magistrato anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie”.

E pensare che poco prima Nitto Palma aveva invocato la pace fra poteri dello Stato: “Bisogna fare uno sforzo comune per allentare la tensione tra politica e magistratura. Bisogna agire per invertire la tendenza e avviare subito un rapporto di pacificazione tra le istituzioni”. Il ministro ha fatto anche una promessa su un punto ignorato da Alfano: colmeremo “Il vuoto normativo” per regolamentare l’entrata in politica (e l’uscita) dei magistrati. Proprio al Csm giace una proposta firmata dall’ex consigliera Ezia Maccora. Poi, sorvolando sulle leggi ammazza processi e che vogliono mettere il bavaglio alla stampa, elenca i suoi punti programmatici per la Giustizia: “Revisione delle circoscrizioni giudiziarie, depenalizzazione e velocizzazione del processo penale, senza intaccare le garanzie dei cittadini”. Il vicepresidente, Michele Vietti, di fronte al Guardasigilli critica la politica della maggioranza sulla giustizia: “Vi sono state una serie di iniziative legislative per lo più, come ha rilevato lo stesso Presidente della Repubblica, incompiute, settoriali e di corto respiro, proposte di volta in volta per tentare di risolvere problemi difficilmente riconducibili agli interessi generali e alla coerenza del sistema”. Come la riforma costituzionale “orientata a riformare la magistratura, piuttosto che a incidere concretamente sul funzionamento della macchina giudiziaria”. Vietti, poi, rincara la dose e parla di “interventi con le gambe corte”, riferendosi a quanto fatto dal governo dal 2008 a oggi. “Taluni di questi interventi li vediamo, con preoccupazione, ancora all’ordine del giorno del Parlamento, come il cosiddetto processo lungo e/o breve”.

Quanto al ddl intercettazioni, Vietti ha espresso l’auspicio che si trovi “un punto di equilibrio fra le esigenze da tutelare” . Tra i consiglieri più critici rispetto al discorso del ministro, e della politica sulla giustizia, sicuramente Vittorio Borraccetti, togato di magistratura democratica: “Persiste un atteggiamento di ostilità nei confronti della magistratura e una volontà di ridurre l’incisività della funzione giudiziaria. Ne sono prova alcuni provvedimenti in discussione, come la prescrizione breve (che riduce in modo irrazionale i già limitatissimi termini di prescrizione che non hanno pari in tutto il mondo), il processo lungo e le intercettazioni telefoniche che, mossi da finalità contingenti e particolari, perseguono l’indebolimento della tutela della legalità. Lei, ministro, ha parlato di necessità di pacificare le istituzioni. Ebbene, la magistratura non è mai stata in guerra con nessuno . È stata oggetto di una perdurante azione di delegittimazione. Se non cessano questa azione e il tentativo di ridurre l’incisività della funzione giudiziaria, nessun miglioramento della giustizia è possibile”.


Via alla riscossione delle tasse. Famiglie nei guai. Salvi i grandi evasori.




Il governo accelera sulla riscossione delle imposte. L'obiettivo è portare, nel 2012, la quota di evasione recuperata a 13 miliardi. Nel mirino c'è di tutto: dalle multe al bollo. Nessuna guerra totale al nullatenente con il Suv.

Uno spettro s’aggira per l’Italia. É quello delle nuove procedure di riscossione che il governo ha garantito all’Agenzia delle entrate e quest’ultima a Equitalia, il suo braccio armato. L’obiettivo, spiegano fonti interne, è portare nel 2012 la quota di evasione recuperata a 13 miliardi di euro (quest’anno dovrebbero essere poco più di 11 miliardi). Già questo obiettivo, peraltro, è puramente numerico: nei miliardi recuperati di cui si parla – solamente il 10,4 per cento dell’evasione “scoperta” – rientra di tutto, dalle multe al bollo del motorino fino alle procedure conciliative con maxi-sconto.

Insomma, non è proprio la guerra totale al nullatenente in Suv di cui si nutre l’immaginario collettivo. In ogni caso, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti ha bisogno di soldi per il pareggio di bilancio e tutto fa brodo per aumentare gli incassi di Equitalia, anche i metodi vessatori: ci sono voluti tre interventi legislativi infatti – dalla manovra estiva del 2010 a quella di luglio scorso – ma alla fine il Tesoro è riuscito a mettere in mano ai suoi agenti riscossori una pistola carica. E pazienza se ci sarà qualche vittima.

