Filadelfia 1913: un gruppo di sperimentatori medici “testano” la tuberculina su 15 bambini della casa per l’infanzia St. Vincent’s House. Alla fine dell’“esperimento” la maggior parte delle piccole cavie ha contratto la cecità permanente [1].
Davenport 1939: per verificare la sua teoria sulle basi della disartria sillabica, il dottor Wendell Johnson, effettua il famoso “esperimento mostro” su ventidue bambini allo Iowa Soldiers’ Orphans’ Home. Il dottor Johnson e i suoi laureandi sottopongono i bambini a una intensa pressione psicologica che provoca il passaggio da un linguaggio normale a una intensa balbuzie [2].
27 gennaio 1945: le truppe dell’Armata Rossa entrano nel campo di concentramento di Auschwitz e gli occhi del mondo si spalancano sull’orrore. Oltre alle camere a gas, ai forni crematori e ai cumuli di cadaveri c’è il “laboratorio” del dottor Josef Mengele: ambiente asettico, pareti bianche, pavimenti lucidi sono lo scenario, apparentemente innocuo e rassicurante, in cui “l’angelo della morte” utilizzava come cavie uomini, donne e bambini. Durante il processo di Norimberga l’umanità viene a conoscenza delle agghiaccianti sperimentazioni effettuate tra quelle mura. Nel tentativo di trasformare gli occhi dei bambini da scuri ad azzurri, Mengele iniettava nell’iride metilene blu, provocando nelle vittime atroci sofferenze e cecità. Al fine di verificare per quanti giorni i bambini riuscivano a sopravvivere senza bere né mangiare le piccole cavie erano private del cibo fino alla morte.
Particolare interesse suscitavano in Mengele i gemelli su cui egli sbizzarriva la sua fantasia criminale e le sue perversioni: trasfusioni incrociate di sangue, esperimenti sul midollo osseo effettuati senza alcuna anestesia, “analisi” dei capelli strappati insieme al cuoio capelluto. I gemelli venivano fotografati, sottoposti ai raggi X e a una lunga serie di esami, alcuni dei quali dolorosissimi, quindi se ne provocava la morte repentina con una iniezione di cloroformio al cuore o con un colpo alla testa. I loro organi interni venivano poi attentamente studiati. Pare che circa il 15% dei gemelli sia stato ucciso in questo modo atroce, mentre molti altri morirono durante le molteplici operazioni chirurgiche.
Oltre che dal dottor Mengele le pseudo sperimentazioni sui bambini ebrei furono condotte anche dal medico nazista Kurt Heissmeyer che utilizzò i piccoli per ricercare una profilassi contro la tubercolosi iniettando loro il virus della malattia stessa
Il 20 aprile 1945, l’esperimento era fallito, i bambini erano malati e stremati e gli inglesi erano alle porte. Da Berlino giunse l’ordine di trasferirli nella scuola amburghese di Bullenhuser Damm e di eliminarli. Un’ora prima di mezzanotte ebbe inizio il loro massacro. Quella stessa notte i cadaveri dei bambini furono cremati.
1953: l’AEC (Atomic Energy Commission) sponsorizza studi sullo iodio condotti dall’università dello Iowa. Nel primo studio i ricercatori somministrano a donne incinte tra 100 e 200 microcurie di iodio-131 e analizzano poi i feti abortiti per capire a quale stadio e in che misura la sostanza radioattiva supera la barriera della placenta. Nel secondo studio i ricercatori somministrano a 12 maschi e 13 femmine nati da meno di 36 ore, e con un peso tra i 2,4 e i 3,8 kg, iodio-131 per via orale o con iniezioni intramuscolari e misurano in seguito la concentrazione della sostanza nella tiroide dei neonati[1]
1956: Presso il Willowbrook State School di New York (1956-1970), alcuni medici iniettarono il virus dell’epatite B attivo in 800 bambini orfani, istituzionalizzati e handicappati psichici, per studiare l’eziopatogenesi dell’epatite e per sviluppare un vaccino. Gli studi iniziarono nel 1956 e si protrassero sino al 1970, quando emersero all’attenzione del pubblico. Il modulo del consenso era stato redatto in modo ingannevole. Se i genitori si fossero rifiutati di esprimere il consenso alla sperimentazione disumana, l’istituto di cura non avrebbe ammesso i loro figli. Il centro di ricerca fu in seguito chiuso, ma i responsabili non subirono alcuna condanna e non si aprì nessun iter giudiziario.
