lunedì 9 luglio 2012

'No a chirurgia estetica per sindrome down'.


Comitato bioetica, no a chirurgia estetica per sindrome down

Pubblicato parere comitato bioetica: non si realizza beneficio per persona.

Giorgia, a 5 anni, aveva già subito diversi interventi di chirurgia estetica per 'cancellare' i tratti della sindrome di Down da cui è affetta, mentre i genitori di Ophelia, di soli due anni, si erano detti pronti a farla operare una volta compiuti i 18 anni. Nel 2008, questi due casi suscitarono grande scalpore in Gran Bretagna, aprendo un dibattito che continua ancora oggi. Ma ricorrere alla chirurgia per soli fini estetici sui bambini Down è eticamente giustificabile? No secondo il Comitato nazionale di bioetica (Cnb), che ha pubblicato un parere proprio su tale questione.
Il fenomeno, affermano associazioni ed esperti, è tuttavia difficile da fotografare, dal momento che non esistono stime ufficiali. Il tema però ha accesso il dibattito, in primo luogo tra le associazioni, che sottolineano come l'accettazione sociale dei 'Down' non passi certamente dal solo aspetto fisico. Netta la posizione del Cnb espressa nel parere su 'Aspetti bioetici della chirurgia estetica e ricostruttiva': Il Cnb "non ritiene lecita la chirurgia estetica su bambini o adulti incapaci con sindrome di Down, finalizzata alla conformazione a canoni sociali di 'normalità', specie se con un carattere invasivo e doloroso, considerato anche che con questi interventi difficilmente si realizza un beneficio per la persona".
Per gli interventi sui minori e incapaci, afferma ancora il Comitato, devono esserci "limiti alla liceità, a meno che tali interventi non rispondano al loro esclusivo interesse oggettivo sotto il profilo della salute, tenuto in particolare conto dell'età adolescenziale. Va anche garantita - rileva il Cnb - una protezione dei minori vietando forme di pubblicità e di servizi televisivi che provochino il rifiuto della propria immagine". Questi interventi "non hanno alcun tipo di giustificazione e, ad ogni modo, in Italia sono pochissimi", afferma la coordinatrice nazionale dell'Associazione italiana persone Down, Anna Contardi, commentando con "grande favore" il parere del Cnb. "Come associazione - afferma - siamo assolutamente contrari a questo tipo di interventi, a meno che non vi siano ovviamente motivazioni di tipo medico-sanitario. Infatti, non esiste alcuna prova che un'operazione di chirurgia estetica migliori l'accettazione che la persona o il bambino Down ha di sé.
Al contrario, alcune ricerche dimostrano come il mutamento d'aspetto spesso sia controproducente". Ciò perché, spiega Contardi, "la riconoscibilità della patologia in vari casi aiuta la presa di coscienza circa la propria identità da parte della persona Down, e allo stesso tempo promuove relazioni e comportamenti di aiuto da parte degli altri". Conferma che il fenomeno non è riscontrabile, almeno ufficialmente, in Italia, anche il chirurgo Giulio Basoccu, responsabile della Divisione di Chirurgia Plastica, Estetica e Ricostruttiva dell'Istituto Neurotraumatologico Italiano (Ini) e membro della Società italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica (Sicpre): "Questi tipo di interventi ci lascia molto perplessi, anche perché l'esigenza di mutare aspetto parte in realtà - commenta - dai familiari e non dal soggetto Down coinvolto".


«Diesel cancerogeno», il Codacons: sequestrare tutti i veicoli



MILANO - «La notizia dei giorni scorsi, secondo la quale, per l'Organizzazione Mondiale della Sanità, i gas di scarico dei motori diesel causano certamente il tumore ai polmoni negli essere umani, ha indotto il Codacons a presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Milano per chiedere il sequestro di tutti i veicoli diesel esistenti sul territorio della città di Milano e provincia». Lo annuncia la stessa associazione che nell'esposto, già depositato, scrive: «si chiede, inoltre, che il Procuratore della Repubblica adito voglia accertare il pericolo che la libera disponibilità dei veicoli diesel possa aggravare o protrarre le conseguenze di cui in narrativa e, quindi, voglia ordinare il sequestro preventivo ex artt. 321 c.p.p. di tutti i veicoli alimentati a diesel presenti sul territorio della città di Milano e provincia».

