giovedì 29 marzo 2012

Il bluff dell’oro nero lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano. - di Enrico Fierro



Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata resta la più povera d'Italia.


“Richiamate i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione. Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.

“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.

Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.

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