Nello stesso anno ricercatori dell’esercito americano che conducono studi segreti sulle armi biologiche, rilasciano zanzare infettate con febbre gialla su Savannah e Avon Park, per studiare la capacità degli insetti di diffondere l’infezione[1].
Si manifestano casi di febbre, malattie respiratorie, mortalità prenatale, encefalite e tifo che causano il decesso di numerosi bambini.
1957: nel corso di uno studio compiuto dall’università del Tennessee sponsorizzato dall’AEC, i ricercatori iniettano circa sessanta rad di iodio-131 a neonati sani di due – tre giorni. In seguito a questa “sperimentazione” alcuni dei neonati diventano ciechi [1].
1962: i ricercatori del Laurel Children’s Center in Maryland testano antibiotici sperimentali per le acne su bambini e continuano anche dopo che oltre la metà delle giovani cavie ha sviluppato seri danni al fegato dovuti alle medicine sperimentali [3].
1963 – 1966: Saul Krugman, ricercatore della New York University, infetta deliberatamente oltre seicento bambini disabili con virus dell’epatite per seguire l’evolversi della malattia e sperimentare l’efficacia di un nuovo vaccino [3].
1967: da uno studio pubblicato nel Journal of Clinical Investigation, si evince che in quell’anno, un gruppo di ricercatori di un’università della Pennsylvania iniettò a donne in gravidanza cortisolo radioattivo. Lo scopo era quello di verificare se la sostanza possiede la capacità di attraversare la placenta e danneggiare il feto[1].
1988 – 2001: su alcuni bambini ricoverati in dodici orfanotrofi di New York viene testata una cura sperimentale contro il virus dell’HIV. I bambini, 465 alla fine del programma, soffrono di gravi effetti collaterali (tra cui incapacità di camminare, diarrea, vomito, gonfiore delle giunture e crampi). I dipendenti degli ospizi non sanno che stanno somministrando ai bambini infettati dall’HIV farmaci sperimentali invece dei trattamenti standard contro la malattia[4].
1995: Suzanne Starr, testimonia che un dottore aveva prelevato alcuni bambini dalle montagne del Colorado per esperimenti. In quanto parte del gruppo, Suzanne era stata sottoposta a sperimentazioni che includevano privazioni ambientali fino alla psicosi forzata, iniezioni, abusi sessuali, frequenti sedute di elettroshock e controllo della mente.
1996: viene sperimentata, in Nigeria, una profilassi contro la Meningite. Si tratta di un nuovo antibiotico prodotto dalla casa farmaceutica Pfizer, il Trovan. Le cavie sono 200 bambini che hanno contratto la malattia. E’ sconcertante che la terapia a base di questo antibiotico venga mantenuta anche molti giorni dopo che i piccoli pazienti non rispondono. Diciotto bambini muoiono[1].
Delaware 2003: Michael Daddio, di due anni, muore di insufficienza cardiaca congenita. Dopo il decesso i genitori scoprono che all’età di cinque mesi, invece di essere sottoposto all’operazione standard per eliminare il difetto come affermato dai clinici, i medici avevano eseguito un’operazione chirurgica sperimentale[5].
2005: in cambio di due milioni di dollari offerti dall’American Chemical Society,propone il Children’s Health Environmental Exposure Research Study (CHEERS), in cui si prevede di esporre i bambini indigenti di un’area della Florida a sostanze chimiche tossiche per capire quali effetti producono tali sostanze sui bambini [6].
2007 – 2008: la GlaxoSmithKline, una delle più importanti aziende nel campo farmaceutico, sperimenta in Argentina un farmaco su quattordici neonati provenienti da famiglie indigenti provocandone la morte. Le famiglie vengono risarcite con poco meno di tredicimila euro.
