giovedì 29 marzo 2012

In serie A 2,6 miliardi di debiti



Solo 19 i club in attivo tra i professionisti. Il ministro Gnudi: numeri da fallimento.

Roma, 29 mar - Una fotografia impietosa che immortala la voragine del calcio italiano, con l'indebitamento della serie A salito fino a quota 2,6 miliardi di euro nel 2010-2011. Crescono i debiti, aumentano le perdite e cala soprattutto il valore della produzione. Colpa non solo dei trofei che non arrivano, ma soprattutto di un modello di business non piu' sostenibile perche' basato quasi esclusivamente sugli introiti dei diritti tv, che in serie A rappresentano il 55% dei ricavi di esercizio.    

A scattare l'inquietante istantanea sul pallone professionistico italiano e' il "report calcio 2012", presentato nella sede dell'ABI dal centro studi della FIGC, Arel e Pricewaterhousecoopers, con numeri inequivocabili: l'indebitamento complessivo della serie A nel 2010-2011 e' salito del 14%, 2,6 miliardi di euro contro i 2,3 miliardi della stagione precedente.       

Dura l'analisi del ministro dello sport e turismo, Piero Gnudi, che ha parlato di un sistema al collasso, con numeri da fallimento. "Io faccio il ragioniere e leggo bilanci molto preoccupanti. In altri ambiti, con quei numeri si parlerebbe di societa' prossime al fallimento. La crisi e' ancora lunga e sara' difficile trovare dei mecenati che investano nel calcio. Si rischia di non avere societa' in grado di iscriversi ai campionati". Lo scorso anno le perdite sono cresciute del 23% a 428 milioni di euro, un risultato che coinvolge tutte le leghe: tra i 107 club analizzati (su 127) solo 19 hanno chiuso i bilanci in utile: 8 in A ( Napoli, Udinese, Lazio, Parma, Catania e Palermo, piu' le retrocesse Bari e Brescia), 7 in B, 4 in Lega Pro. D'altronde il valore della produzione e' calato ancora a 2,5 miliardi (-1,2%): un miliardo arriva dai diritti tv della sola serie A che genera l'82% dei ricavi. La serie B pesa per il 14% (era l'11%) e la Lega Pro il 4% (era il 5%). Il costo della produzione e' pari, invece, a 2,9 miliardi di euro, in aumento dell'1,5% rispetto alla stagione precedente.       

La crisi colpisce anche i presidenti delle squadre di calcio che hanno dato una stretta, timida, ai costi. Nel 2010-2011, infatti, il trend di crescita e' rallentato molto se confrontato con il +6,8% registrato nel 2009-2010 il +6,4% del 2008-2009. Sul fronte fiscale, nel 2009, il calcio italiano ha contribuito allo stato con un miliardo di euro: l'85% (875 milioni) deriva dal contributo fiscale e previdenziale delle societa', mentre i rimanenti 155 milioni sono relativi al gettito erariale derivante dalle scommesse. Con lo strapotere delle televisioni, ma anche a causa dello stato in cui si trova l'impiantistica italiana da oltre 20 anni, il numero complessivo dei tifosi allo stadio e' calato del 4% a quota 13,3 milioni. E cosi' lo scorso anno gli stadi della serie A sono stati riempiti solo al 56%, e la biglietteria ha pesato solo il 10% del totale del valore della produzione dei club. I club stanno spingendo per una nuova normativa in tema di impianti: "che sia una priorita' per il calcio e' indiscutibile - ha aggiunto Gnudi -. sono convinto che si debba andare avanti, anche per innescare nuovi investimenti da parte dei privati, utili alla crescita del paese. C'e' bisogno, pero', che finisca questa crisi, altrimenti anche con la nuova legge, sara' difficile trovare degli investitori".      

Una necessita' condivisa dal presidente della FIGC, Giancarlo Abete: "speriamo che ci sia grande attenzione delle istituzioni per salvaguardare il patrimonio del calcio italiano - ha auspicato -. La legge sugli stadi e' ferma, ma noi dobbiamo restare lucidi, anche perche' l'Uefa ha riaperto le dichiarazioni di interesse per euro 2020, e, se restiamo cosi', noi non giocheremo nemmeno la partita". Il numero 1 del coni, Gianni Petrucci, ha invitato i club a non piangersi addosso. "Ad eccezione dello Juventus Stadium, finora ho visto solo plastici straordinari. Se ci si potesse giocare, sarebbe meglio che al Camp Nou. Mi auguro che ci sia presto un passo avanti, anche perche' non capisco cosa ci sia di cosi' impossibile nell'approvazione della legge".