Fino al 1 ottobre, cioè sabato scorso, la procedura di recupero era la seguente: in caso di mancato pagamento, l’Agenzia delle entrate preparava la cartella esattoriale, poi passava la pratica a Equitalia che notificava l’inizio della fase esecutiva al contribuente, il quale aveva 60 giorni per pagare o fare ricorso. Tempo medio della procedura: 15-18 mesi al netto dei ricorsi. Ora si passa al cosiddetto “accertamento esecutivo”, che velocizza tutto l’iter: già con la cartella dell’Agenzia delle entrate – nota bene: anche se giace in qualche ufficio postale – partono i 60 giorni di tempo per il contribuente e, al 61esimo, la pratica è esecutiva. A quel punto Equitalia, grazie ad una modifica estiva, dovrà comunque sospendere tutto per 180 giorni. Il tempo medio dunque s’aggira attorno agli otto mesi.

Si trattasse solo di un iter più rapido, però, sarebbe benvenuto, solo che le novità non sono finite. Intanto se il contribuente decide di fare ricorso, dovrà comunque versare entro i famosi 60 giorni un terzo dell’importo contestato. E poi esiste una larga possibilità per Equitalia di agire in via discrezionale e preventiva nel caso esistano “fondati motivi” di ritenere in pericolo “il positivo esito della riscossione”: dall’ipoteca sulla casa del presunto evasore, al pignoramento dei suoi conti correnti fino alla ganasce fiscali per i veicoli. Curioso per uno Stato che ritarda di anni i pagamenti ai suoi fornitori o la restituzione dei crediti fiscali.

“Se questo fosse il trattamento che si riserva all’evasore totale sarebbe anche giusto, ma vale per tutti, anche per una piccola impresa che non riesce a pagare una rata per via della crisi o per uno che ha sbagliato a fare la dichiarazione dei redditi”, spiega al Fatto Antonio Iorio, avvocato tributarista, collaboratore del Sole 24 Ore ed ex direttore delle relazioni esterne proprio per l’Agenzia delle Entrate: “La prima cosa da fare, comunque, è migliorare la qualità degli accertamenti. Bisogna sempre ricordare, infatti, che oggi il 40 per cento circa delle contestazioni vengono poi annullate da un giudice: in questo modo c’è il rischio che l’obbligo di versare un terzo della cartella per avviare il ricorso diventi un onere improprio per le imprese. Pensi ad una piccola azienda accusata di aver evaso o comunque non versato al fisco 2 milioni di euro: deve pagarne in due mesi 700 mila solo per fare ricorso e se non lo fa rischia di vedersi ipotecare gli impianti o pignorare i conti correnti col risultato che le banche le chiudono il credito perché viene segnalata alla centrale rischi”.

Nel mirino, insomma, finiranno le Pmi, che già vivono un rapporto difficile con la pubblica amministrazione. E’ lecito dubitare che la pistola gentilmente fornita da Tremonti verrà usata con prudenza: è stata data proprio per sparare. Le pressioni dal Tesoro e dall’Agenzia delle Entrate, confermano fonti di Equitalia, sono tutte dirette al conseguimento degli obiettivi di budget. Tradotto: gli agenti riscossori dovranno portare a casa l’osso dei 13 miliardi e poco male se nel frattempo un altro pezzo di imprenditoria italiana sarà desertificato o si finirà in realtà per aumentare l’evasione. “I veri evasori – spiegano – non pagano quasi niente e mettono da parte una sorta di fondo rischi con cui poi chiudere una procedura di conciliazione col fisco: con gli sconti che strappano ci guadagnano lo stesso. E così anche chi paga pensa comincia a pensare che farlo sia da fessi”. La reazione dei cittadini – per ora sottotraccia – è di esasperazione: il tono dei commenti sul web, per dire, è lo stesso ad ogni latitudine, dal blog di Beppe Grillo ai siti del Sole, del Giornale o della Repubblica. Per capirci su cosa si rischia, in Sardegna – dove ci fu una sollevazione popolare contro Equitalia già ad aprile – vanno in esecuzione oltre 80mila cartelle: “C’è aria di rivolta”, titola un giornale dell’isola.

di Marco Palombi




lunedì 3 ottobre 2011

Quei pentiti che fanno paura. - di Lirio Abbate




Le rivelazioni di diversi collaboratori di giustizia convergono sull'ipotesi che dopo l'arresto di Riina i boss abbiano puntato su Forza Italia e Silvio Berlusconi.