Questo viaggio virtuale nell’inferno delle sperimentazioni sull’infanzia non è esaustivo. Purtroppo gli episodi appena elencati sono solo una parte delle raccapriccianti verità che toccano soprattutto i bambini indigenti e senza istruzione, i disabili, i detenuti, i ricoverati negli istituti di igiene mentale.
Il problema del contemperamento tra la necessità di accrescere le conoscenze scientifiche e i diritti fondamentali dell’uomo è al centro del dibattito bioetico [8]. Il documento redatto nel 1992 dal Comitato Nazionale di Bioetica evidenzia alcune cautele da rispettare per far sì che la sperimentazione sia condotta in forma lecita. Punti nevralgici per la garanzia dei diritti del soggetto che vi si sottopone sono, secondo il CNB, l’approvazione del protocollo e del materiale informativo da parte di Comitati Etici e il consenso informato, che rappresenta il criterio etico-giuridico imprescindibile di ogni sperimentazione clinica.
Rispettando tali presupposti, la sperimentazione sull’uomo si configura non solo come lecita, ma addirittura doverosa, rispondendo al principio di solidarietà.
“La Legge per Tutti” ha voluto approfondire il tema insieme al prof. Mario Sirimarco, ricercatore presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Di seguito il testo dell’interessante intervista concessaci.
La legge per Tutti: Parliamo di sperimentazioni sugli uomini. Da un punto di vista scientifico è necessario che i nuovi farmaci e gli esperimenti della tecnica medica vengano effettuati sull’uomo dopo che siano stati testati sugli animali. È necessario per favorire il progresso scientifico e salvare la vita di altre persone. Ma come è possibile conciliare ciò, da un punto di vista bioetico, con la tutela della vita dell’uomo? Come è possibile, in altre parole, contemperare la necessità di accrescere le conoscenze in ambito scientifico con la necessità di rispettare la persona e i suoi diritti fondamentali?
Mario Sirimarco: Sul punto si è espresso il Comitato Nazionale di Bioetica con il parere del 17 novembre 1992, dove si è evidenziato come la sperimentazione dei farmaci sull’uomo e sugli animali ne garantisce da un lato la sicurezza e l’efficacia, ma dall’altro pone problematiche etiche, giuridiche e scientifiche di grande importanza. Il CNB ritiene la sperimentazione sull’uomo, se attuata in maniera corretta e tale da non comportare rischi significativi, senza dubbio lecita. Essa è addirittura doverosa in quanto, oltre alle motivazioni terapeutiche, risponde ad un principio di solidarietà, dato che con la ricerca si raccolgono informazioni che, pur non avendo un’utilità immediata per chi vi si sottopone, entrano a far parte di un patrimonio comune che anticipa l’evoluzione della terapia. La sperimentazione non terapeutica richiede particolari cautele, quali l’approvazione del protocollo e del materiale informativo da parte di appositi Comitati etici, e dovrebbe essere in genere effettuata su soggetti capaci di intendere e di volere, previa acquisizione di un valido consenso informato.
La sperimentazione terapeutica configura invece un vero e proprio trattamento medico, seppur ancora di tipo sperimentale, ma richiede comunque un controllo rigoroso dei vantaggi per il soggetto che vi si sottopone e deve essere condotta dopo aver acquisito il consenso informato. Nella sperimentazione clinica dei nuovi farmaci devono essere sempre rispettate le procedure di buona pratica clinica, che devono essere portate a conoscenza dei ricercatori e dei Comitati etici che sovrintendono alle sperimentazioni.
Quanto alla sperimentazione sugli animali, essa deve rispondere ai criteri dettati dalle norme internazionali che tutelano ogni forma di vita. I modelli alternativi di sperimentazione farmacologica rappresentano un’opportunità di grande interesse, ma non possono sostituire completamente la sperimentazione sull’uomo e sugli animali.
Il documento sottolinea l’importanza della cosiddetta “farmacovigilanza”, cioè l’attività di sorveglianza sul farmaco eseguita prima e dopo la sua commercializzazione. Durante lo sviluppo clinico è infatti agevole avere una raccolta completa di tutti gli eventi avversi e stabilirne la prevalenza, per cui ogni medico deve esercitare questo tipo di controllo con sollecitudine per l’interesse comune.