Regione Sicilia: dal Pd a Fli la giunta “antimafia” terremotata dal caso Lombardo. - di Giuseppe Pipitone



L'imputazione coatta del presidente per concorso esterno mette in imbarazzo la maggioranza appoggiata da diversi esponenti di primo piano nella battaglia contro Cosa nostra, come Beppe Lumia e Fabio Granata. Tra l'ironia del Pdl e le sferzate della sinistra. Il parlamentare democratico: "Toglieremo il sostegno in caso di rinvio a giudizio".

Il parlamentare del Pd Giuseppe Lumia
Una bomba. Così viene definita nei corridoi di Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale siciliana, la notizia dell’imputazione coatta di Raffaele Lombardo per concorso esterno a Cosa Nostra e voto di scambio aggravato. Un’accusa pesantissima che è piombata come un fulmine a ciel sereno sulla testa del presidente siciliano, esponente dell’Mpa, e che adesso mette in pesante difficoltà i suoi alleati di governo, soprattutto quelli che hanno fatto della lotta alla mafia la bandiera della loro azione politica.

Il ruolo più scomodo tocca probabilmente al senatore Beppe Lumia, già presidente della Commissione parlamentare antimafia e da sempre in prima linea contro Cosa Nostra. Insieme ad Antonello Cracolici, capogruppo democratico all’Ars, è il regista dell’accordo Pd-Mpa: un accordo problematico che nei mesi scorsi aveva scatenato una vera e propria faida tutta interna ai democratici, cominciata con la mozione di sfiducia per il segretario regionale Giuseppe Lupo e culminata nell’implosione del centrosinistra alle primarie palermitane.

“Alla fine ognuno di noi si farà un’idea su Lombardo – aveva detto Lumia pochi giorni fa – Se emergeranno elementi negativi personalmente sarò in testa sulla severità nel giudizio. Ho sempre sostenuto che i contatti, se sono consapevoli, vanno puniti politicamente”. Adesso Lumia si trova a coniugare la sua personale storia di lotta alla mafia con l’appoggio diretto ad un presidente che da Cosa Nostra avrebbe preso voti e finanziamenti. Una posizione scomoda che durerà almeno fino alla prima udienza preliminare. Dopo la riunione straordinaria di maggioranza infatti Cracolici ha cercato di prendere tempo: “Toccherà a un altro giudice pronunciarsi sull’eventuale rinvio a giudizio. Poi di fronte a un rinvio a giudizio per fatti di mafia, interromperemo il sostegno al governo. Ma, ripeto, ci toccherà vedere ancora altre puntate prima che la telenovela finisca”.

Un’istantanea sull’inedita posizione del duo Lumia-Cracolici la regala Orazio Licandro: ”La coperta finora usata da un pezzo del Pd siciliano per coprire questa scandalosa alleanza politica si riduce a meno di un fazzoletto – commenta l’esponente del Pdci – La nouvelle vague antimafia dovrebbe moderare l’arroganza che l’ha contrassegnata negli ultimi tempi”.

Inedita e difficile anche la posizione di Futuro e Libertà. “Il giorno in cui dovesse arrivare una richiesta di rinvio a giudizio per Lombardo, Fli ripenserà all’appoggio che finora gli ha concesso”, aveva annunciato il deputato finiano Fabio Granata, anche lui componente della Commissione antimafia e particolarmente attivo nelle battaglie contro Cosa Nostra. Adesso, dopo la decisione del gip Luigi Barone, la richiesta di rinvio a giudizio per Lombardo è automatica. Anche i finiani però hanno deciso di aspettare che il rinvio si concretizzi: “Conosciamo Raffaele Lombardo e sappiamo che si comporterà anche in questa circostanza con correttezza e coerenza rispetto alla complessa vicenda giudiziaria che lo riguarda, se e quando dovesse perfezionarsi il rinvio a giudizio”.