E' la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti. I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia gli dice: "Eh! Finalmente si sono fatti sotto". Riina è tutto contento e tiene stretta in mano una penna: "Ah, ci ho fatto un papello così..." e con le mani indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l'aggiustamento del processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno 904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del 'papello' Brusca le ricorda così: "Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino".


L'uomo che uccise Giovanni Falcone - di cui 'L'espresso' anticipa il contenuto dei verbali inediti - sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell'Interno, il politico che avrebbe 'coperto' inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite sarebbe stato l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso l'allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L'ex responsabile del Viminale ha sempre smentito: "Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell'Interno confermo che nessuno mi parlò di possibili trattative".


Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano attraverso Ciancimino, arriva la risposta al 'papello', le cui richieste iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello dell'Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. 


Ma nel dicembre '92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché "Mancino aveva preso questa posizione". E quella è la prima e l'ultima volta nella quale Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell'arresto di Riina), il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.


Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi "facili facili", come l'uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri. 


Brusca è convinto che in quell'incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi segreti, per condividerli con gli altri nell'eventualità che a lui fosse accaduto qualcosa.


Il nome dell'allora ministro era stato riferito a Riina attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi - e che lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del 'papello' - è se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: "Se le cose stanno così nessun problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria, ovvero ha 'bluffato' con Riina e questi se ne è reso conto, l'ex sindaco allora si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi familiari e che può durare a tempo indeterminato".


In quel periodo c'erano strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana con porte e finestre antiproiettile: "Ma perché mai si sta blindando, che motivo ha?". "Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo", commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: "O se hai da temere ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa".


Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l'ex sindaco abbia riportato ciò che gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome di Mancino. In particolare uno. Nell'incontro di Natale '92 Biondino prese una cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni: "Ma guarda un po': quando un bugiardo dice la verità non gli credono". La frase aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di quest'ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il falso. Ma l'ex ministro oggi dichiara di non ricordare l'incontro al Viminale con Borsellino.


Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul negoziato mafia-Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno '92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso Borsellino "per un suo capriccio". Solo per riscaldare la trattativa. 


Le rivelazioni del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l'attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio '93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l'ordigno contro il pentito Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l'arresto di Riina parla con il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: "Siamo a mare", per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.


I corleonesi volevano dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello Mori e il capitano De Donno) di aver "fatto il bidone". E forse per questo motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L'attentato fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.


In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall'ex sicario palermitano Spatuzza. Il neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine del '93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con Marcello Dell'Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che "venne agganciato", nella metà degli anni Novanta "il nuovo referente politico: Forza Italia e quindi Silvio Berlusconi".


Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: "Parlando con Leoluca Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si accingeva a diventare presidente del Consiglio nel '94, gli mandammo a dire 'Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno', non so se rendo l'idea...". Spiega sempre il pentito: "Cioè sanno quanto era successo già nel '92-93, le stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del '93". I mafiosi intendevano mandare un messaggio al "nuovo ceto politico", facendo capire che "Cosa nostra voleva continuare a trattare".


Perché era stata scelta Forza Italia? Perché "c'erano pezzi delle vecchie 'democrazie cristiane', del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un po' conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi volevamo dare un'arma ai nuovi 'presunti alleati politici', per poi noi trarne un vantaggio, un beneficio".


Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese. 


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tra-mafia-e-stato/2116006/

'Corruzione, B. è un bluff. 'di Stefania Maurizi






Un nuovo file di WikiLeaks rivela che nel 2008 il governo Usa cercò di capire cosa stesse facendo il premier italiano per combattere le tangenti. E la risposta fu: niente, anzi ha smantellato l'unico organismo che c'era.


