Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 20 aprile 2012
giovedì 19 aprile 2012
Perché lo stato deve finanziare i partiti. - Nadia Urbinati
La corruzione dei partiti, soprattutto quando sembra un fiume in piena che si ingrossa giorno dopo giorno, ha effetti devastanti. Non soltanto, come è ovvio, sulla stabilità dell’ordine democratico e la credibilità delle sue istituzioni. Ma anche sulla mentalità politica generale. Poiché induce i cittadini a pensare che se lo Stato mettesse i partiti a pane e acqua questi non avrebbero più i mezzi sufficienti per essere disonesti.
Togliere il finanziamento pubblico ai partiti può apparire come la ricetta vincente per costringere all’onestà secondo il detto popolare che l’occasione fa l’uomo ladro. Sull’onda degli scandali giudiziari e in un tempo come questo in cui il governo e il Parlamento impongono ai cittadini enormi sacrifici, questa tesi si fa via via più convincente.
Ma c’è da dubitare che sia la via migliore per impedire la corruzione. Basta ripercorrere brevemente la storia del finanziamento pubblico ai partiti per rendersene conto.
La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento, fu voluta e approvata sull’onda di scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblicoo privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici facendoli questuanti di soldi privati è illusorio. Non solo non vale a togliere la piaga della corruzione, ma ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica, quella cioè dello scambio – favori politici in cambio di denaro- un’altra cheè ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la diretta possibilità di tradursi in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. È questa la ragione per la quale il modello statunitense è pessimo.
In questi giorni di malaffare dilagante, che tocca addirittura il partito che si è consolidato gridando agli scandali altrui, si sente proporre il modello americano, magari corretto. Contro quel modello da anni si battono giuristi, opinionisti e teorici politici americani (da John Rawls a Ronald Dworkin tanto per menzionare i nomi più prestigiosi). Gli Stati Uniti sono la prova evidente di quanto sbagliato sia per la democrazia avere partiti privatizzati.
Per un democratico, proteggere le istituzioni politiche dalla corruzione significa proteggere l’eguaglianza politica dall’infiltrazione della diseguaglianza economica. La democrazia accetta le differenze economichee crede che sia possibile impedire che trasmigrino nella sfera politica. Essa quindi si avvale di istituzioni, procedure e norme che bloccano il travaso di influenza economica in influenza politica.
Peri critici di destrae di sinistra questa è una illusione. Perché non sia un’illusione occorrono buone leggi. Ora, le controversie americane sulla questione dei finanziamenti delle campagne elettorali vertono tutte su questo tema. La lotta tra il potere legislativo (il Congresso americano ha proposto e passato leggi che regolano e limitano il finanziamento privato) e il potere giudiziario (la Corte Suprema ha in casi importanti bloccato l’azione del legislatore) verte proprio sull’interpretazione della libertà, se solo un diritto dell’individuo (indifferente all’eguaglianza di condizione) o invece un diritto del cittadino (attento all’eguaglianza di opportunità politica). Il giudici sono schierati con la seconda interpretazione.
Il loro punto di riferimento è il Primo emendamento alla costituzione, il quale tutela la libertà di espressione dall’interferenza dello Stato.