Un mezzo passo indietro rispetto a quanto annunciato nei giorni scorsi che ha prestato il fianco alle critiche dell’opposizione. “Ho sempre avuto dubbi sullo sbandierato rigore politico di personaggi come Antonello Cracolici, Beppe Lumia, Carmelo Briguglio e Fabio Granata” è l’affondo di Rudy Maira, capogruppo del Pid all’Ars. I partiti dell’opposizione sono andati all’attacco anche di Massimo Russo e Caterina Chinnici, ex magistrati ora assessori di Lombardo:  “Certo, siamo pensierosi della difficile posizione dei magistrati e degli ex prefetti che sono in Giunta di Governo – scrivono in una nota i capigruppo di Pdl, Pid e Udc – A loro non piace respirare aria più pura. Tra le verità di Lombardo e quelle dei loro colleghi magistrati, scelgono in anticipo. Per pregiudizio, anch’esso coatto”.

Adesso per la sopravvivenza del governo regionale diventa dunque fondamentale l’udienza preliminare, che Lombardo spera “sia convocata al più presto possibile”. Il governatore neoimputato per mafia ha respinto con forza l’ipotesi delle dimissioni, anche nella peggiore delle ipotesi, appunto il rinvio a giudizio. “La peggiore delle ipotesi non esiste – ha detto a caldo Lombardo – quello che esiste è la verità. E io su questa vicenda scriverò un memoriale. Con franchezza non mi aspettavo questa decisione del gip, così come non se l’aspettava nessuno. Forse solo qualcuno”. Qualcuno chi? “Qualcuno” ha ribadito sornione.

Ma anche no: ITALIANO MEDIO DI MACCIO CAPATONDA A MA ANCHE NO.

Il bluff dell’oro nero lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano. - di Enrico Fierro



Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata resta la più povera d'Italia.


“Richiamate i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione. Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.

“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.

Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.

Emilio Fede lascia il Tg4, la carriera: da Aldo Moro a Lele Mora.


Emilio Fede ha lasciato la direzione del Tg4. Lo annuncia Mediaset in una nota, spiegando che la direzione della testata è cambiata "in una logica di rinnovamento editoriale". "Dopo una trattativa per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro non approdata a buon fine - spiega l'azienda - Emilio Fede lascia l'azienda. Si chiude così un capitolo importante di una carriera lunghissima: prima alla Rai e poi sempre nell'orbita di Berlusconi fino a diventare anche un idolo del web
(a cura di Anna Zippel) 



http://video.repubblica.it/cronaca/emilio-fede-lascia-il-tg4-la-carriera-da-aldo-moro-a-lele-mora/91504/89897

Caso Calipari: la verità nascosta. - di Stefania Maurizi



A sette anni dalla morte del funzionario Sismi, esce il libro del pm che condusse le indagini. E ripercorre tutta la storia di quello strano posto di blocco prolungato, dei soldati che spararono contro l'unica auto che aveva i fari accesi, degli americani che rifiutarono ogni collaborazione. Fino all'insabbiamento.


Anche i morti sentono freddo quando sono sulla soglia dell'oblio. A citare Sant'Agostino è un magistrato: Erminio Amelio, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, chiamato a sostenere l'accusa in un processo che non si è mai celebrato: quello per l'omicidio di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005, subito dopo aver liberato la giornalista del 'Manifesto', Giuliana Sgrena. 

Amelio ha scritto un libro che, nonostante la complessità della vicenda, si legge di un fiato ('L'omicidio di Nicola Calipari', Rubbettino, 16 euro) e che si chiude con un'ammissione di sconfitta: ingiustizia è fatta. Sì, perché Calipari, in missione per lo Stato e che allo Stato ha dato la vita, giustizia non ne ha avuta, né è stato possibile accertare la verità sulla sua morte. Il nome del soldato americano, Mario Luis Lozano, che sparò sull'auto di Calipari, che viaggiava verso l'aeroporto per riportare a casa la Sgrena, è stato scoperto per puro caso, perché gli Stati Uniti hanno respinto qualsiasi forma di collaborazione con la magistratura italiana che indagava sull'omicidio. 