«L'associazione di consumatori chiede anche alla Procura di »accertare la responsabilità del Sindaco pro tempore di Milano e del Presidente della Lombardia per le ipotesi di violazione di legge che si evincono in narrativa«, in particolare rispetto ai reati di omissione di atti d'ufficio (328 c.p.) e getto pericoloso di cose (674 c.p.). La decisione del Codacons di presentare un nuovo esposto» deriva dalle conclusioni a cui è giunta il 12 giugno u.s. l'Oms. In precedenza, infatti, i gas di scarico dei diesel erano definiti solo «probabilmente» cancerogeni.

La mancanza di una prova certa della correlazione tra smog e patologie aveva reso difficile in questi anni poter procedere penalmente nei confronti dei sindaci e dei presidenti di regione eventualmente inadempienti. Ma ora questo studio apre nuovi scenari e rende possibile procedere con maggior successo sia per il reato di getto pericolose di cose che per quello di omissione d'atti d'ufficio. Oggi, infatti, come ha dichiarato il presidente del Circ Christopher Portier, «le prove scientifiche sono inconfutabili e le conclusioni del gruppo di lavoro sono state unanimi: le emanazioni dei motori diesel causano il tumore del polmone».

Per questo i gas di scarico sono stati classificati nel «gruppo 1», quello appunto delle sostanze cancerogene certe, mentre in precedenza erano annoverati nel «gruppo 2» delle sostanze «probabilmente» cancerogene per l'uomo. "La prova inconfutabile del legame tra i gas di scarico dei motori diesel e la diffusione del cancro rende necessario un intervento straordinario da parte della Procura, a tutela della salute dei cittadini. Da qui la richiesta di sequestro dei veicoli diesel, dato che sono una fonte di morte certa" ha dichiarato il presidente del Codacons, Marco Maria Donzelli.

Fiat, Maugeri, British Tobacco: ecco dove finiscono i fondi europei per la ricerca. - Thomas Mackinson

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Il Pon, programma operativo nazionale gestito dal ministero dell'Istruzione e della Ricerca è il principale canale europeo di cofinanziamento europeo dello sviluppo. Per il periodo 2007-2013, viale Trastevere si è visto assegnare 6,2 miliardi di euro. Ecco dove finiscono, tra progetti di ricerca e finanziamenti, mentre il governo taglia con la spending review 270 milioni di euro ai fondi ordinari destinati agli atenei.