Il Comitato raccomanda la promozione della ricerca scientifica di base, ricordando che molti farmaci sono nati dallo studio di processi naturali e non da sperimentazioni sugli animali o sull’uomo. Inoltre, il parere denuncia il problema dei cosiddetti “farmaci orfani”, destinati alla cura di gravi patologie, ma che non vengono sviluppati per ragioni economiche. Lo Stato e le Organizzazioni Internazionali dovrebbero pertanto predisporre degli incentivi affinché l’industria farmaceutica, protagonista indiscusso dello sviluppo farmacologico, investa anche nei settori di ricerca meno remunerativi.
LLPT: Il consenso volontario e informato delle persone che si sottopongono a sperimentazioni mediche rappresenta il criterio etico-giuridico imprescindibile di ogni sperimentazione clinica. Esso è infatti manifestazione della libertà di disporre del proprio corpo. In alcuni casi, chi si sottopone a trattamenti sperimentali riceve una retribuzione economica. Dunque, proprio perché esiste questo condizionamento economico, è corretto affermare che l’individuo sia pienamente libero di scegliere? Come peraltro si concilia questa libertà con il divieto, previsto dal nostro ordinamento, degli atti di disposizione del proprio corpo (tant’è che per la donazione del rene è dovuta intervenire una apposita legge speciale)?
M.S.: Credo che la scelta di sottoporsi a trattamenti sperimentali sia comunque una scelta libera che non presupponga alcun tipo di forzatura. Nessuno, infatti, costringe il soggetto che dà la sua disponibilità a svolgere su di sé sperimentazioni farmacologiche: il fatto che riceva un compenso per farlo di per sé non rappresenta una costrizione e certamente non costituisce una violazione dell’autonomia personale. Del resto vi sono numerose attività faticose e rischiose che gli uomini scelgono di svolgere in cambio di denaro e nessuno si scandalizza o sostiene che si tratta di limitazioni dell’autonomia di queste persone. Altra cosa è invece il commercio di organi vitali, come il rene, perché è ritenuto offensivo della dignità umana e assai pericoloso per la salute. Tuttavia non è esatto affermare che vi è il divieto degli atti di disposizione del corpo umano nel nostro ordinamento: in realtà esso riguarda solo gli organi e tessuti vitali, mentre per quelli non vitali non sussiste divieto.
LLPT: Sulla base del principio di autonomia, al paziente viene riconosciuta la libertà di operare delle scelte, ottenendo adeguate informazioni sulle sperimentazioni cui si sottopone. Tuttavia, trattandosi di terapie sperimentali, nemmeno i medici sono in grado di fornire certezze o risultati precisi. Detto ciò, possiamo affermare che l’autodeterminazione del paziente sia effettiva? Non corriamo il rischio di cadere in una profonda ipocrisia?
M.S.: Effettivamente il tema dell’incertezza della scienza è centrale nel dibattito bioetico sviluppatosi negli ultimi tempi. A questa incapacità della scienza di offrire certezze deve supplire il diritto che diventa il protagonista indiscusso della scena. Ultimamente, infatti, soprattutto per quanto concerne il settore biologico, si assiste alla difficoltà da parte della scienza di garantire quella che dovrebbe essere la sua caratteristica più specifica: prevedere i fenomeni per poter elaborare leggi scientifiche. Ciò, di fatto, costringe il diritto a farsi carico di questo deficit scientifico, inducendolo a risolvere per via normativa i dubbi e le irresolutezze che la scienza pone.
Ora per quanto concerne nello specifico il problema dell’effettiva autodeterminazione del paziente, affinché essa possa essere realmente garantita, occorre dare applicazione al principio del consenso informato che consiste nell’accettazione volontaria da parte di un paziente del trattamento che gli viene proposto da un medico. Il consenso deve sempre essere richiesto, in quanto è l’unica espressione che autorizza un qualsiasi atto medico. Una volta concesso, il consenso da parte del paziente può essere revocato in qualsiasi momento.