Nel giugno 2008, una sentenza della Cassazione ha stabilito che Lozano non era processabile in Italia per un difetto di giurisdizione: la Suprema Corte ha riconosciuto al soldato Usa la cosiddetta 'immunità funzionale', uno scudo che lo ha sottratto a qualsiasi giudizio e condanna. 

Se Nicola Calipari fosse stato ucciso nell'era pre-WikiLeaks avremmo potuto solo immaginare certi retroscena della partita Italia-Usa sul caso, dovendoci però fermare alle supposizioni e ai sospetti, come ormai avviene da sessant'anni per i cosiddetti 'misteri italiani': da piazza Fontana a Ustica. E invece i 715.039 file rilasciati dall'organizzazione di Julian Assange, che includono i cablo della diplomazia Usa e i report dal campo della guerra in Iraq e in Afghanistan, hanno portato alla luce 26 documenti segreti, che sollevano il velo delle menzogne e delle trattative inconfessabili tra Italia e Usa sul caso Calipari. 

Si tratta della versione dei fatti che l'ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, che ha gestito la partita, racconta al Dipartimento di Stato, certo. Ma quelle comunicazioni diplomatiche non sono parole in libertà, sono report basati su dati e informazioni capaci di orientare la politica estera americana. 

I file su Calipari raccontano come Berlusconi, Gianni Letta, Gianfranco Fini, allora ministro degli Esteri, Antonio Martino, alla Difesa, e il capo del Sismi, Nicolò Pollari, accettarono un compromesso con gli Usa, che salvò la faccia a tutti, preservò ragione di Stato, carriere e rapporti personali e diplomatici, facendo solo una vittima: la verità. 

Quel compromesso - rivelano i documenti- le istituzioni italiane lo accettarono la sera stessa del funerale di Nicola Calipari, quando incassarono l'offerta di partecipare ai lavori della commissione militare americana. Attenzione: non una commissione congiunta Italia-Usa capace di cercare la verità su basi paritetiche, come allora scrisse quasi tutta la stampa italiana, ma una che facesse quanto fatto «con il caso del Cermis», come sottolineò esplicitamente Mel Sembler, evocando un'altra strage americana contro cittadini italiani rimasta completamente impunita. 

E un mese dopo aver incassato il consenso delle istituzioni italiane, Sembler, in un cablo segreto a Washington, ammetterà con candore che uno degli obiettivi degli Stati Uniti fosse stato quello di «prevenire la richiesta di un qualche tipo di commissione congiunta più approfondita, che andasse a indagare sull'uccisione». 

I file di WikiLeaks raccontano tutte le trattative per accelerare «la scomparsa del caso dallo schermo radar della politica (italiana)». 

Ora, però, il libro del pm Amelio lo riporta in primo piano. 

Perché ha scritto questo libro?

 
«Questo libro vuole essere una testimonianza di un fatto gravissimo che è accaduto sette anni fa. Ho notato che, in un brevissimo arco di tempo, una vicenda che aveva destato scalpore e sdegno poi era finita nel nulla. E di fatto tutto si è risolto nel nulla. Non essendosi potuto celebrare il processo, il popolo italiano non ha potuto conoscere come si sono svolti i fatti. E allora, con questo libro, cerco di dare la possibilità a chi vorrà leggerlo di farsi un'idea, attraverso gli atti delle indagini, e quindi di capire perché Nicola Calipari è morto, per mano di chi, di chi sono le responsabilità».



Nel libro lei sottolinea che il diritto internazionale non prevede l'immunità per un semplice soldato, ma solo per capi di Stato, di governo e poche altre figure. Com'è possibile che si sia 'inventata' un'immunità che non esiste?
 