Come bruciare la bandiera è stato definito, in una sentenza memorabile, un segno di libertà di opinione quindi un diritto intoccabile, così è per le donazioni private ai partitio ai candidati. Bloccarle significa, dicono i giudici, bloccare la libertà di espressione. Nella sentenza del 2010 (che riprendeva sentenze precedenti molto importanti) conosciuta come Citizens United versus Federal Election Commision, la Corte Suprema a maggioranza liberista-conservatrice ha sì riconosciuto che “l’influenza del denaro delle corporazioni” esiste ed è “corrosiva” perché causa di corruzione in quanto facilita una “influenza impropria” ovvero una ineguale “presenza politica” nel foro politico. Nonostante ciò, la Corte ha concluso che nonè comunque provabile che le compagnie private perseguano piani espliciti quando finanziano le campagne elettorali. Non si può provare che il loro denaro si traduce in decisione politica. Quindi non si può impedire la libertà di donazione. Tuttavia l’uso dell’espressione “influenza impropria” è significativo perché suggerisce che la base della democrazia è l’eguaglianza politica dei cittadini, ovvero la loro eguale opportunità di influire sull’agenda politica dei partiti, non solo attraverso il voto. Allora, quando c’è corruzione? C’è corruzione solo quando un politico è colluso? Non c’è corruzione anche quando si dà ad alcuni cittadini più opportunità di voce che ad altri? Se per la virtù repubblicana la prima solo è corruzione, per i democratici la seconda è anche e forse più grande corruzione. Perché lede il fondamento della libertà politica eguale. Ecco dunque che la questione di come finanziare i partiti rinvia a una concezione della libertà: se solo del privato individuo che vuole dare i soldi a chi desidera, o invece del cittadino che deve godere di una eguale libertà rispetto agli altri cittadini e non avere meno opportunità di altri di far sentire la propria voce. Nella democrazia rappresentantiva ancor più che in quella diretta, l’esclusione politica può facilmente prendere la forma del non essere ascoltati perché la propria voce è debole, non ha mezzi per giungere alle istituzioni.E il denaro è un mezzo potentissimo.
È questa la ragione per la quale è importante avere il finanziamento pubblico dei partiti. Certo, si può intervenire sulla quantità, le forme, le condizioni; si possono inasprire le pene per chi viola la legge. Ma è sbagliato pensare di combattere la corruzione e il malaffare di cui i politici e i partiti si macchiano eliminando il finanziamento pubblico. Privatizzare i partiti (già ora troppo aziendalie familistici) significherebbe indebolire ancora più gravemente l’eguaglianza politica.
Formigoni e i capodanni extralusso alle Antille in resort da 45mila euro la settimana
La notizia viene pubblicata dal sito dell'Espresso. Il settimanale online sostiene che il governatore della Regione Lombardia è andato in vacanza per tre anni consecutivi. Con lui gli imprenditori ciellini in affari con la Regione. tra questi anche il faccendiere arrestato Pierangelo Daccò.
Un villaggio da sogno per chi ha stipendi da sogno. E’ l’Altamer Resort di Anguilla, nelle Piccole Antille, dove per tre anni consecutivi il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, ha festeggiato il capodanno. E’ quanto scrive l’Espresso, in edicola domani, in un articolo in cui si parla di un costo settimanale di oltre 45 mila euro in alta stagione per una delle tre ville del resort extra lusso, famoso anche per aver ‘ospitato’ star come Denzel Washington e Brad Pitt.
Il settimanale ha raccontato come il volo per Parigi del 27 dicembre 2008 che Pietro Daccò, il consulente arrestato con l’accusa di aver dirottato fondi neri dal San Raffaele e dalla fondazione Maugeri, avrebbe pagato a Formigoni e al fratello sarebbe solo la prima tappa del volo per i Caraibi. D’altronde, Giancarlo Grenci, il custode dei conti svizzeri di Daccò, ai magistrati ha parlato di vacanze di Daccò (e dell’ex assessore Antonio Simone, anche lui arrestato) con Formigoni a Saint Martin, cioè “l’aeroporto caraibico – sottolinea il settimanale – da cui si raggiunge Anguilla”. “Cifre simili – prosegue l’articolo – non si saldano in contanti: se il governatore ha pagato la sua quota, non avrà problemi a scegliere la linea della trasparenza e dimostrarlo ai cittadini”.
Grenci ha detto che Daccò “risolveva problemi relativi a rimborsi e finanziamenti per enti che facevano fatica ad ottenerli dalla Regione” e ha aggiunto che questo “più che su competenze specifiche si fondava su relazioni personali e professionali che Daccò aveva in Regione“. Nell’ordine di custodia cautelare di Daccò viene contestata una consulenza da 2 milioni 950 mila euro alla Maugeri. E l’Espresso sottolinea che il giorno dopo quel volo del 2007 è entrata in vigore una legge regionale che stanziava “fiumi di denaro pubblico per migliorare le strutture private”, una legge che, secondo l’Espresso, i tecnici regionali chiamavano legge Daccò e che permise alla Maugeri di ottenere 30 milioni di euro. “Il pool di pm coordinati da Francesco Greco adesso dovrà fare luce sulla destinazione finale dell’enorme provvista estera creata da Daccò e Simone. Nelle procure di Milano, Monza e Brescia – conclude l’Espresso – ci sono nuovi provvedimenti che a breve potrebbero dare altre scosse al Pirellone”.