La lotta alla corruzione? Silvio Berlusconi non ha deluso soltanto gli italiani, ma anche il suo migliore alleato: l'America di George W. Bush. Che esamina con sgomento come sia stato smantellato persino il timido tentativo di un organismo anti-mazzette.
Al posto dell'Alto Commissario il Cavaliere ha improvvisato un ufficio senza arte ne parte: meno efficace della struttura già debole che ha rimpiazzato. Dipendente da un ministro dello stesso governo su cui deve sorvegliare. Con un mandato così ristretto da non potersi occupare nemmeno delle corruttele dei membri del parlamento italiano.
Una bocciatura netta, senza appello, che porta la firma di Ronald Spogli, l'ambasciatore romano di Bush.
Il file segreto ottenuto da WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, mostra quanto sia bassa la credibilità dell'esecutivo sulle questioni morali.
L'argomento del rapporto mandato a Washington è il SaeT, acronimo che sta per "Servizio anticorruzione e Trasparenza". E' stato creato nel 2008 dal governo Berlusconi che, appena tornato al potere, aveva abolito l'Alto Commissariato anticorruzione, sostituendolo con il SaeT.
L'eliminazione del Commissariato era stata criticata da più parti in Italia e nel mondo. L'Ocse, che subito aveva chiesto chiarimenti a Roma. Ma gli americani non si fidano delle parole e per abitudine vanno a controllare di persona.
Così nel novembre 2008, l'ambasciatore Ronald Spogli visita gli uffici del nuovo ente e trasmette le sue conclusioni al Dipartimento di Stato: «Ci ha deluso. Crediamo probabile che il SaeT giocherà un ruolo meno efficace dell'organizzazione che ha rimpiazzato».
La critica si basa su un lungo elenco di dati. «Le attività del SaeT arrivano solo fino al governo», un mandato che quindi non gli consente di occuparsi della corruzione nelle aziende private, ma addirittura neppure di quella dei membri del parlamento, «a meno che questi ultimi sono svolgano un ruolo pubblico in istituzioni governative». 


La nuova struttura anti-mazzette ha un staff «di appena 15 esperti e due direttori» mentre «l'Alto Commissariato aveva 60 persone». Inoltre il Saet non ha «alcun potere di supervisione: opererà come "hub di coordinamento" che spera di "delegare" molto del suo lavoro ad altre istituzioni (carabinieri, dogane, Banca d'Italia e altri)».
E anche se l'Alto Commissariato «non è mai stato veramente efficace, perlomeno sembrava avere un minimo di indipendenza», perché finanziato e dipendente dal Parlamento, «il SaeT, al contrario, è stato messo sotto un ministro del governo» e «non ha fondi indipendenti». Dipende, infatti, dal ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta.
Spogli chiude con un commento negativo. «Nel nostro lavoro con l'Alto Commissariato avevamo capito che si trattava era un'organizzazione piena di buone intenzioni, ma largamente inefficace. Siamo andati a visitare il SaeT sperando di vedere il debutto di un ente capace di affrontare seriamente il problema della corruzione dilagante in Italia».
E il diplomatico spiega che ad alimentare la speranza era anche la stima per Brunetta, ritenuto nel 2008 «il più energico dei riformatori del governo italiano». E invece no, il Saet si rivela un bluff: «La nostra visita ci ha deluso». E in Italia ne è stata dimenticata persino l'esistenza.


Caso Ruby, a giudizio Fede, Mora e Minetti. No alla sospensione del processo Berlusconi.




Il gup Domanico conferma le accuse di induzione e favoreggiamento della prostituzione per il reclutamento di ragazze per le notti di Arcore. Al dibattimento "gemello" i giudici respingono la sospensione chiesta dalla difesa in attesa della pronuncia delle Corte costituzionale.

Emilio FedeNicole Minetti e Lele Mora sono stati rinviati a giudizio per il caso Ruby. Tutti e tre sono accusati di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Lo ha deciso il gup di MilanoMaria Grazia Domanico, al termine dell’udienza preliminare.

Il processo comincerà il 21 settembre e si terrà nel capoluogo lombardo, perché il gup ha anche respinto l’eccezione presentata dalle difese, che avevano chiesto il trasferimento del procedimento a Messina, dove è avvenuto il primo contatto tra Ruby e Fede. Ma il presunto reato, obietta il Gup Domanico, è avvenuto a Milano. I tre sono accusati di aver reclutato ragazze per i festini a luci rosse organizzati dal presidente del consiglio nelle sue residenze.