«Il diritto non è matematica, dove due più due fa quattro. Ci sono due sentenze che, pur pervenendo alla stessa conclusione del difetto di giurisdizione, ci arrivano attraverso ragionamenti opposti. La Corte di Assise valuta l'immunità funzionale, esposta dal difensore di Lozano, ma ritiene che non si applica e stabilisce che si applica il diritto della bandiera. La Cassazione, invece, stabilisce che non si applica il diritto della bandiera, ma si applica l'immunità funzionale, specificando nella sentenza - e da questo punto di vista accogliendo i motivi del pubblico ministero - che il diritto della bandiera non si applica, perché sussiste per altre vicende: quelle che riguardano i fatti commessi in alto mare, dove non c'è giurisdizione alcuna. E' ovvio che siamo nel campo delle interpretazioni, dove può venire fuori una sentenza che dice una cosa e una che ne dice un'altra, perché il diritto è un'interpretazione da parte di giudici, che secondo la propria scienza e la propria coscienza pervengono a una decisione: per alcuni può essere condivisibile, per altri no. Io non la condivido, ma la rispetto e la critico, perché è previsto l'esercizio del diritto di critica».



Calipari fu ucciso da un soldato americano a un posto di blocco istituito per proteggere il passaggio dell'ambasciatore Usa in Iraq, John Negroponte. Nel libro, lei sottolinea che quella postazione fu mantenuta per oltre mezzora dopo il transito del convoglio di Negroponte: una scelta contro ogni logica, perché esponeva i soldati a un rischio altissimo di attentati. Lei scrive che non pare fantasia che il posto di blocco sia stato mantenuto per sorvegliare le operazioni di recupero di Giuliana Sgrena... 


«Io ricostruisco questa vicenda e non lo faccio sulla base mie sensazioni. I fatti dicono che quella postazione non era un check point, era un posto di blocco. E il posto di blocco va organizzato in un certo modo. Non sono io a dirlo, sono gli americani nel loro rapporto. Deve durare al massimo mezzora, perché si tratta di un tipo di postazioni 'volanti', allestite in posti pericolosi per far fronte all'emergenza e quindi la loro durata è necessariamente commisurata a una specifica missione. Sono gli americani a dire che durò fino alle 20.50, il minuto in cui venne ucciso Calipari. Considerando che il posto di blocco era stato posto in essere alle 19.30, è durato un'ora e venti minuti. Sono gli americani a dire che alle 20.30 il capitano Drew ha chiesto di poterlo smantellare, ma gli fu risposto di mantenerlo ancora per altri 20 minuti. Riporto quello che c'è scritto nei documenti. Alle 20.50 passa l'auto di Calipari e i soldati del posto di blocco gli sparano. Non ho aggiunto niente. Poi sarà una coincidenza, non sarà una coincidenza, ognuno si farà un'opinione. Però ecco la funzione del libro: la gente lo deve sapere. E questo libro vuole dare la possibilità di leggere i fatti, visto che non è stato possibile leggerli in un processo».

Gli Usa negarono qualsiasi forma di collaborazione alle indagini della magistratura italiana, al punto che il nome stesso di Mario Luis Lozano è stato acquisito solo per errore, grazie a una banale tecnica informatica che ha permesso di togliere dal report degli americani le 'pecette' elettroniche che ne coprivano il nome...


«Basta consultare gli atti per vedere quali sono state le nostre richieste fin dalla mattina del 5 marzo. Abbiamo chiesto i nomi, i cognomi e di indicare le modalità in cui si erano svolti i fatti. Da parte americana, assoluto silenzio. Quando i nomi sono venuti fuori con quella tecnica informatica, abbiamo detto: visto che anche noi ormai sappiamo quello che voi sapevate e che ci avevate taciuto, ci fornite le generalità di Lozano? Gli notificate l'avviso di conclusione indagini? Neanche questo è stato fatto. Collaborazione nulla da parte degli Usa. Hanno espresso il cordoglio per la famiglia Calipari, e in una delle risposte, anch'essa agli atti, hanno scritto che il caso è chiuso. Quindi l'omicidio del numero due dei servizi segreti italiani, ovvero del più alto funzionario operativo, perché sopra di lui c'era solo il direttore generale, non ha avuto accertamento né in Italia, né negli Stati Uniti, né in Iraq. Questa persona ha regalato la vita agli altri, ha salvato la vita di Giuliana Sgrena per ben due volte nella stessa giornata, ha salvato altri nostri connazionali, ha operato per lo Stato italiano ed è andato in Iraq perché lo Stato italiano lo ha inviato. E di questo si perde memoria. Non è possibile. Di Nicola Calipari ci siamo dimenticati quasi immediatamente, dopo aver dato una medaglia d'oro».