Un milione di euro alla ricerca sul cancro e altrettanto all’industria del tabacco. Trenta milioni alla Fiat, sette alla Fondazione Maugeri dello scandalo Daccò-Formigoni. E ancora soldi pubblici a progetti per valorizzare “giacimenti culturali diffusi”. Sono alcuni dei 4mila programmi di ricerca finanziati con fondi nazionali ed europei sotto la vigilanza del Miur, il ministero cui la spending review del governo riserva 270 milioni di tagli tra fondo ordinario atenei ed enti di ricerca come il Cnr e l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Razionalizzazione sì, insomma, anche se i rubinetti da chiudere potrebbero essere altri. Nessuno infatti sembra essersi accorto che c’è un fiume di denaro pubblico molto più consistente, oltre 6 miliardi di euro, che attraverso il Miur passa e va a finanziare i soliti noti prosciugando il deserto italiano della ricerca. 
Si chiama Pon ed è l’acronimo di Programma operativo nazionale “Ricerca e competitività”. Dal 2000 è il principale canale di cofinanziamento europeo allo sviluppo dell’economia italiana. Il budget assegnato all’Italia per il periodo 2007-2013 è di 6,2 miliardi ripartiti a metà tra fondi comunitari (Fesr e Fse) e fondi nazionali. I beneficiari finora sono stati quasi 4mila per 2 miliardi di euro già erogati. Altri progetti sono in corso di validazione da parte del Miur e del Mse e saranno ammessi fino a esaurimento scorte. 
A scandagliare l’elenco si trova di tutto: sviluppo di soluzioni energetiche innovative, farmaci, bio e nanotech, università, ospedali. Una manna dal cielo per le imprese, per il Mezzogiorno e per la ricerca nazionale, in teoria. Nella pratica un finanziamento diretto all’industria nazionale e un rubinetto di spesa aperto che finanzia di tutto. Fiat totalizza 31 linee di finanziamento per 30 milioni di euro, la galassia Finmeccanica, tra Selex e Ansaldo porta a casa 22,2 milioni. Seguono migliaia di programmi per importi minori nei quali i soldi pubblici vanno letteralmente in fumo. Tra i beneficiari del Pon, infatti, c’e la British American Tobacco Italia (ex Ente Tabacchi Italiani Spa privatizzata nel 2003) che produce e commercializza sigarette con i marchi Lucky Strike, Pall Mall, Ms. Il Miur ha erogato alla società fondi per un milione di euro. Lo Stato che disincentiva il consumo di tabacco (con le accise e con campagne di sensibilizzazione) poi ne finanzia direttamente l’industria. Ancora più paradossale è che nello stesso elenco spunti un finanziamento di pari importo per la diagnosi e la cura del cancro a beneficio dell’Università Federico II di Napoli, del Cnr di Palermo e di due aziende private di ricerca. 
Nel privato salta fuori la famosa Fondazione Maugeri, quella per cui sono finiti nei guai il governatore lombardo Formigoni e il faccendiere Daccò: tra il 2008 e il 2011 ha ricevuto quasi otto milioni di euro. Non mancano progetti dai nomi e dalle finalità curiosi come il “corso di alta formazione per esperto in Experience design” da 250mila euro o quello della campana “Cemsac” che ha ricevuto quasi 2,8 milioni di euro per programmi dai titoli  come “DiGiCult, Valorizzazione di giacimenti culturali diffusi” o il progetto “NeoLuoghi: soluzioni per l’esperienza culturale nei luoghi elettivi della submodernità”.
Con i fondi ricevuti dall’Europa il pubblico foraggia anche e soprattutto se stesso. Specie quando orbita vicino alla politica. Nel calderone dei beneficiari Pon spuntano le agenzie tecniche create dai governi per supportare le politiche nei settori strategici e che sono diventate in breve tempo lo snodo per distribuzione di risorse. “Promuovitalia”, l’agenzia controllata dall’Ente nazionale per il Turismo (Enit), solo nel 2011 è costata allo Stato 26 milioni di euro in spese di struttura, i suoi dipendenti sono passati da una trentina a un centinaio nel giro di due anni con un monte stipendi lievitato da 768mila euro a 6 milioni. Un’inchiesta dell’Espresso di febbraio ha messo in fila anche i numeri dei progetti promossi e finanziati dall’agenzia, molti dei quali si sono rivelati rubinetti aperti o imprese temerarie come il libro “Qualità Abruzzo” sull’enogastronomia della regione e al sito dell’Osservatorio nazionale del turismo, che si è mangiato 1,8 milioni di euro. A fronte di risultati scarsi (e di interrogazioni parlamentari), l’agenzia ha ottenuto altri fondi proprio grazie al Pon: 8,5 milioni di euro nel 2009 e 19 milioni nel 2011. Soldi che non saranno redistribuiti direttamente alle imprese ma resteranno nel perimetro della cosa pubblica: Promuovitalia, infatti, li utilizzerà fino al 2015 per “rafforzare le capacità isitituzionali della Direzione Generale del Ministero dello Sviluppo Economico per l’incentivazione della attività imprenditoriali (DGIAI)”. Stesso discorso per Invitalia, che al Pon “stacca” 36 milioni di euro
A volte i fondi restano a chi li dovrebbe assegnare. Per gestire la macchina delle assegnazioni il Miur storna dal Pon una montagna di soldi: 40 milioni di euro. Fondi che vengono utilizzati per realizzare le iniziative in proprio o che vanno dritto nelle mani di imprese che faranno il lavoro al posto del ministero, sotto forma di commessa diretta o appalto esterno. Sempre con il bollino europeo. L’appalto per creare la “rete” nazionale che riceverà e destinerà i fondi europei Pon tra 2007 e 2013 è stato aggiudicato nel 2008 con un budget da 33,1 milioni di euro, 3,9 per il numero di anni di espletamento del servizio che durerà otto anni (fino al 31 dicembre 2016). E questi soldi arrivano sempre dal Pon. Pochi giorni fa una cordata di imprese di comunicazione si è aggiudicata l’appalto per “realizzare la progettazione e le campagne di comunicazione delle azioni, opportunità, visibilità e risultati del Pon”. In pratica si tratta di fare da gran cassa ai progetti che sono stati finanziati con il fondo. Un marketing “politico” dell’ente che impegna 4,1 milioni di euro attinti da un ben più corposo budget per la comunicazione: tra campagne mediatiche, inserzioni pubblicitarie, eventi, audiovisivi, affissioni la reclamizzazione del programma Pon su scala nazionale arriva a costare 19 milioni di euroSoldi che potevano finanziare attività magari terra-terra ma sicuramente utili, come “Voglia di pollo” del signor Bartolomeo Carella che nel 2009 ha ricevuto 128mila euro per ampliare la sua attività a Bari. Almeno in questo caso chi ci “mangia” sopra ha un volto e un nome.