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Montecitorio come un supermarket: la spesa esce di nascosto dalla Camera.
Questa sera in onda il servizio delle Iene che documenta un misterioso viavai di derrate alimentari dal retro del Parlamento.
Un misterioso “giro” di derrate alimentari dentro e fuori Montecitorio. A documentarlo sono state Le Iene che questa sera alle 21.10 su Italia1 manderanno in onda il servizio di Filippo Roma registrato mercoledì scorso, in cui due uomini in camice bianco escono dal retro della Camera, a piazza del Parlamento 24, con alcune buste che contengono viveri della spesa e su cui campeggia la scritta ‘Camera dei Deputati’. Come se Montecitorio fosse un supermarket.
La Iena e il suo cameraman sono lì per girare un servizio sul finanziamento ai partiti quando intravedono uscire due uomini col camice. Uno in borghese, l’altro in divisa da banconista della buvette. Hanno chiesto loro dove andavano, se quello che portavano fosse per qualcuno e pagato coi soldi pubblici, ma loro erano imbarazzati. Uno dei due afferma vagamente che “sono per qualcuno”, mentre l’altro si limita a ripetere più volte: “Io non so niente”. Poi si rifugiano in un bar. Fino a che, dopo una telefonata, rientrano alla Camera.
“Io una scena del genere non l’ho mai vista in vita mia”, afferma nel servizio il giornalista del Corriere Sergio Rizzo dopo aver visto il filmato. L’inviato gli chiede se si possa “portar fuori dalla Camera il cibo di proprietà della Camera?” ma Rizzo lo esclude “nel modo più tassativo. Mi pare che la Camera dei Deputati non sia un supermercato”. Nel servizio che verrà trasmesso stasera l’inviato avvicina le due persone riprese per raccogliere la loro versione dei fatti: una afferma vagamente che “sono per qualcuno”, mentre l’altro si limita a ripetere più volte: “Io non so niente”.
La Iena e il suo cameraman sono lì per girare un servizio sul finanziamento ai partiti quando intravedono uscire due uomini col camice. Uno in borghese, l’altro in divisa da banconista della buvette. Hanno chiesto loro dove andavano, se quello che portavano fosse per qualcuno e pagato coi soldi pubblici, ma loro erano imbarazzati. Uno dei due afferma vagamente che “sono per qualcuno”, mentre l’altro si limita a ripetere più volte: “Io non so niente”. Poi si rifugiano in un bar. Fino a che, dopo una telefonata, rientrano alla Camera.
“Io una scena del genere non l’ho mai vista in vita mia”, afferma nel servizio il giornalista del Corriere Sergio Rizzo dopo aver visto il filmato. L’inviato gli chiede se si possa “portar fuori dalla Camera il cibo di proprietà della Camera?” ma Rizzo lo esclude “nel modo più tassativo. Mi pare che la Camera dei Deputati non sia un supermercato”. Nel servizio che verrà trasmesso stasera l’inviato avvicina le due persone riprese per raccogliere la loro versione dei fatti: una afferma vagamente che “sono per qualcuno”, mentre l’altro si limita a ripetere più volte: “Io non so niente”.
Escort e bugie: Berlusconi indagato a Bari con Lavitola. “Spinse Tarantini a mentire”. - di Vincenzo Iurillo e Antonio Massari
Entrambi accusati dello stesso reato in concorso: induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Valterino Lavitola in carcere ha scoperto di avere un coindagato coi fiocchi: Silvio Berlusconi. La Procura di Bari guidata da Antonio Laudati accusa l’ex premier e l’ex direttore de L’Avanti! dello stesso reato in concorso: induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Si tratta della vicenda delle escort che l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini ha portato negli anni scorsi nelle residenze del Cavaliere. Il nome di Berlusconi in qualità di indagato compare sull’avviso di proroga delle indagini che gli inquirenti baresi hanno notificato l’altro ieri a Lavitola quando era già a Poggioreale, con in mano l’ordinanza di custodia cautelare per truffa e corruzione internazionale firmata dal Gip di Napoli Dario Gallo.