La consigliera regionale Minetti si è presentata in aula con jeans scuri e giacca nera, e durante una pausa ha confidato ai cronisti: “Non ho dormito per l’agitazione, sono molto stanca, a pezzi”. Poi però si anche dichiarata “tranquilla e fiduciosa”, e ha spiegato la ragione della sua presenza in aula: “Era mio dovere esserci,volevo che il giudice mi vedesse”, ha dichiarato. Ma davanti al gup sono arrivate anche Imane Fadil, Chiara Danese e Ambra Battilana, tre delle tante ragazze che avrebbero partecipato ai festini nelle ville del premier. La Fadil, 27 anni, modella marocchina, ha dichiarato ai cronisti che starebbe valutando l’opportunità di costituirsi come parte civile nel caso in cui i tre fossero rinviati a giudizio. «Sono qua perché mi ritengo parte offesa e per guardare in faccia chi mi ha dato della bugiarda», ha spiegato la ragazza, che nel mese di agosto si presentò spontaneamente in procura raccontando molti particolari sulle feste di villa San Martino.

Gli avvocati del direttore del Tg4, Gaetano Pecorella e Nadia Alecci, hanno chiesto che vengano trascritte tutte le telefonate, anche quelle che non sono mai state trascritte come alcune intercettazioni che riguardano Silvio Berlusconi e l’europarlamentare Licia Ronzulli, per una questione di completezza del quadro processuale. Il pm Antonio Sangermano e l’aggiunto Pietro Forno si sono opposti spiegando che quelle intercettazioni non sono mai state trascritte e utilizzate in quanto “vanno garantite le prerogative dei parlamentari”. In tarda mattinata il gup ha respinto la richiesta degli avvocati di Emilio Fede.

Lele Mora non ha presenziato all’udienza: l’agente televisivo è ricoverato in ospedale dopo un malore che lo ha colto in carcere, dov’è detenuto per un’altra accusa, bancarotta fraudolenta.

Sempre sul caso Ruby, al processo già in corso contro Silvio Berlusconi, dopo cinque ore di camera di consiglio i giudici del Tribunale di Milano hanno respinto la richiesta dei legali del premier di sospendere il dibattimento fino alla pronuncia della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Le ipotesi di sospensione del processo, affermano i giudici, “sono tassativamente previsti dalla legge”, e il Tribunale “è soggetto solo alla legge e non può operare al di fuori”.

La Consulta si esprimerà sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Parlamento il prossimo 7 febbraio. Sulla stessa eccezione si era già pronunciato il Tribunale, rigettando la competenza funzionale del Tribunale dei Ministri e anche quella territoriale di Monza.

Gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo avevano annunciato che, nel caso in cui la Corte non avesse concesso la sospensione, solleveranno una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. E ciò perché, ha spiegato Longo, non si può “lasciare all’arbitrio dei giudici una decisione di sospensione mentre un altro potere dello Stato non avrebbe alcuna tutela riguardo alla sue prerogative”.

Sulla richiesta si era espresso il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, la quale, definendola “infondata”, ha spiegato che il codice di procedura penale “non prevede l’obbligatorietà della sospensione in casi come questi” . La sospensione è infatti più che altro una forma di cortesia istituzionale .”Bisogna valutare se vi siano ragioni di opportunità, come già fu fatto nel caso Abu Omar quando i giudici ritennero in una circostanza di sospendere il processo per lasciare alla Consulta il tempo di decidere sul segreto di Stato, ma in un altro momento lo fecero proseguire, nonostante le richieste di sospensione da parte delle difese”, ha detto ancora la Boccassini, secondo la quale però la questione è “residuale” anche perché , ha spiegato, “in un’aula di tribunale non deve passare il concetto di opportunità politica, è un argomento che non può essere sfiorato”.

Questa mattina, alla prima udienza del processo che l’avvocato del premier Niccolò Ghediniaveva definito “perfetto”, ironizzando sul fatto che si tratterebbe di una “tenaglia” nei suoi confronti, il presidente del Consiglio non c’era.