L’obbligo di richiedere il consenso si può estrapolare da alcuni articoli della Costituzione, del Codice Penale, del Codice Civile, del Codice di Deontologia Medica; inoltre è stato ribadito da una Convenzione del Consiglio d’Europa (Oviedo 1997) sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, ratificata anche dall’Italia.
In pratica, però, in Italia non esiste, nel Diritto Sanitario, una normativa univoca ed esauriente, per cui la materia si presta ad alcune ambiguità.
LLPT: La problematica relativa alle sperimentazioni sull’uomo ha implicazioni non solo in ambito scientifico, ma soprattutto in ambito etico e morale. I limiti individuati dalla scienza si rivelano arbitrari. È possibile individuare un criterio oggettivo, un parametro saldo che concili scienza ed etica?
M.S: Questa domanda nasconde il seguente interrogativo: quale atteggiamento occorre assumere nei confronti del progresso scientifico? La filosofia oggi si pone tale quesito e offre diverse risposte, spesso contrastanti: da un lato si propone una “filosofia del dominio”, che conduce a forme di interventismo febbrile, a modificazioni non pianificate, a edificazioni che sono in realtà distruttive; sottovaluta, in nome del suo attivismo, le conseguenze, l’imprevedibilità, la complessità delle situazioni. Dall’altro lato si prospetta una “filosofia della sottomissione”, la quale, timorosa delle conseguenze del progresso, in special modo di quello biotecnologico, insiste sulla pericolosità ed empietà di qualunque intervento. Si serve della nozione di complessità per mostrare l’inopportunità di ogni modifica e di ogni costruzione. All’incomposto attivismo dei dominatori si contrappone una sorta di estremismo della cautela. Come da più parti sostenuto, entrambe le impostazioni andrebbero respinte a vantaggio di una “filosofia della responsabilità”, che si ponga in una posizione intermedia fra l’affermazione di una indiscutibile e incontenibile legittimità dello sfruttamento della natura e l’estremizzazione dell’esigenza, quasi religiosa, della sua tutela.
È necessario riconoscere i benefici delle tecnologie, ma al tempo stesso, porre dei limiti al loro utilizzo quando si ritiene che ce ne sia bisogno. Tutto ciò va fatto mantenendo un perfetto equilibrio fra le opposte esigenze di progresso dell’umanità e di protezione della natura. Occorre sostituire all’etica intesa come sistema coerente e chiuso di regole, un’etica flessibile che sappia valutare i costi, stabilire le priorità, definire i valori, attribuire le responsabilità, garantire l’equa condivisione dei rischi e dei vantaggi, e che sappia far questo restando aperta al mutamento continuo delle circostanze e delle condizioni di vita e all’evoluzione degli stessi valori, orientandosi e ri-orientandosi ogni volta che sia necessario. Una simile etica, potrebbe essere definita come un sistema aperto tra altri sistemi aperti. Bisogna prendere coscienza che l’etica tradizionale non risulta più del tutto adeguata alle attuali esigenze, dovendo fare i conti con una nuova realtà rispetto al passato. Inoltre non va trascurato un aspetto fondamentale: l’uomo, oggi, tende a dare all’etica riferimenti poco precisi, essendo divenuto al tempo stesso sia soggetto che oggetto delle azioni di cui si giudica la moralità. In altre parole, egli, ormai, non si limita a rivolgere la propria azione esclusivamente al mondo delle cose, come avveniva in passato, ma la dirige sempre di più verso se stesso, verso la sua biologia.
[1] Fonte: http://www.newstarget.com/.
[3] Human Experiments: A Chronology of Human Research by Vera HassnerSharav.
[4] New York City ACS, Doran.
[5] Willened Evans, “Parents of Babies Who Died in Delaware Tests Weren’t Warned”.
[6] Organic consuming association.
[7] Art 9 comma 1 Cost.“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, Art. 33 comma 1 “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.
[8] Bioetica, etimologicamente dal greco antico “Bios” vita, “etos” costume. Il termine viene coniato nel 1971 dall’oncologo americano Van Rensselaer Potter che la definisce “etica applicata alla vita, scienza della sopravvivenza.”