Per i magistrati di Bari, su istigazione dell’allora capo del governo e in cambio di almeno 500. 000 euro ricevuti da Berlusconi, Lavitola ha indotto Tarantini a rendere dichiarazioni false nel procedimento relativo al giro di escort e in particolare, scrisse il Riesame di Bari a febbraio, in due verbali datati 29 e 31 luglio 2009 “reticenti e a tratti mendaci in merito al coinvolgimento del premier”. Tarantini ha sempre sostenuto che Berlusconi era ignaro di andare a letto con delle prostitute. Lavitola avrebbe avuto il ruolo di “intermediario” tra Berlusconi e Tarantini e di “concorrente dell’autore materiale del reato”, che secondo le ricostruzioni dell’accusa è Berlusconi, inducendo l’imprenditore barese a patteggiare la pena per non fare depositare le sue compromettenti conversazioni telefoniche con l’ex premier. E ieri Lavitola ha “cantato” per quasi sette ore con i pm di Napoli Curcio e Woodcock, e il Gip Gallo, quest’ultimo pure per conto degli inquirenti di Bari.
Lavitola ha prima risposto a domande sull’inchiesta partenopea. E in particolare sui 5 milioni di euro che, secondo la sorella di Lavitola, il faccendiere avrebbe chiesto a Berlusconi in cambio del silenzio, e sull’indebita percezione di più di 23 milioni di euro di contributi pubblici per l’editoria. Una parte dell’interrogatorio ha riguardato le accuse di corruzione internazionale in relazione al suo ruolo di consulente Finmeccanica e di plenipotenziario di fatto del governo Berlusconi a Panama. Decine di milioni di euro di tangenti, mediate attraverso la società “Agafia corp” amministrata – sostengono i pm – da una prestanome amante di Lavitola. Per oliare il tutto, una delle controllate di Finmeccanica, “Agusta”, avrebbe promesso al presidente panamense Ricardo Martinelli un elicottero da 8 milioni di dollari. Un’accusa corroborata da intercettazioni e da una email richiamata nell’ordinanza di arresto, “assolutamente chiara e inequivoca sulla destinazione dell’ elicottero a Martinelli, il presidente di Panama. In questo caso si ha una conferma alle dichiarazioni accusatorie del Velocci (testimone chiave dell’inchiesta). Il Lavitola, infatti, comunicava al figlio del presidente che bisognava incontrarsi”. Esiste infatti una mail inviata da Martinelli a Valter Lavitola alle 17. 29 del 12 febbraio 2011: “Amico, quando verrai la prossima settimana, chiudimi tutte le questioni di cui ho parlato con Mauro oggi (l. Elicottero 2. Modulari). Per l’elicottero non c ‘è fretta. Saluti, R”.
La formalizzazione dell’accusa nei confronti di Berlusconi, che prevede una pena da 2 a 6 anni di carcere, firmata dal procuratore aggiunto di Bari Pasquale Drago, è collegata a una parte delle oltre 100mila intercettazioni acquisite nel corso delle indagini su Tarantini. In quelle telefonate ci sarebbe la “prova evidente” della volontà del Cavaliere di incaricare Lavitola per indurre Tarantini al silenzio rispetto alle vicende delle escort. Un silenzio ricompensato dall’impegno di Berlusconi di farsi carico “della situazione di Tarantini” a suon di centinaia di migliaia di euro.
Tra gli argomenti del Tribunale del Riesame di Napoli, che aveva disposto il trasferimento degli atti di indagine a Bari, si legge infatti che Berlusconi ”era pienamente consapevole che le ragazze portate nelle sue residenze da Giampaolo Tarantini erano delle escort”. E solo il suo silenzio avrebbe garantito all’ex premier lo scudo necessario per continuare a definirsi, aldilà delle evidenze, “utilizzatore finale inconsapevole”. E il costo del silenzio, concordato da Lavitola, era alto: 20mila euro al mese per un totale di 850mila euro. Da cui è escluso un altro mezzo miliardo di euro, di cui slo un quinto è arrivato nelle tasche dell’imprenditore barese.