I documenti di WikiLeaks rivelano le trattative per gestire diplomaticamente e mediaticamente il caso. Anche la stampa si fece ingannare da quella commissione congiunta Italia-Usa sulla morte di Calipari. Secondo lei, ci fu una manipolazione della stampa o si trattò semplicemente di superficialità? 

«Nel mio libro non ho volutamente parlato dei documenti di WikiLeaks, perché, pur essendo importanti, mi sono voluto attenere ai dati che conoscevamo noi, non a quelli di ambienti in cui l'autorità giudiziaria non può avere accesso. Ho voluto tenerli separati proprio per non contaminarli, mi si passi questo termine. Quella commissione, non congiunta, ma tecnico amministrativa, inizia dei lavori. A cominciare sono gli americani, ma dopo cinque giorni sono ammessi anche gli italiani con una serie di limitazioni. Allora io dico: se una commissione è congiunta, tutti devono avere gli stessi poteri, altrimenti è congiunta solo da un un punto di vista formale. Se io e lei facciamo una commissione e io conto più di lei, allora lei ci sta per avallare le mie scelte. Però, devo dire che gli italiani hanno avuto la forza di dire no: hanno prodotto un documento autonomo nel quale smontano completamente le affermazioni degli americani. Quello è un documento forte».

Ecco, i documenti di WikiLeaks smontano anche questa lettura dei fatti. Rivelano, infatti, che la scelta di presentare due relazioni finali, una americana e una italiana, a chiusura dei lavori della commissione, fu una questione di pura opportunità politica. Non ci fu nessuna rottura. Fu la via d'uscita con cui il governo Berlusconi si salvò la faccia ed evitò l'accusa di avere insabbiato. Gli americani capirono e accettarono machiavellicamente, tanto i loro soldati la facevano comunque franca...


«Sì, ma quello italiano è un documento forte, perché dice agli americani: la tua ricostruzione non vale, non mi puoi dire che non hai messo i cartelli per segnalare il posto di blocco perché tanto gli italiani non capivano l'inglese. Su quei cartelli c'era scritto "stop". Allora se un italiano non conosce la parola stop, non può circolare neanche con la macchina in Italia. Sono cose che fanno sorridere. Perciò nel libro dico che quello italiano è, comunque, un lavoro meritorio. Manca il passo ulteriore, che avrebbe consentito di accertare la verità e probabilmente quel passo non è stato fatto perché si è tenuto conto del contesto storico e degli interessi che c'erano in gioco. Si tratta di una conclusione amara: avevamo forse la possibilità di arrivare alla verità e di fare giustizia. Ed era il nostro dovere e il nostro debito verso Nicola Calipari: dargli solamente verità e giustizia. E' quello che non abbiamo potuto fare». 



La domanda più incisiva sul caso Calipari la pone proprio l'ambasciatore americano, Mel Sembler, sui documenti rilasciati da WikiLeaks: 'Perché di trenta auto che quella sera passarono davanti a quel posto di blocco, spararono solo a quella di Calipari?' Lei crede che la sua morte abbia fatto comodo per lo scontro che c'era nei servizi segreti italiani in quegli anni? 

«Non mi voglio avventurare in terreni che non sono miei. Registro che spararono alla macchina di Calipari. Ora sarà suggestione, sarà coincidenza, ma hanno sparato all'unica macchina contro cui non dovevano sparare, perché era l'unica che si avvicinava tranquillamente all'aeroporto, aveva i fari accesi, aveva la luce interna di cortesia accesa, un segnale di Baghdad per dire che era una macchina amica. Era un'auto che si avvicinava tranquillamente, perché non aveva alcuna necessità di correre, in quanto c'era un aereo a disposizione che sarebbe partito all'arrivo di Calipari. Calipari e anche il maggiore che era con lui erano delle persone navigate. Eppure gli americani spararono solo contro quella macchina. Che cosa dobbiamo dire? Se avessimo potuto fare qualche indagine in più, se non ci fosse stato anche il segreto di Stato, opposto e apposto, se ci fosse stato un briciolo di collaborazione da parte degli americani, magari avremmo capito di più».



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/caso-calipari-la-verita-nascosta/2177269//0