Quella volta in cui Pertini disse a Craxi e Martelli: “Suicidatevi”




Sandro Pertini e Bettino Craxi non si sono mai amati. E’ ben noto che il leader socialista fece di tutto, nel 1978, per impedire l’elezione dello storico esponente del suo partito, famoso per le sue crociate anti-corruzione e per le sue posizioni, soprattutto da Presidente della Camera, contro i partiti di governo, a favore dell’unità con il PCI di Berlinguer.
Per bruciarlo, Craxi fece pubblicamente il nome di Pertini come candidato unico delle sinistre. Quando gli domandarono se sarebbe stato contento della sua elezione, il leader socialista rispose: “Contento e anche commosso.” A stretto giro di posta arrivò la replica di Pertini: “Speriamo che la commozione non sia così grande da mettere in difficoltà il partito.“
Come andò a finire è noto: Sandro Pertini fu eletto l’8 luglio 1978 con 832 voti favorevoli su 995 (maggioranza a oggi ineguagliata nella storia della Repubblica). E divenne il Presidente della Repubblica più amato di tutti i tempi.
Ma c’è un episodio poco noto, che merita di essere riportato: all’indomani delle elezioni europee del 17 giugno 1984, quelle in cui il PCI divenne il primo partito italiano con il 33,3% dei consensi, vi fu un duro scontro tra l’allora Capo dello Stato e Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Il PSI, infatti, uscì sconfitto dalla tornata elettorale: la linea di Berlinguer aveva pagato, ma lui era morto; quella di Craxi aveva perso, ma lui era vivo e avrebbe continuato a fare danni.
Di fronte al tracollo socialista, Craxi e Martelli attaccarono Pertini, secondo loro reo di aver fatto aumentare i voti del PCI trasportando il corpo di Berlinguer da Padova a Roma, sull’aereo presidenziale. La replica, durissima, arrivò fulminante:
Voi due fate una cosa. Tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi porto in aereo a Roma. Vediamo se il Psi prende voti.
La faccenda si chiuse lì, con Craxi e Martelli che, purtroppo, a Verona a suicidarsi non ci andarono (quanti guai l’Italia si sarebbe evitata). Quello che rimane di questo episodio è questo: che Sandro Pertini era veramente una grande persona.

Mustafà...



Ci sono cose che non si possono comprare...per tutto il resto c'è Mustafà!


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Il golpe inglese: neutralizzare l’Italia, da Mattei a Moro.


«Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti». Lo afferma l’editore Chiarelettere presentando “Il golpe inglese”, libro-inchiesta di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella che illumina imbarazzanti retroscena sull’influenza britannica nella storia del Belpaese, fin dalla nascita dello Stato unitario nel 1861. Tra le ombre più inquietanti, la tragica fine di Enrico Mattei e quella di Aldo Moro, personaggi-chiave dell’emancipazione politica italiana. «Dai documenti desecretati, che i due autori hanno consultato negli archivi londinesi di Kew Gardens – continua l’editore – emerge con chiarezza che non è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, ma soprattutto Londra, che non vuol perdere il controllo delle rotte petrolifere e contrasta la politica filoaraba e terzomondista di Mattei, Gronchi, Moro e Fanfani».
Per gli inglesi anche i comunisti italiani erano un’ossessione, tanto da contrastarli con ogni mezzo: persino arruolando schiere di giornalisti, La regina Elisabetta II d'Inghilterraintellettuali e politici destinati a “orientare” l’opinione pubblica e il voto degli italiani. Lo dimostra l’attività di un apposito dipartimento del Foreign Office, che lavorava proprio a questo obiettivo. «Finché si arriva al 1976, l’anno che apre al Pci le porte del governo, e a Londra progettano un golpe. Ma l’ipotesi viene alla fine scartata a favore di un’altra “azione sovversiva”: si scatena così un’ondata terroristica che culmina nell’assassinio di Aldo Moro». Dalla nascita dello Stato unitario in poi, conferma Fasanella dal blog di Beppe Grillo, l’Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. Persino in tragici fatti di sangue, come l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Per Fasanella, la longa manus di Londra è pressoché onnipresente: quando Mussolini e il fascismo presero il potere grazie anche all’appoggio dei conservatori inglesi, poi durante il ventennio «controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime», e infine al momento della caduta poi di Mussolini, «organizzando il colpo di stato del 25 luglio». Determinante l’impronta inglese «durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale», e poi anche nel dopoguerra: «Durante l’intero arco della Guerra Fredda, e anche dopo, c’è lo Winston Churchillzampino inglese», persino «in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell’ultimo ventennio», con l’ingresso nella cosiddetta “seconda repubblica”, il passaggio all’euro e l’era berlusconiana.
«Nel corso dei 150 anni di storia unitaria – afferma Fasanella – gli inglesi hanno costruito delle loro quinte colonne interne, attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana». Per l’autore de “Il golpe inglese”, i britannici «avevano un’influenza enorme nel mondo dell’informazione, nel mondo della cultura e dell’industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre forze armate e gli stessi servizi segreti italiani», e addirittura «nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana». In tutti questi ambienti, secondo Fasanella, «gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna».
Non sono mancate fasi segnate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna: «E’ successo tutte le volte che l’Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall’esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l’Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori». Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale delEnrico Matteisecondo conflitto mondiale, c’erano tre cose che l’Italia non poteva assolutamente fare: dotarsi di un sistema realmente democratico, autogestire la propria sicurezza e dispiegare una propria politica estera autonoma.
Il primo veto, quello sulla “democrazia bloccata”, derivava dalla presenza in Italia del Pci, il partito comunista più forte dell’Occidente. Ma si inglesi, rivela sempre Fasanella, non intendevano lasciare che Roma badasse da sola alla propria sicurezza. E soprattutto, Churchill non tollerava l’idea che l’Italia potesse sviluppare una politica estera indipendente, basata cioè sulla esclusiva tutela dell’interesse nazionale. «Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico», afferma Fasanella, che ricorda: «Quando l’Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi».
Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un’idea nazionale dell’Italia, cioè di un paese allineato con la Nato ma propiettato nel suo ambito naturale, quello del Mediterraneo, spiccano soprattutto due nomi: quelli di Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, e quello di Aldo Moro, l’uomo delle larghe intese col Pci di Berlinguer. Attraverso la sua politica energetica spregiudicata e coraggiosa, l’ex partigiano Mattei contribuì a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, e Moro può essere considerato il suo successore, sul piano Aldo Moropolitico. «Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo», scrive Fasanella. Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e sedici anni dopo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.
America e Inghilterra, continua l’autore de “Il golpe inglese”, non avevano la stessa visione del problema italiano: «Per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso». In passaggi delicati della nostra storia, anche drammatici come quelli a cavallo tra il ‘69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese «progettava con l’aiuto inglese un colpo di stato in Italia», gli americani si opposero. E la stessa cosa, dice ancora Fasanella, gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni ‘70, si pose il problema dell’ingresso del partito comunista nel governo italiano: «Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all’Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l’Inghilterra invece il problema doveva essere risolto Giovanni Fasanellain modo più radicale».
Fu Londra, rivela Fasanella, a tagliare la strada alla sinistra italiana che – al prezzo di continui “strappi” ideologici – stava diventando riformista. Un processo di crescente partecipazione democratica, che andava fermato a tutti i costi, «addirittura attraverso un golpe, che gli inglesi avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero». Poi però cambiarono idea e lasciarono cadere il progetto del colpo di Stato, come confermano gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica. Ma fu solo un cambio tattico, non strategico: «Il governo inglese optò per, parole testuali, l’appoggio a una diversa azione eversiva».
(Il libro: Mario Josè Cereghinon e Giovanni Fasanella, “Il golpe inglese”, editore Chiarelettere, 354 pagine, acquistabile anche on-line dal blog di Beppe Grillo).

Dovevamo arrenderci: lo decise la Cia già al G8 di Genova.



Manovre lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11 Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi, cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il “popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il bagno di sangue noto come G8 di Genova.
E’ la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce black bloc in azionedi qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi, grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei. In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc, fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.
I black bloc  «hanno un nome, ma non un volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente», dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto, sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica, quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel 2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza procedere La violenza della repressioneall’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di devastare impunemente l’intera città».
Il libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che oggi chiede la riapertura delCarlo Giuliani ormai senza vitaprocesso perché sia finalmente accertata la verità?
Allora reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi, appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi. Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto loro, gli inafferrabili black bloc.
Fracassi li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare, conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti. Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si presenta nel luogo indicato, e i black black bloc bloc arrivano con puntualità cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto innocenti.
Se a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi? Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No, c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della Gianni De Gennaroglobalizzazione. Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma no: coi black bloc.
Incolpare il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova «significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber, antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda: era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen, reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il loro modo di agire, ovunque ci siano interessi Franco Fracassi americani da difendere».
Per “G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe, a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc, ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i “neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le azioni di una formazione chiamata Black Bloc».
Ma tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda, ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?», domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa Fabio Minialle operazioni». Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il generale Mini.
Se è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi, Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’ l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi», conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».
(Il libro: Franco Fracassi, “G8 Gate”, dieci anni d’inchiesta: i segreti del G8 di Genova, Alpine Studio editore, 229 pagine, euro 14,90. Info: Alpine Studio).