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Per i magistrati di Bari, su istigazione dell’allora capo del governo e in cambio di almeno 500. 000 euro ricevuti da Berlusconi, Lavitola ha indotto Tarantini a rendere dichiarazioni false nel procedimento relativo al giro di escort e in particolare, scrisse il Riesame di Bari a febbraio, in due verbali datati 29 e 31 luglio 2009 “reticenti e a tratti mendaci in merito al coinvolgimento del premier”. Tarantini ha sempre sostenuto che Berlusconi era ignaro di andare a letto con delle prostitute. Lavitola avrebbe avuto il ruolo di “intermediario” tra Berlusconi e Tarantini e di “concorrente dell’autore materiale del reato”, che secondo le ricostruzioni dell’accusa è Berlusconi, inducendo l’imprenditore barese a patteggiare la pena per non fare depositare le sue compromettenti conversazioni telefoniche con l’ex premier. E ieri Lavitola ha “cantato” per quasi sette ore con i pm di Napoli Curcio e Woodcock, e il Gip Gallo, quest’ultimo pure per conto degli inquirenti di Bari.
Lavitola ha prima risposto a domande sull’inchiesta partenopea. E in particolare sui 5 milioni di euro che, secondo la sorella di Lavitola, il faccendiere avrebbe chiesto a Berlusconi in cambio del silenzio, e sull’indebita percezione di più di 23 milioni di euro di contributi pubblici per l’editoria. Una parte dell’interrogatorio ha riguardato le accuse di corruzione internazionale in relazione al suo ruolo di consulente Finmeccanica e di plenipotenziario di fatto del governo Berlusconi a Panama. Decine di milioni di euro di tangenti, mediate attraverso la società “Agafia corp” amministrata – sostengono i pm – da una prestanome amante di Lavitola. Per oliare il tutto, una delle controllate di Finmeccanica, “Agusta”, avrebbe promesso al presidente panamense Ricardo Martinelli un elicottero da 8 milioni di dollari. Un’accusa corroborata da intercettazioni e da una email richiamata nell’ordinanza di arresto, “assolutamente chiara e inequivoca sulla destinazione dell’ elicottero a Martinelli, il presidente di Panama. In questo caso si ha una conferma alle dichiarazioni accusatorie del Velocci (testimone chiave dell’inchiesta). Il Lavitola, infatti, comunicava al figlio del presidente che bisognava incontrarsi”. Esiste infatti una mail inviata da Martinelli a Valter Lavitola alle 17. 29 del 12 febbraio 2011: “Amico, quando verrai la prossima settimana, chiudimi tutte le questioni di cui ho parlato con Mauro oggi (l. Elicottero 2. Modulari). Per l’elicottero non c ‘è fretta. Saluti, R”.
La formalizzazione dell’accusa nei confronti di Berlusconi, che prevede una pena da 2 a 6 anni di carcere, firmata dal procuratore aggiunto di Bari Pasquale Drago, è collegata a una parte delle oltre 100mila intercettazioni acquisite nel corso delle indagini su Tarantini. In quelle telefonate ci sarebbe la “prova evidente” della volontà del Cavaliere di incaricare Lavitola per indurre Tarantini al silenzio rispetto alle vicende delle escort. Un silenzio ricompensato dall’impegno di Berlusconi di farsi carico “della situazione di Tarantini” a suon di centinaia di migliaia di euro.
Tra gli argomenti del Tribunale del Riesame di Napoli, che aveva disposto il trasferimento degli atti di indagine a Bari, si legge infatti che Berlusconi ”era pienamente consapevole che le ragazze portate nelle sue residenze da Giampaolo Tarantini erano delle escort”. E solo il suo silenzio avrebbe garantito all’ex premier lo scudo necessario per continuare a definirsi, aldilà delle evidenze, “utilizzatore finale inconsapevole”. E il costo del silenzio, concordato da Lavitola, era alto: 20mila euro al mese per un totale di 850mila euro. Da cui è escluso un altro mezzo miliardo di euro, di cui slo un quinto è arrivato nelle tasche dell’imprenditore barese.
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